Perché celebrare l'unificazione di Gerusalemme è una menzogna
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Perché celebrare l'unificazione di Gerusalemme è una menzogna

La città è un simbolo di separazione e di divisione. Un simbolo di una città la cui santità non purifica le sue strade dalla sporcizia e i suoi abitanti dalla povertà e dalla miseria

Perché celebrare l'unificazione di Gerusalemme è una menzogna
Nazionalisti israeliani a Gerusalemme
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

3 Giugno 2022 - 12.46


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Gerusalemme, il simbolo della menzogna. E un’alternativa esistenziale: combattere il fascismo o arrendersi.

A dar conto di tutto ciò è Yossi Klein su Haaretz.

Scrive Klein: “La giornata che celebra l’unificazione di Gerusalemme è una menzogna e Gerusalemme è il simbolo della menzogna. È un simbolo di separazione e di divisione. Un simbolo di una città la cui santità non purifica le sue strade dalla sporcizia e i suoi abitanti dalla povertà e dalla miseria. La Gerusalemme unificata, la città che è “compatta insieme” ci fa da specchio. Siamo così, sull’orlo dell’abisso. Chi sta lì non ha altra scelta che dire che lo specchio mente.

Non è lo specchio a mentire, siamo noi a vivere nella menzogna. Stiamo saltando tra la menzogna e la repressione, tra la finzione e l’oblio. Non servono le virgolette per mostrare quanto siano infondati i concetti che abbiamo inventato. Sì, certo, diciamo. Gerusalemme unita? L’esercito più morale del mondo? Certamente! E anche: “Vogliamo la pace”.

La menzogna crea dipendenza. Trasforma i persecutori in perseguitati. Gli sfortunati perseguitati chiedono perché a loro è permesso sventolare le bandiere a Be’er Sheva e a noi non è permesso alla Porta di Damasco? È una domanda dissimulatoria, volutamente infantile, l’essenza della menzogna e dell’ipocrisia. Anche chi pone questa domanda sa che non c’è simmetria, che gli occupati faranno di tutto per liberare il collo dalle ginocchia dell’occupante, perché non possono respirare. La menzogna ha anche un messaggio. Non per i palestinesi, che non hanno bisogno di un messaggio. Gli arresti, i blocchi stradali, le percosse agli anziani sono più un messaggio di governance efficiente che di bandiere. Il messaggio è per noi. La marcia è contro di noi. Attenzione, hanno detto i marciatori, noi governiamo le strade, la Knesset e il governo. Tremila poliziotti hanno lavorato per noi per proteggere la marcia, e non vi è stato permesso di avvicinarvi a Homesh. Non prendiamoci in giro: Non avremo un minuto di tranquillità con loro. Marce con le bandiere, processioni sacrificali e dimostrazioni con le fiaccole: tutto ci ricadrà sulla testa. Non costruite sul futuro: il futuro è loro. Saranno sempre qui. Troveranno sempre qualcosa in cui perdere la speranza, per coinvolgerci in una guerra religiosa, anche se il loro ebraismo non è il nostro ebraismo. Ci chiedono: volevate separarvi? Nascondervi a Tel Aviv? Scordatevelo, siamo due gemelli congiunti, attaccati a voi come una gomma da masticare su una scarpa. Ogni fascismo ha un colore. Prima era marrone, ora è bianco. Il bianco di Itamar Ben-Gvir sostituirà il giallo di Kahane. Le camicie bianche sono ovunque. Sono i rabbini, gli incitatori di diseredati, i commentatori negli studi. Sono alla Knesset, in TV, nell’esercito e nella polizia. Hanno posizioni ufficiali, gradi e manganelli. Il tempo delle maledizioni è alle spalle, la violenza è davanti a noi. Prima i pugni, poi i proiettili. La violenza accende i motori sui social media, riceve ordini di marcia dalla Knesset. La folla è in attesa di un ordine. Non c’è fascismo senza folla; è la folla che si sporcherà le mani. La camicia di Bezalel Smotrich, quella della dottrina razzista della Torah, rimarrà immacolata, così come quella di Ben-Gvir, il principale buffone operativo, e di Miri “Il Megafono” Regev. La folla è in ascolto. La violenza la unisce, le bandiere la infiammano, sa che il governo la teme. Presta molta attenzione. Ditegli chi è il traditore e saprà immediatamente cosa fare.

E noi cosa vediamo? Niente; cioè vediamo e neghiamo, vediamo e reprimiamo. Non siamo bloccati, al contrario, stiamo avanzando e siamo già alla quarta fase. La democrazia è alle nostre spalle, ha fatto la sua parte, può andare a casa. La mafia è già lì, nel salotto di casa, in televisione. Se non ha più bisogno della democrazia, la democrazia sarà scacciata con i deboli e gli sfortunati. Siamo arrivati sull’orlo dell’abisso. Ma solo quando lo avremo raggiunto lo vedremo. Solo sull’orlo potremo guardare indietro e dire: Oh, che peccato. Sapevamo di essere vicini, ma non così vicini. Troppo tardi. Novantaquattro anni fa le camicie brune vinsero alle elezioni molto meno di quanto hanno ottenuto le camicie bianche alle nostre ultime elezioni. “… come la profezia aveva predetto, vennero i barbari / e presero le chiavi della città dalla mano del re. / Ma quando vennero indossarono le vesti della terra, / e i loro costumi erano i costumi dello Stato; / e quando ci comandarono nella nostra lingua / non sapevamo più quando / i barbari erano venuti da noi”.

Sono già qui. Sono i protetti. I signori. Quanta miseria e miseria in un primo ministro che dopo 56 anni di occupazione ha bisogno di una processione di barbari in camicia bianca per dichiarare: “Abbiamo ripristinato la nostra sovranità”.

Li sentiamo e li vediamo. Anche i giovani intelligenti e di talento vedono; anche loro vedono la direzione. E sono ancora qui. Non capisco perché vadano come pecore al macello. Potrebbero ancora cambiare direzione, trovare un’altra strada. Lottare per questo – o fuggire. Questa è la scelta”.

Così Klein.

Bramosia di possesso

La conquista dei luoghi santi di Gerusalemme, avvenuta con la Guerra dei Sei giorni dell’estate 1967, viene rielaborata in una chiave ideologica che da subito aveva preoccupato i due “eroi” di quella Guerra: il ministro della Difesa, Moshe Dayan, e il capo di stato maggiore di Tsahal, Yitzhak Rabin. A farsi strada è la sacralità di “Eretz Israel”, che in quanto tale non è data come materia disponibile per qualsiasi politico. La Terra è Dio. E’ il trionfo del revisionismo sionista di Zeev Jabotinsky, l’humus culturale e ideologica su cui è cresciuta la fortuna politica della destra israeliana. In questa narrazione, la questione della sicurezza, che pure segna da sempre la quotidianità della popolazione israeliana, ha un ruolo tutto sommato secondario. Il punto centrale è che la Terra d’Israele non è negoziabile. E’ una questione identitaria, e dunque metapolitica. Affrontarla significa rileggere la storia d’Israele, dalla sua fondazione ad oggi, e assieme ad essa, quella, non meno complessa e tormentata, della diaspora. Segnata nel tempo da una bramosia di possesso assoluto che ha prodotto guerre, odii secolari, tingendo di sangue le sue pietre millenarie. Gerusalemme. “Il problema di Gerusalemme consiste nel fatto che è oggetto di una competizione aspra, crudele e nazionalistica tra gli ebrei d’Israele e gli arabi palestinesi. Per entrambe le parti vincere la competizione significa acquistare una sovranità incontrastata sulla città”. Così Avishai Margalit, tra i più acuti analisti politici israeliani, professore di Filosofia all’Università ebraica di Gerusalemme, riflette sulla Città Contesa nel suo libro Volti d’Israele (Carrocci). “Ciò che rende il problema di Gerusalemme tanto complesso – annota ancora Margalit – è il fatto che l’attuale competizione nazionalistica per la città si svolge sullo sfondo di un’antica e sanguinosa competizione religiosa tra ebraismo, cristianesimo e islam. Per comprendere la profondità del conflitto nazionalistico bisogna afferrare il carattere di quello religioso…”. Per questo Gerusalemme è il simbolo di un conflitto che non ha eguali al mondo. Perché come nessun conflitto al mondo racchiude in esso interessi, sentimenti, geopolitica e simbologia, in una dimensione atemporale. Sono dunque gli scrittori coloro che meglio sono riusciti a catturare l’essenza e a raccontare la natura del problema. E tra gli scrittori ce ne è uno che più di chiunque altro ha scavato in quel groviglio di sentimenti, ambizioni, paure, speranze, odio, che da sempre caratterizza l’affaire- Jerusalem. Quello scrittore, scomparso qualche anno fa, è Amos Elon. Gerusalemme – osserva Elon nel suo libro Gerusalemme. I conflitti della memoria (BUR) – conserva uno straordinario fascino sulla fantasia e genera, per tre fedi ostili che si esprimono con parole perfettamente intercambiabili, la paura e la speranza dell’Apocalisse. Qui il territorialismo religioso è un’antica forma di cultura. A Gerusalemme, nazionalismo e religione furono sempre intrecciati tra loro; qui l’idea di una terra promessa e di un popolo eletto fu brevettata per la prima volta, a nome degli ebrei, quasi tremila anni fa. Da allora – prosegue Elon – il concetto del nazionalismo come religione ha trovato emuli anche altrove…Oggi, a Gerusalemme, religione e politica territoriale sono una cosa sola. Per i palestinesi come per gli israeliani, religione e nazionalismo si sovrappongono e combaciano. Da entrambe le parti si fondono e ciò che nasce è potenzialmente esplosivo”. Tutto su Gerusalemme rimanda a una visione assolutistica che non conosce né concede l’esistenza di aree “grigie”, di incontri a metà strada tra le rispettive ragioni. Un diplomatico, tutto ciò, dovrebbe saperlo e tenere bene in mente. Perché in questo crogiolo di sentimenti e di passioni, anche un fotomontaggio può divenire devastante.Sari Nusseibeh, già rettore dell’Università Al-Quds a Gerusalemme Est, è il più autorevole e indipendente tra gli intellettuali palestinesi. La sua è una delle più antiche famiglie gerusalemite, assieme agli Husseini e ai Nashashibi. Del suo libro” C’era una volta un paese. Una vita in Palestina”(Il Saggiatore), questa è la conclusione: “I dualismi di buono e malvagio, bianco e nero, giusto e sbagliato, all’insegna del ‘noi’ e ‘loro’, dei nostri ‘diritti e delle loro ‘usurpazioni’, hanno ridotto a brandelli la Terra santa. La sola speranza ci viene quando diamo ascolto alla saggezza della tradizione, e dalla consapevolezza che Gerusalemme non può essere conquistata o conservata con la violenza. E’ una città di tre fedi diverse ed è aperta al mondo….Negli antichi, intricati vicoli di Gerusalemme, stupore e prodigi sono sempre dietro l’angolo, pronti a ricordarti che questo non è un posto comune che un rilevatore può misurare con la sua asta graduata. E’ una terra troppo sacra per questo”. E per una dichiarazione unilaterale che ne viola saggezza e tradizione. E ne fa il centro di una possibile, devastante, guerra di religione”.

Identità e memoria: un nesso inscindibile. In proposito, David Grossman ebbe a dire di essere d’accordo “con quanto detto da Abraham Yehoshua sulla memoria: le persone, le società, i paesi molto spesso sono ferme nella memoria, ricordano troppo e questo significa perdere il contatto con la realtà vera ed essere invece in rapporto con la proiezione delle nostre paure, dei nostri stereotipi e pregiudizi. Dobbiamo affrontare la memoria e i ricordi con sospetto e cautela”. Forse, afferma lo scrittore, “possiamo andare oltre, possiamo dire che siamo cresciuti e lasciarcele indietro queste storie”. “Memoria – rimarca ancora Grossman in una intervista concessa a Daniel Reichel per Pagine Ebraiche (febbraio 2020) –  è il modo in cui creiamo la nostra identità . Siamo quello che ricordiamo ma siamo anche ciò che dimentichiamo. A volte diventiamo dipendenti dalla memoria che non ci permette di dimenticare cose che provocano il nostro essere bloccati in determinate circostanze. Siamo vittime dei nostri stessi ricordi, non siamo capaci di rielaborarli…”. 

Sfrattati a forza

Il 10 marzo 2021, quattordici organizzazioni palestinesi e arabe hanno lanciato un “appello congiunto urgente alle Procedure Speciali delle Nazioni Unite sugli sgomberi forzati a Gerusalemme est” per fermare gli sgomberi israeliani nella zona. Le decisioni successive dei tribunali israeliani hanno spianato la strada all’esercito e alla polizia israeliani per sfrattare 15 famiglie palestinesi – 37 case per circa 195 persone – nell’area di Karm Al-Ja’ouni a Sheikh Jarrah e nel quartiere di Batn Al-Hawa nella città di Silwan. Questi imminenti sfratti non sono i primi, né saranno gli ultimi. Israele ha occupato Gerusalemme est palestinese nel giugno 1967 e formalmente, anche se illegalmente, l’ha annessa nel 1980. Da allora, il governo israeliano ha respinto con veemenza le critiche internazionali all’occupazione israeliana, definendo, invece, Gerusalemme come la “capitale eterna e indivisa di Israele” .Per garantire che la sua annessione della città fosse irreversibile, il governo israeliano ha approvato il Master Plan 2000, un imponente progetto intrapreso da Israele per riorganizzare i confini della città in modo tale da garantire una maggioranza demografica permanente per gli ebrei israeliani a spese degli abitanti nativi della città. Il Master Plan non era altro che un progetto per una campagna di pulizia etnica sponsorizzata dallo stato, che ha visto la distruzione di migliaia di case palestinesi e il conseguente sfratto di numerose famiglie. Mentre i titoli dei giornali presentano occasionalmente gli sfratti abituali delle famiglie palestinesi a Sheikh Jarrah, Silwan e in altre parti di Gerusalemme Est come una questione che coinvolge contro-rivendicazioni da parte di residenti palestinesi e coloni ebrei, la storia è, in effetti, una rappresentazione più ampia della storia moderna della Palestina. La maggior parte degli sgomberi a Gerusalemme Est avvengono nel contesto di questi tre argomenti giuridicii interconnessi e strani: la legge degli assenti, la legge sulle questioni legali e amministrative e il Master Plan 2000. Nell’ insieme, si è facilmente in grado di decifrare la natura del progetto coloniale israeliano a Gerusalemme est, dove individui israeliani, in coordinamento con organizzazioni di coloni, lavorano insieme per realizzare la loro visione dello Stato. Nel loro appello congiunto, le organizzazioni palestinesi per i diritti umani descrivono come l’insieme degli ordini di sfratto, emessi dai tribunali israeliani, culminano nella costruzione di insediamenti ebraici illegali. Le proprietà palestinesi confiscate vengono solitamente trasferite a una filiale all’interno del Ministero della Giustizia israeliano denominata Custode Generale Israeliano. Quest’ultimo mantiene queste proprietà fino a quando non vengono rivendicate dagli ebrei israeliani, in conformità con la legge del 1970. Una volta che i tribunali israeliani onorano le rivendicazioni legali di individui ebrei israeliani sulle terre palestinesi confiscate, questi individui spesso trasferiscono i loro diritti di proprietà o gestione a organizzazioni di coloni. In pochissimo tempo, queste ultime organizzazioni utilizzano la proprietà appena acquisita per espandere gli insediamenti esistenti o per avviarne di nuovi.

“Mentre lo Stato israeliano afferma di svolgere un ruolo imparziale in questo progetto, in realtà è il facilitatore dell’intero processo – scrive Ramzy Baroud, giornalista e direttore di The Palestine Chronicle, in un documentato e vibrante articolo tradotto e pubblicato da palestinaculturaliberta.org in Italia  Il risultato finale si manifesta nella scena sempre prevedibile, dove una bandiera israeliana viene issata trionfante su una casa palestinese e una famiglia palestinese riceve una tenda fornita dall’Onu e alcune coperte. Mentre l’immagine sopra può essere liquidata da alcuni come un altro evento comune e di routine, la situazione nella Cisgiordania occupata e Gerusalemme Est è diventata estremamente instabile. I palestinesi sentono di non avere più niente da perdere e il governo di Netanyahu è più incoraggiato che mai…”.

Da quella denuncia sono passati 15 mesi. Netanyahu non è più a capo del governo d’Israele.  Le cose sono cambiate…in peggio. E il “simbolo della menzogna” continua a essere brandito dai fascisti con la kippah. 

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