Israele-Palestina, in morte della pace a “due Stati”
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Israele-Palestina, in morte della pace a “due Stati”

Haaretz: “Israele e i palestinesi hanno "raggiunto un vicolo cieco per quanto riguarda tutto ciò che riguarda la soluzione dei due Stati".

Israele-Palestina, in morte della pace a “due Stati”
La guerra israelo-palestinese.
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

9 Settembre 2022 - 14.12


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Ne scrive Sam Sokol su Haaretz: “Israele e i palestinesi hanno “raggiunto un vicolo cieco per quanto riguarda tutto ciò che riguarda la soluzione dei due Stati” e il governo giordano deve modificare il suo approccio, passando dalla sola promozione di uno Stato palestinese alla difesa dei diritti dei palestinesi all’interno di un Paese unificato, ha dichiarato questa settimana uno degli architetti dell’accordo di pace israelo-giordano.
In un articolo pubblicato domenica sull’edizione ebraica di Haaretz, l’ex ministro degli Esteri giordano Marwan Muasher ha scritto che mentre “la Giordania crede che l’abbandono della soluzione a due Stati porterebbe a una soluzione a uno Stato – Israele che mantiene un regime di apartheid”, tale approccio “ignora il fatto che un regime di apartheid israeliano non è una minaccia futura, ma piuttosto una realtà esistente”.
Muasher, che è stato ambasciatore della Giordania in Israele negli anni ’90, ha sostenuto che, poiché una soluzione a due Stati è attualmente impossibile, “dobbiamo semplicemente porre un’altra domanda sul tavolo” e chiedere “cosa si deve fare oggi per garantire che lo Stato unico che sta prendendo forma sia uno Stato democratico piuttosto che uno Stato razzista?”.

“La nuova posizione giordana deve quindi affinare il suo approccio”, ha continuato, scrivendo che mentre Amman non dovrebbe rinunciare ai “principi fondamentali dell’istituzione di uno Stato palestinese sulla terra palestinese”, dovrebbe “passare dal concentrarsi sulla forma della soluzione come obiettivo elevato e concentrarsi sull’uguaglianza dei diritti per entrambe le parti come base per qualsiasi soluzione futura, indipendentemente dalla sua forma, e respingere qualsiasi approccio che non adotti questa posizione”.
Il Regno hashemita dovrebbe concentrare i propri sforzi per raggiungere l’unità palestinese tra Fatah e Hamas e incoraggiare nuove elezioni. E mentre il sostegno finanziario ai palestinesi dovrebbe essere enfatizzato, “la Giordania dovrebbe interrompere ogni cooperazione economica con Israele, in particolare sui temi dell’energia e dell’acqua”. “Tale cooperazione”, ha sostenuto Muasher, “non è coerente con le azioni aggressive di Israele contro il popolo palestinese o con i ripetuti tentativi di Israele di risolvere il conflitto a spese della Giordania”.

Inoltre, “la Giordania dovrebbe agire in tandem con la comunità internazionale per fermare il commercio di prodotti di insediamento da parte di diversi Paesi e definirli illegali secondo il diritto internazionale” e lavorare per “mantenere forti relazioni con l’amministrazione statunitense e con altri Paesi, per far capire alla comunità internazionale che si troverà di fronte a una nuova situazione in cui non dovrà affrontare solo l’occupazione, ma anche un regime di separazione razzista che i popoli del mondo non accetteranno”. “In passato, la Giordania non ha mancato di agire o di esprimere le proprie posizioni”, ha scritto. “Anche oggi non c’è motivo per cui debba continuare ad agire come se la soluzione dei due Stati si stesse avvicinando. Deve quindi cambiare direzione e promuovere una nuova politica nello spirito di ciò che ho qui osservato”.

Muasher è stato il primo ambasciatore della Giordania in Israele dopo la firma del trattato di pace tra i due Paesi nel 1994, prima di diventare inviato della Giordania negli Stati Uniti, ministro degli Esteri e vice primo ministro. Ha contribuito a dare forma all’Iniziativa di pace araba del 2002, ma in seguito si è disilluso sulle prospettive di pace israelo-palestinese, dichiarando ad AI Monitor nel 2013 di prevedere “altri disordini e spargimenti di sangue” e che “se non ci sarà una soluzione a due Stati, le relazioni tra Giordania e Israele non potranno che peggiorare, aumentando la sensazione dei giordani che Israele tenterà di risolvere il conflitto a loro spese”.
Nel 2019 ha dichiarato alla televisione giordana Al-Mamlaka che, non riuscendo a raggiungere un accordo con i palestinesi, Israele stava “lavorando attivamente contro l’interesse nazionale della Giordania” e di conseguenza ha sostenuto di “riesaminare” il trattato di pace “così come il nostro intero approccio verso Israele”.
Più recentemente, in un articolo pubblicato su Foreign Affairs quest’estate, si è schierato contro gli Accordi di Abraham, scrivendo che “mettere da parte i palestinesi” è una ricetta per la violenza, non per la pace”.

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Così su Haaretz.

La sfida “binazionale”

Nei circoli intellettuali progressisti è da tempo aperto un dibattito sullo Stato bi-nazionale. Così si era espresso, in una delle tante interviste concesse a chi scrive, Zeev Sternhell, il più autorevole storico israeliani, scomparso nel giugno del 2020: “Integrazione o apartheid: tertium non datur. Certo, sul piano dei principi resta la soluzione ‘a due Stati”, e qui c’è la responsabilità storica della comunità internazionale, non solo degli Stati Uniti e dell’Europa ma anche dei Paesi arabi, nel non aver forzato su questo punto quando ne era il tempo. Oggi, di fronte alla realtà degli insediamenti nella West Bank, ad una presenza di oltre 400mila israeliani-coloni, a me pare francamente improbabile, per non dire impossibile, realizzare questa soluzione.

Ma a Gerusalemme come nella West Bank, non devono esistere due leggi e due misure, una per i cittadini ebrei e l’altra, penalizzante, per i palestinesi. Ritengo peraltro che la prospettiva di uno Stato binazionale democratico possa essere un terreno d’incontro, di iniziativa comune, tra quanti, nei due campi, credono ancora nel dialogo e nella convivenza. Mi lasci aggiungere che credere in uno Stato binazionale non significa che le comunità che ne fanno parte rinuncino alla propria identità. Integrazione non è sinonimo di omologazione, di azzeramento delle diversità. Io penso che siano nel giusto i Palestinesi a voler essere persone libere e di aspirare al benessere soprattutto per i giovani. Ecco, io credo che, nelle condizioni date, questa aspirazione sia più praticabile in uno Stato binazionale”.

Una visione incompiuta

Quella dello Stato binazionale. L’ultima “provocazione” di Abraham Bet Yehoshua, il grande scrittore israeliano scomparso il 14 giugno 2022. Su questo ebbi modo d’intervistarlo nel settembre del 2017 quando, allora scrivevo per Huffington Post, partecipai ad una missione in Israele e Palestina al seguito di Roberto Speranza e Arturo Scotto. L’incontro avvenne nella residenza del nostro ambasciatore a Tel Aviv. Da quel giorno sono trascorsi quasi cinque anni. Ma sembra oggi. 

Ecco una parte di quell’intervista. “Per anni Yehoshua è stato un tenace sostenitore di una pace fondata sulla separazione: due popoli, due Stati. Ma ora l’orizzonte è cambiato, ragiona lo scrittore israeliano, è l’idea dei due Stati rischia di diventare una sorta di mantra ripetuto stancamente pur di non fare i conti con la realtà: e la realtà, annota Yehoshua, impone di abbracciare un’altra causa, di tentare un’altra strada: quella di uno Stato parzialmente binazionale, che riguardi, almeno in prima battuta, i palestinesi della West Bank e di Gerusalemme Est: “Da democratico – sottolinea con foga Yehoshua – non possono rinunciare al principio che tutti i cittadini devono essere eguali di fronte alla Legge, senza distinzione per appartenenza etnica o religiosa. Come progressista, guardo con preoccupazione al peggioramento delle condizioni di vita dei palestinesi e credo che in questo momento è importante la prosa più che la poesia, e ciò significa che riconoscere agli abitanti della Cisgiordania diritti sociali di primaria importanza, quali sono, ad esempio, il diritto alla sanità e alla pensione, sia un tratto fondamentale, perché tangibile, di ciò che può volere dire uno Stato binazionale. Prendere atto della realtà non vuole dire subirla, ma neanche cancellarla in nome di una idea, quella dei due Stati, divenuta ormai impraticabile”.

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Mette definitivamente nel cassetto l’idea di una pace fondata sul principio “due popoli, due Stati”? Insomma, Abraham Yehoshua corregge se stesso?

“Non sono tipo da parlare in terza persona, non mi ritengo così importante, però stiamo al gioco: Abraham Yehoshua, dopo cinquant’anni nei quali ha sostenuto e battagliato per questa prospettiva, ha preso atto che il tempo e gli uomini l’hanno resa impraticabile. E non mi riferisco solo alla destra israeliana, ma anche alla dirigenza palestinese. Prenderne atto non significa, però, accettare lo status quo e dimenticare la condizione di oppressione nella quale vivono i palestinesi. D’altro canto il fatto che tutti, da Netanyahu ad Abu Mazen, continuano a far riferimento a “due Stati”, significa che c’è qualcosa che non va, che non funziona. Significa che ‘due popoli, due Stati’ è diventato un mantra che viene ripetuto per mettersi a posto la coscienza, specie in Europa, e chiudere gli occhi di fronte ad una realtà che questa prospettiva nega.

Oggi il gap per quanto riguarda le condizioni di vita tra Israeliani e Palestinesi è cresciuto enormemente, la forbice si è allargata. Personalmente non me la sento di considerare questo, il peggioramento delle condizioni di vita dei Palestinesi, come un fatto secondario, irrilevante rispetto ai grandi disegni politici. Sarò diventato un vecchio pragmatico, ma non un cinico che se ne frega di come vivano centinaia di migliaia di palestinesi a poche decine di chilometri dalla mia città (Haifa, ndr). Da democratico, penso che ogni cittadino debba essere uguale di fronte alla Legge e godere degli stessi diritti sociali e civili. E questo può avvenire solo in uno Stato binazionale”

Vorrei tornare all’idea dei due Stati. In precedenza, Lei ha affermato che a renderla impraticabile non è stata solo la politica dei governi, come quello attuale, della destra. E’ un j’accuse alla dirigenza palestinese, passata e presente?

“È così. Diciamo che le leadership palestinesi non hanno perso occasione per perdere “l’Occasione”. Nell’estate 2005, Israele (allora il primo ministro era Ariel Sharon, ndr) decise il ritiro da Gaza e lo smantellamento degli insediamenti nella Striscia: la risposta palestinese non fu l’accelerazione di un negoziato, ma i razzi sparati da Gaza contro le città frontaliere israeliane. Nel 2006-2007 l’allora primo ministro Ehud Olmert avanzò una proposta che andava nella direzione dei due Stati che Abu Mazen rigettò. E si potrebbe andare ancora indietro nel tempo, quando altri erano i protagonisti: penso, ad esempio ai negoziati di Camp David di luglio 2000 tra Barak e Arafat, con Clinton come facilitatore: anche lì la proposta avanzata dal primo ministro laburista andava in quella direzione, ma Arafat non ebbe la saggezza dimostrata da David Ben Gurion: prendi meno di quanto speravi, ma consideralo un inizio, un qualcosa di tuo, nel quale edificare uno Stato… Non mi voglio ergere a giudice, non sto qui a distribuire sentenze, ciò che voglio sostenere è che in questi cinquant’anni di rinvii e di rifiuti la realtà si è modificata e oggi l’unica alternativa allo status quo è lo Stato binazionale”.

C’è chi sostiene che quello dello Stato binazionale sarebbe un salto nel vuoto e che gli ebrei israeliani non accetterebbero mai di essere minoranza in uno Stato binazionale.

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“La memoria è labile, soprattutto quando fa comodo per scansare i problemi. Nel ’47, Ben Gurion diede subito la cittadinanza agli arabi. Io credo che si possa guardare ad altre esperienze per modulare le forme di uno Stato binazionale: potrebbe essere una confederazione di cantoni, potrebbe essere una Repubblica presidenziale nella quale esistano due Camere: una che rappresentasse le istanze e le esigenze di ciascuna comunità nazionale e altra come rappresentanza di tutti i cittadini…

E i coloni?

“In questo scenario, il problema fondamentale non sono i coloni. Il problema fondamentale è la democrazia. È sancire che ogni cittadino è eguale di fronte alla Legge, che gode degli stessi diritti sociali, civili, politici. Il problema è quello di realizzare una cittadinanza piena. L’alternativa è istituzionalizzare uno stato di apartheid. È questo che si vuole? Mi creda, l’ebraismo è molto forte, anche troppo. Troverebbe comunque i modi per far valere le proprie ragioni in uno Stato binazionale. Ciò che ritengo inaccettabile, e questo sì anti-democratico, che i diritti di cittadinanza siano modulati e gerarchizzati a secondo dell’appartenenza etnica e religiosa. Il nostro sguardo deve alzarsi e abbracciare il mondo, guardano a ciò che è stato realizzato in altri Paesi che pure hanno al proprio interno comunità etniche diverse. Un esempio, è l’America. Negli Stati Uniti non vige una democrazia etnica? Il sistema a cui tendere non si definisce su basi demografiche, ma può reggersi su un sistema di Cantoni con una loro autonomia codificata. Ragioniamoci insieme, io dico. E guardiamo in faccia la realtà: la scusa dei due Stati ci sta portando verso l’apartheid”.

Lei ha sottolineato l’importanza di riflettere sul concetto di “confine” che chiama in causa il rapporto tra due pilastri dell’identità nazionale su cui si fonda lo Stato d’Israele: la democrazia e l’essere il focolaio nazionale del popolo ebraico?

“Sinceramente, non credo che ragionare su uno Stato binazionale voglia significare cancellare la storia d’Israele. Perché già da tempo Israele è uno Stato binazionale: il 20% della popolazione attuale d’Israele (1,1 milioni di persone, ndr) è araba e, viste le tendenze demografiche, è un numero destinato nei prossimi decenni ad aumentare sensibilmente. No, non credo davvero che uno Stato binazionale esteso ai palestinesi di Gerusalemme Est e della West Bank attenti all’identità ebraica. Il punto è un altro, e evidenziarlo fa male, ne sono consapevole, soprattutto a quel mondo della sinistra a me più vicino, e non solo Israele…”.

E quale sarebbe questa amara verità?

“Oggi vi sono centinaia di migliaia di palestinesi alle porte delle nostre città che non hanno alcun diritto. E che subiscono una occupazione sempre più invasiva. E ci sono cittadini israeliani, i coloni, che praticano la sopraffazione in quanto cittadini israeliani che, come tali, sono protetti dall’esercito. La sinistra può continuare a recitare il mantra ‘tutto si risolve con la nascita di uno Stato palestinese’, intanto, però, il numero dei coloni cresce di anno in anno e sfido chiunque a sloggiarli. Oggi non c’è alcuna autorità, nessun leader politico che potrebbe portarli via dalle terre che hanno occupato, ma il termine più giusto è: rubato. Allargare i diritti di cittadinanza ai palestinesi è il modo più concreto, a mio avviso, per contrastare questa deriva. I diritti di cittadinanza rappresentano una risposta concreta all’occupazione”.

La sfida è questa. Difficile, certo. Ma l’unica praticabile. In morte dei “due Stati”.

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