Cisgiordania, la violenza dei "Battaglioni di difesa regionale": i coloni si fanno stato
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Cisgiordania, la violenza dei "Battaglioni di difesa regionale": i coloni si fanno stato

Mentre i responsabili alla sicurezza avvertono che la situazione in Cisgiordania è in crescente ebollizione, Haaretz sostiene i che uno degli elementi di destabilizzazione potrebbe anche essere individuato nei “Battaglioni di difesa regionale”

Cisgiordania, la violenza dei "Battaglioni di difesa regionale": i coloni si fanno stato
Militari israeliani in Cisgiordania
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

18 Gennaio 2024 - 00.18


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Mentre i responsabili alla sicurezza avvertono che la situazione in Cisgiordania è in crescente ebollizione, Haaretz sostiene i che uno degli elementi di destabilizzazione potrebbe anche essere individuato nei “Battaglioni di difesa regionale”, concepiti per affiancare le forze armate nella difesa degli insediamenti.

Composti da abitanti residenti in quelle colonie, tutti riservisti con una esperienza militare alle spalle, quei battaglioni sono cresciuti numericamente in seguito ai massacri del 7 ottobre e contano adesso (secondo le stime) 7.000 uomini, con un incremento di 5.500 negli ultimi tre mesi. «In questo periodo – denuncia il giornale – si sono andati accumulando i casi in cui palestinesi hanno denunciato che coloni inquadrati in quei battaglioni li hanno assaliti o minacciati».

I fanatici di Eretz Israel

Li racconta, con efficacia, Uri Misgav, sempre sul quotidiano progressista di Tel Aviv: “Anche se Israele dovesse vincere la guerra esistenziale che gli è stata imposta, dovrà comunque affrontare una minaccia interna che non deve essere presa alla leggera: il sionismo nazionalista ultraortodosso. Chi ha parlato con i seguaci di questo movimento dopo la calamità e la distruzione del 7 ottobre ha riscontrato uno strano fenomeno.

I loro occhi brillano. Sono estasiati. Dal loro punto di vista, questi sono i giorni del Messia. La grande opportunità. È parte integrante delle concezioni fondamentaliste, in tutte le religioni. La fede nell’apocalisse, nell’Armageddon, in Gog e Magog, come unico mezzo di redenzione.

Nel caso dei sionisti Haredi, si tratta di una doppia fantasia: il pieno dominio ebraico su tutta l’area dal Mar Mediterraneo al fiume Giordano, di concerto con la cancellazione dell’esistenza araba e la nascita di uno stato halakhico dalle ceneri dell’odierno Israele liberal-democratico.

Questo spiega i discorsi su una “seconda Nakba” e il reinsediamento di Gush Katif, nel sud della Striscia di Gaza, così come la rapidità con cui sono stati organizzati gruppi di coloni che hanno messo gli occhi sulle rovine dei kibbutzim al confine con Gaza e i tentativi di prendere il controllo delle iniziative di volontariato per aiutare gli agricoltori della zona.

Ma l’obiettivo principale, ovviamente, è la guerra in corso. C’è un ampio consenso sulla necessità di colpire Hamas e porre fine al suo dominio sulla Striscia di Gaza. Il dibattito verte sulle sfumature. Ad esempio, la questione dell’invasione di terra, la sua necessità e la sua tempistica. La questione dei rapiti e la loro priorità. L’atteggiamento nei confronti delle vittime civili, delle leggi di guerra e degli aiuti umanitari. Per i sionisti Haredi, questi dibattiti sono una dannosa perdita di tempo. Gaza è Amalek, che deve essere cancellata dalla faccia della terra.

Questo si riflette anche nelle Forze di Difesa Israeliane, perché all’interno dell’esercito esiste una corrente sionista Haredi ben radicata. Il comandante della 36ª Divisione corazzata, il Brig. Gen. David Bar Khalifa, questa settimana ha emanato una commovente direttiva di battaglia scritta a mano per le sue truppe, su carta intestata con una citazione dai Salmi in alto (“Come frecce nella mano di un uomo potente”): “Ciò che è stato non sarà più! Andremo verso di essa in guerra, polverizzeremo ogni maledetto appezzamento di terra da cui proviene, la distruggeremo e il suo ricordo… e non torneremo finché non sarà annientata, e [Dio] non farà vendetta dei suoi avversari e non espierà la terra del suo popolo… Il Signore darà forza al suo popolo e custodirà la tua uscita e la tua entrata, da questo momento e per sempre. Questa è la nostra guerra, oggi è il nostro turno. Eccoci qua!”.

Questo è un testo religioso estatico, adatto a uno studente della Yeshiva di Or Etzion, dove ha studiato, non a un sano e razionale comandante di divisione di un esercito moderno.

Tra i comandanti passati della 36a Divisione Corazzata ci sono Zvi Zamir, Uzi Narkiss, Rafael Eitan, Uri Sagi, Amram Mitzna, Avigdor Kahalani, Matan Vilnai, Amiram Levin e Yitzhak Brik. È difficile immaginare che qualcuno di loro abbia rilasciato qualcosa di simile a questo documento militare.

Molti sionisti Haredi, alcuni dei quali funzionari pubblici, vedono la terribile crisi come un’opportunità e persino un piano divino. Il sindaco di Harish, Yizhak Keshet, ha spiegato la piega che hanno preso gli eventi in una “conferenza sulla sicurezza” che ha convocato questa settimana. “C’è una mossa divina qui. È perfettamente chiaro. Non succede per caso”, ha dichiarato indossando un giubbotto antiproiettile in ceramica.

“Bisogna guardare alle cose, al fatto che il popolo di Israele, sulla scia di questo evento difficile e terribile, è sopravvissuto. C’era un piano molto, molto più grande e malvagio per distruggere lo Stato di Israele… da quattro fronti diversi, di cui Hamas è il più piccolo. E la misericordia di Dio nei nostri confronti ha fatto sì che i loro piani venissero sconvolti. La causa scatenante è lo stesso partito, che ha visto una tale tentazione, di 3.000 persone, vicino alla recinzione, e non ha saputo resistere alla tentazione ed è entrato. Questa cosa ci ha salvato”.

Va da sé che i martiri del festival musicale Nova trance e le vittime dei massacri nelle comunità di confine sono solo pedine del piano divino per completare la missione – in Cisgiordania.

Ecco perché il Ministro delle Finanze Bezalel Smotrich continua ancora oggi a convogliare i fondi governativi verso di loro in modo frenetico. Ecco perché i coloni e talvolta anche i soldati sionisti Haredi vi scorrazzano indisturbati, uccidendo, devastando ed espellendo i palestinesi. La jihad ebraica è determinata a mettere a ferro e fuoco l’intera Terra Santa. Gli israeliani che vogliono vivere non devono distogliere lo sguardo o voltargli le spalle”.

In Cisgiordania la «legge» dei coloni che allontana ogni sogno della pace

E’ il titolo di un magistrale reportage per Avvenire (17 dicembre 2023)  di Nello Scavo .”Sulla strada per Nablus, dopo una breve sosta per curiosare intorno a una colonia israeliana in territorio palestinese, appena dopo uno stretto tornante, un blindato dell’esercito ci sbarra la strada, mentre un colono armato piomba dalla collina polverosa con il suo fuoristrada. 

È il colono, un civile armato, a dare gli ordini. «Se ti rivedo ti spezzo le gambe», grugnisce contro la nostra guida, un arabo israeliano. «Due popoli e due Stati», sembrava una promessa buona quando la Cisgiordania era solo Palestina e Israele era solo Israele. 

Ma oggi nella “West Bank”, la riva occidentale del Giordano che fa da confine alla Palestina fino alle muraglie erette da Israele, gli insediamenti di occupazione, fortificati e protetti con le armi dei civili e quelle dei militari, sono più di cento e la Cisgiordania non è più un’ininterrotta regione palestinese, ma una provincia mista dove vivono 700 mila coloni e 4 milioni di palestinesi. 

La convivenza non è nei piani degli occupanti. «Nella prima metà del 2023, i coloni hanno compiuto 591 attacchi nella Cisgiordania occupata, una media di 95 al mese, circa tre al giorno», spiega un report dell’International Crisis Group (Icg). Prima ancora che Hamas compisse la mattanza di 1.200 persone il 7 ottobre, la media delle aggressioni attribuite ai coloni era cresciuta del 39% rispetto al 2022. 

Ma gli agguati di cui l’Onu accusa i coloni sono saliti dopo il 7 ottobre, con «le forze israeliane che hanno accompagnato o sostenuto attivamente gli aggressori», scrive l’Igc. Che avverte: «Molti atti di violenza dei coloni non vengono documentati, poiché comportano intimidazioni o molestie ma non danni alla proprietà o lesioni fisiche. Ma anche in questi casi, gli atti creano un profondo senso di insicurezza tra i palestinesi locali, che temono minacce persistenti ai loro mezzi di sussistenza». 

A confermarlo ci sono alcune organizzazioni israeliane tra cui “Yesh Din – Volontari per i Diritti Umani”, fondata nel 2005 da un gruppo di israeliane impegnate «per un miglioramento strutturale e a lungo termine dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati».

Hussam Aida, un contadino palestinese che vive a Sinjil, sul confine nord con la Giordania, ha raccontato che i coloni israeliani hanno danneggiato il suo pozzo, dopo avergli rovinato in precedenza il raccolto e la fattoria. «Fino a 100 mila famiglie palestinesi della Cisgiordania dipendono dalle olive e dall’olio d’oliva come fonte primaria o secondaria di reddito. Negli ultimi mesi – denunciano le organizzazioni umanitarie israeliane –, e soprattutto dal 7 ottobre, si sono ripetuti atti di violenza da parte dei coloni che hanno costretto quasi 1.000 palestinesi ad abbandonare le loro case, tra cui almeno 98 nuclei familiari, cacciati da quindici comunità di pastori beduini». 

L’esercito di Gerusalemme nel migliore dei casi resta a guardare. Il capo di stato maggiore delle Forze di Difesa Israeliane (Idf), Herzi Halevi, nello scorso giugno era stato chiaro: «Il terrorismo e le sue terribili conseguenze portano alcune persone a commettere atti che sono legalmente ed eticamente proibiti». Per dirla tutta, secondo Halevi «un ufficiale dell’Idf che sta a guardare mentre un cittadino israeliano sta pianificando di lanciare una molotov contro una casa palestinese non può essere un ufficiale». Ogni tanto qualche colono viene arrestato e sottoposto a detenzione amministrativa, ma non si ha notizia di condanne né di norme che scoraggino il far west. 

E dal 7 ottobre la spirale dell’odio innescata da Hamas non ha fatto altro che peggiorare le condizioni di vita dei palestinesi di Cisgiordania, pregiudicando l’accidentato cammino verso una pace sempre più lontana”, conclude Scavo.

Più che lontana, la pace sembra ormai impossibile in Terrasanta. 

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