Iran, i conservatori vincono le elezioni in un mare di astensioni
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Iran, i conservatori vincono le elezioni in un mare di astensioni

Come previsto, i conservatori hanno ottenuto il controllo dell'assemblea alle elezioni parlamentari iraniane con almeno 221 seggi su 290

Elezioni in Iran
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

23 Febbraio 2020 - 16.29


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Gli ultra conservatori vincono in un mare di astensioni. L’affluenza alle elezioni parlamentari iraniane di venerdì scorso è stata del 42,57%: lo ha annunciato il ministro dell’Interno Abdolréza Rahmani Fazli.

Si tratta dell’affluenza più bassa per uno scrutinio del genere dalla proclamazione della Repubblica islamica nel 1979. Prima del voto il ministero dell’Interno aveva indicato che in ciascuna delle dieci elezioni legislative.

Come previsto, i conservatori hanno ottenuto il controllo dell’assemblea alle elezioni parlamentari iraniane con almeno 221 seggi su 290: è quanto emerge dai risultati finali del voto. Il secondo round delle parlamentari, per i 14 seggi rimanenti, sarà il 17 aprile Secondo Farsnews l’ex generale dei Pasdaran ed ex sindaco di Teheran, Mohammad Bagher Qalibaf, ha ottenuto 1.265.28 voti.

Qalibaf viene indicato come un potenziale capo del Parlamento. Che potrebbe rappresentare, secondo alcuni osservatori, il candidato dei conservatori per le prossime elezioni presidenziali, nel 2021. Con la vittoria alle parlamentari, gli ultraconservatori hanno creato le basi per poter affermarsi anche nelle presidenziali del 2021. Seguono le altre due figure di spicco dei conservatori: Mostafa Mir-Salim, già ministro della Cultura negli anni ’90, e Morteza Agha-Teherani, con meno di 900mila voti ciascuno.

Urne disertate

La Guida suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei si è scagliato contro i media stranieri accusandoli di avere cercato di “convincere le persone a non votare con il pretesto della diffusione di un virus (il coronavirus, che in Iran ha finora provocato 8 morti, ndr)”. Lo riporta la tv di Stato iraniana.. Questi media, ha detto, “hanno iniziato un’enorme propaganda negativa” volta a “minare” la partecipazione degli elettori. L’astensionismo nella capitale Teheran avrebbe addirittura raggiunto un picco del 73 per cento. Nelle due precedenti elezioni parlamentare, 2016 e 2012, l’affluenza era stata rispettivamente del 62 e del 66 per cento. Il fronte dei “principalisti” – il campo che unisce i conservatori e radicali che seguono alla lettera le direttive rivoluzionarie del fondatore della Repubblica Islamica, Ruhollah Khomeini, e che si riconoscono oggi nella leadership del suo successore Ali Khamenei – ha capitalizzato nelle urne due anni di delegittimazione di colui che più di altri (all’infuori forse del suo ministro degli Esteri, Mohammad Javad Zarif) ha creduto alla normalizzazione dei rapporti con il Grande Satana e che per questa ingenuità potrebbe ora pagare, insieme all’intero campo riformista di cui è l’esponente più in vista, il più caro prezzo elettorale: il presidente Hassan Rouhani.

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A favorire questa svolta conservatrice è stata l’alta astensione, provocata non dalla paura del coronavirus, che negli ultimi giorni si è diffusa nel Paese, ma dalla delusione di una larga fetta dell’elettorato non mantenute dal presidente “riformatore” .Promesse relative in particolare alla liberalizzazione interna e alla distensione con gli Usa e l’Occidente in generale. Un progetto tuttavia fallito anche per la decisione di Washington di ritirarsi dall’accordo sul nucleare del 2015 e di reintrodurre pesanti sanzioni contro Teheran, che hanno depresso l’economia.  Ma ad alimentare la sfiducia sono state anche la violenta repressione delle proteste per il caro benzina del novembre scorso, con le autorità che non hanno ancora fornito un bilancio delle vittime, e l’abbattimento lo scorso mese del Boeing ucraino con 145 iraniani a bordo da parte della contraerea iraniana, ammesso solo dopo tre giorni.

La Repubblica islamica attraversa una delle fasi più difficili dalla rivoluzione del 1979. L’economia è in caduta libera, le tensioni con gli Stati Uniti sono ai massimi storici, l’accordo sul nucleare  (Jcpoa), sul quale la presidenza Rouhani aveva puntato tutte le sue  fiches, vive una lenta e inesorabile agonia. L’isolamento economico dovuto alle rinnovate sanzioni americane, l’inflazione, la svalutazione della moneta, la disoccupazione, la mancanza di medicinali, sono solo alcuni dei problemi con cui hanno a che fare quotidianamente gli iraniani, tra cui molti non vedono più differenza tra i due grandi schieramenti – riformatore e conservatore della politica iraniana.

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Rivolta sociale

Le proteste erano iniziate il 15 novembre per gli aumenti del carburante (più cinquanta per cento fino a sessanta litri al mese, più trecento per cento sopra quella soglia) che si sono aggiunti al crollo della moneta iraniana, il rial, dopo l’imposizione delle sanzioni Usa. “No Gaza, no Libano, sacrifico la mia vita per l’Iran”: è ciò che i manifestanti iraniani cantavano mentre davano fuoco alle effigi di Khamenei.

Quella della benzina è solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Le sanzioni americane, le più severe di sempre, stanno strangolando l’economia. Da quando, lo scorso maggio, Washington ha annullato le moratorie per i paesi autorizzati a importare greggio dall’Iran, Teheran riesce a malapena a esportare il venti per cento dei volumi che vendeva prima. Quando va bene. Il rial, la valuta locale, è precipitato (solo nel 2018 ha ceduto il sessanta per cento sul dollaro), l’inflazione galoppa (più trentacinque per cento), la disoccupazione sta creando grandi malumori, soprattutto tra i giovani. Nel 2020 la recessione rischia di sfiorare il dieci per cento. Mai, neanche durante la lunga e sanguinosa guerra con l’Iraq di Saddam Hussein (1980-1989) l’Iran s’era trovato in una situazione economica così grave, ha denunciato il Fondo monetario internazionale. E la sensazione è che il peggio debba ancora venire. A essere colpiti non sono più solo i ceti più disagiati ma, per l’appunto, la “middle class” e i ceti borghesi, che sanno cosa vuol dire fare affari, dimostrando di sapersi muovere con abilità nella finanza mondiale e in una economia globalizzata. Ceto borghese e classe media che vanno ben oltre la “borghesia dei bazar. 

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A mobilitarsi massicciamente per il voto sono stati i Guardiani della Rivoluzione (Pasdaran). Un contropotere che si fa Stato.  Secondo uno studio recente, i pasdaran controllerebbero addirittura il quaranta per cento dell’economia iraniana: dal petrolio al gas e alle costruzioni, dalle banche alle telecomunicazioni. Un’ascesa che si è verificata soprattutto sotto la presidenza di Ahmadinejad, ma che è proseguita sotto quella di Rouhani. I pasdaran fanno direttamente capo all’ayatollah Khamenei. E sempre la Guida suprema controlla direttamente la Setad, una fondazione con 95 miliardi di dollari di asset presente in tutti i comparti dell’economia. Doveva rimanere in vita solo un paio d’anni ma nel corso del tempo si è trasformata in un colosso immobiliare – 52 miliardi di asset – che ha acquistato partecipazioni in decine di aziende in quasi tutti i settori: finanza, petrolio, telecomunicazioni, dalla produzione di pillole anticoncezionali all’allevamento degli struzzi.  Tra portafoglio immobiliare (52 miliardi di dollari) e quote societarie, 43 miliardi, la Setad ha un valore nettamente superiore alle esportazioni petrolifere iraniane dello scorso anno. Se si somma il potere diretto di Khamenei a quello altrettanto pervasivo e radicato della “Pasdaran Holding”, si ha un quadro sufficientemente nitido su un regime teocratico-militare che si è fatto, per l’appunto, sistema. Un sistema che ha sempre più condizionato le politiche della Repubblica islamica dell’Iran. E che ora, dopo il voto di venerdì, si appresta a conquistare ogni istituzione del Paese.

 

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