Pietro Bartolo: "L'Europa ha sulla coscienza l'inferno di Moria"
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Pietro Bartolo: "L'Europa ha sulla coscienza l'inferno di Moria"

Parla il “medico dei migranti”, impegnato da una vita a Lampedusa, reso famoso dal film “Fuocoammare” di Gianfranco Rosi ed oggi europarlamentare, tra i più votati in Italia.

Il medico di Lampedusa Pietro Bartolo
Il medico di Lampedusa Pietro Bartolo
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

9 Settembre 2020 - 15.12


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Se c’è un uomo simbolo di una Italia solidale, generosa, impegnata in una solidarietà fattiva, quotidiana, nei confronti di migranti e rifugiati che in questi anni sono sbarcati sulle coste siciliane, quest’uomo è Pietro Bartolo, 64 anni, il “medico dei migranti”, impegnato da una vita a Lampedusa, reso famoso dal film “Fuocoammare” di Gianfranco Rosi, vincitore nel 2016 dell’Orso d’oro a Berlino, ed oggi europarlamentare, tra i più votati in Italia. In questa intervista esclusiva concessa a Globalist, Bartolo parla di Moria e mette sotto accusa l’Europa. “L’Europa ha sulla coscienza quell’inferno”, denuncia Bartolo. E a Globalist ne spiega i perché

Le notizie che arrivano da Moria raccontano di una tragedia che coinvolge i 13mila richiedenti asilo in fuga dal campo di raccolta divorato dalle fiamme.

Assieme ad altri miei colleghi al Parlamento europeo ci stiamo muovendo perché l’Europa si assuma tutte le proprie responsabilità di fronte al dramma che si sta consumando a Lesbo. Non è più possibile sopportare una situazione del genere. Tra quelle migliaia di disperati, vi sono tanti bambini, i più indifesi tra gli indifesi. La condizione in cui vivono i 13mila del campo di Moria si può definire con una parola sola: disumana. Costretti a vivere ammassati, in condizioni igienico-sanitarie disastrose, con l’acqua che scarseggia, e tutto questo in una situazione aggravata dal rischio coronavirus. Di fronte a questa tragedia annunciata, la risposta della Commissione europea è stata quella di dare dei soldi, mettiamo a disposizione medici e kit anti-Covid, ma non è questa la soluzione. E la soluzione non può essere trovata se si resta prigionieri di una visione emergenzialista del fenomeno migratorio. Quello della migrazione è diventato un problema quando invece è un fenomeno. Ma l’hanno fatto diventare un problema perché non si è saputo o voluto gestire. Ed è un problema europeo, perché Lesbo è Europa, Lampedusa è Europa, la Grecia è Europa, l’Italia è Europa, Malta è Europa, e che sia un problema dell’Europa occorre farsene una ragione e agire di conseguenza. Così come è stato fatto per la pandemia, arrivando a trattare l’emergenza Covid-19 in una chiave europea, la stessa cosa deve avvenire per il fenomeno della migrazione. Quando si arriva a Lampedusa si arriva in Europa, quando si arriva a Lesbo si arriva in Europa, e vivaddio è l’Europa che deve dare delle risposte, soprattutto considerando che stiamo parlando di esseri umani, e siccome l’Unione europea nasce sulla base di valori quali il rispetto dei diritti umani e dell’accoglienza, deve intervenire immediatamente, a maggior ragione oggi a fronte della tragedia che si sta consumando a Lesbo, con 13mila persone buttate in mezzo alla strada, con rischi enormi, anche in relazione alla pandemia. Se non vogliamo essere umani, siamo almeno furbi, e dunque cerchiamo di trasferire queste persone sulla terra ferma, in tutti gli Stati membri, facendo i tamponi e tutti i controlli necessari e quindi farli entrare in maniera dignitosa, e non buttarli in mezzo a una strada cosa che oltre che essere disumana, finirebbe per aggravare ulteriormente la situazione anche in rapporto al propagarsi dell’infezione virale.

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A fronte di questa situazione, il governo greco ha dichiarato lo stato di emergenza a Lesbo.

Siamo sempre all’interno di quell’emergenzialismo di cui parlavo in precedenza, che non aiuta a intervenire alle radici del fenomeno migratorio. E mi dispiace vedere che il governo greco chieda all’Europa solo dei soldi per affrontare questo fenomeno, ma questa non è una soluzione, tanto è vero che malgrado i finanziamenti elargiti, le condizioni di vita di queste persone non solo non sono migliorate ma addirittura sono peggiorate. Insisto su questo: stiamo parlando di bambini a cui viene negato il futuro e la voglia stessa di vivere. Pensare che ci sono bambini che tentano il suicidio e non fare nulla per ridare loro una speranza di vita, significa avere perso anche il senso dell’umanità. Oggi assieme ad altri colleghi europarlamentari sensibili al problema, abbiamo scritto una lettera che è un grido di dolore rivolto alla Commissione europea, all’Europarlamento perché si faccia qualcosa, intervenendo il prima possibile perché le cose non possono che peggiorare. Tredicimila persone che prima erano ammassate in un campo che ne poteva contenere neanche la metà, ora sono buttate in mezzo alla strada, col rischio di essere oggetto di proteste violente della popolazione locale sobillata magari, come è avvenuto anche in un recente passato, da elementi di gruppi razzisti dell’estrema destra greca.

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Quello che è avvenuto oggi è la cronaca di una tragedia annunciata. Se andiamo indietro nel tempo, pensando, al grido di dolore lanciato da Papa Francesco nella sua visita al campo di Moira, o alle documentate denunce di tutte le più importanti organizzazioni umanitarie e delle stesse agenzie dell’Onu, dall’Unhcr all’Oim, alla fine restano pochi soldi stanziati e tante dichiarazioni intrise di lacrime di coccodrillo.

Hai perfettamente ragione. In questa triste storia c’è tanta ipocrisia, tanta indifferenza. Ha volte io e i miei colleghi che più avvertono questi problemi, restiamo scioccati, ancor prima che indignati, di fronte ad altri colleghi parlamentari che continuano a parlare di “invasione”, o farei conti con altri che ripetono che l’Europa dovrebbe agire ma poi le cose restano come sono e si attende l’ennesima tragedia per ripetere le stesse parole. Quello che contano sono i fatti: e un fatto da realizzare è la redistribuzione di questi migranti e richiedenti asilo, magari non in tutti i Paesi dell’Unione, ma ci sono degli Stati che accettano di farsene carico. E allora partiamo da qui, da una disponibilità che va sollecitata e poi realizzata. Basta con le chiacchiere. Occorre avere una visione non emergenziale di un fenomeno che emergenziale non lo è più da almeno trent’anni. E’ un fatto strutturale e come tale deve essere affrontato. E’ inutile che noi continuiamo a pagare la Grecia, o la Turchia, o la Libia, perché non si fa così. Perché i muri non hanno mai fermato nessuno. Dare soldi è come erigere un muro: io ti dò i soldi e tu fai da gendarme delle frontiere esterne dell’Europa. Questo non solo è ingiusto, ma neanche funziona. Malgrado tutti i soldi, gli accordi, i memorandum, la migrazione continua. Perché queste persone, che fuggono da guerre, pulizie etniche, da una povertà assoluta, da disastri ambientali, non hanno alternativa e non c’è muro che le possa fermare. C’è bisogno di un approccio radicalmente diverso, in grado di trasformare un problema in opportunità. E questo ce l’ha dimostrato la pandemia stessa. La pandemia ci ha dimostrato che senza queste persone noi siamo rovinati. Noi italiani, noi europei. Bene ha fatto il premier portoghese che l’ha capito immediatamente, e li ha regolarizzati, anche per dare a queste persone la possibilità di accedere ai servizi sanitari, ed essere così tracciabili. Ma non c’è solo l’aspetto sanitario. Queste persone sono fondamentali anche per la tenuta della nostra economia. Abbiamo visto gli imprenditori italiani disperati perché non avevano più manodopera. Queste persone sono importanti per la nostra economia, sono importanti per la nostra cultura, sono importanti per tutto. Il fatto è che noi stiamo operando sulla scorta di pregiudizi, di muri mentali, di fake news spacciate come verità. Purtroppo la mistificazione della realtà fatta per mera speculazione politica, è entrata nella mente della gente, alimentando diffidenza, odio, con la storia di una “invasione” che non è mai esistita. Ma questo approccio securitario continua a produrre disastri. Perché a fermarli non saranno i muri che sono stati edificati, o accordi come quelli fatti con la Turchia o con la Libia, dietro ai quali c’è solo l’ossessione della sicurezza e nient’altro. Una ossessione securitaria che serve poi a coprire tutte le nefandezze e le incapacità dimostrate nel non saper affrontare i veri problemi sociali ed economici ingigantiti dalla crisi pandemica. I migranti sono diventati così il Grande alibi a cui far ricorso quando non si è capaci di dare risposte costruttive al malessere che segna le nostre società. C’è bisogno di una battaglia culturale, e non solo politico, perché l’altro da sé non venga visto più come una minaccia ma come una ricchezza per l’intera comunità. 

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