Libia-Italia: quel memorandum della vergogna, quattro anni dopo
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Libia-Italia: quel memorandum della vergogna, quattro anni dopo

l bilancio, è sempre più desolante e riflette il fallimento della politica italiana ed europea, che continua a dare soldi col solo obiettivo di bloccare gli arrivi a scapito dei diritti umani e delle morti

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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

2 Febbraio 2021 - 16.19


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Accordo Italia-Libia, quattro anni dopo: cronaca un fallimento annunciato.

Il bilancio, a quattro anni dall’accordo Italia-Libia (2 Febbraio 2017-2 Febbraio 2021)  sul contenimento dei flussi migratori, è sempre più desolante e riflette il fallimento della politica italiana ed europea, che continua a stanziare fondi pubblici col solo obiettivo di bloccare gli arrivi nel nostro paese, a scapito della tutela dei diritti umani e delle continue morti in mare. Senza disegnare nessuna soluzione di medio-lungo periodo per costruire canali sicuri di accesso regolare verso l’Italia e l’Europa.

 Fallimento totale

È l’allarme diffuso oggi da Asgi, Emergency, Medici Senza Frontiere, Mediterranea, Oxfam e Sea-Watch, che rilanciano un appello urgente al Parlamento, per un’immediata revoca degli accordi bilaterali e il ripristino di attività istituzionali di Ricerca e Soccorso nel Mediterraneo centrale.

“Dalla firma dell’accordo, l’Italia, in totale continuità con l’approccio europeo di esternalizzazione del controllo delle frontiere, ha speso la cifra record di 785 milioni euro per bloccare  i  flussi migratori in Libia e finanziare le missioni navali italiane ed europee. – affermano le organizzazioni firmatarie dell’appello –  Una buona parte di quei soldi – più di 210 milioni di euro – sono stati spesi direttamente nel paese, ma purtroppo non hanno fatto altro che contribuire a destabilizzarlo ulteriormente e spinto i trafficanti di persone a convertire il business del contrabbando e della tratta di esseri umani, industria della detenzione. La Libia non può essere considerata un luogo sicuro dove portare le persone intercettate in mare, bensì un Paese in cui violenza e brutalità rappresentano la quotidianità per migliaia di migranti e rifugiati”.

Libia: tutt’altro che porto sicuro

Come riconosciuto dalle istituzioni internazionali ed europee, comprese le Nazioni Unite e la Commissione europea, la Libia non può in alcun modo essere considerata un luogo sicuro dove far sbarcare le persone soccorse in maresia perché è un Paese instabile, dove non possono essere garantiti i diritti fondamentali, sia perché migranti e rifugiati sono sistematicamente esposti al rischio di sfruttamento, violenza e tortura e altre gravi e ben documentate violazioni dei diritti umani. Eppure, continua ad aumentare il contributo italiano ed europeo alla Guardia Costiera libica, che negli ultimi 4 anni ha intercettato e riportato forzatamente nel Paese almeno 50 mila persone, 12 mila solo nel 2020. 

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Molti vengono detenuti arbitrariamente nei centri di detenzione ufficiali, dove la popolazione oscilla tra le 2.000 e le 2.500 persone. Tuttavia, meno noti sono i numeri dei detenuti in altri luoghi di prigionia clandestini a cui le Nazioni Unite e altre agenzie umanitarie non hanno accesso e dove le condizioni di vita sono persino peggioriLa detenzione arbitraria è però solo una piccola parte del devastante ciclo di violenza, in cui sono intrappolati migliaia di migranti e rifugiati in Libia. Uccisioni, rapimenti, maltrattamenti a scopo di estorsione sono minacce quotidiane, che continuano a spingere le persone alle pericolose traversate in mare, in assenza di modi più sicuri per cercare protezione in Europa.

Obiettivo raggiunto: nessun soccorso nel Mediterraneo centrale

Dal 2017 – denunciano ancora le 6 organizzazioni – sono stati spesi 540 milioni di euro dall’Italia, solo per finanziare missioni navali nel Mediterraneo, il cui scopo principale non era quello di soccorrere le persone. Nello stesso periodo, secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim), quasi 6.500 persone sono morte nel tentativo di raggiungere l’Europa attraverso il Mediterraneo centrale, mentre tutti i governi italiani che si sono succeduti hanno ostacolato l’attività delle navi umanitarie, senza fornire alternative alla loro presenza in mare. Persino le recenti modifiche della normativa in materia di immigrazione non hanno di fatto eliminato il principio di criminalizzazione dei soccorsi in mare, che era stato introdotto dal secondo Decreto Sicurezza.

Nel corso del 2020, l’Italia ha bloccato inoltre sei navi umanitarie con fermi amministrativi basati su accuse pretestuose, lasciando il Mediterraneo privo di assetti di ricerca e soccorso e ignorando, allo stesso tempo, le segnalazioni di imbarcazioni in pericolo. Contribuendo così alle 780 morti e al respingimento di circa 12.000 persone, documentate durante il corso dell’anno dall’Oim.

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Infatti, la risposta delle istituzioni Ue alla crisi umanitaria nel Mediterraneo centrale si limita alle operazioni di monitoraggio aereo di Frontex, Eunavformed Sophia e, ora, Irini, che di fatto contribuiscono spesso alla facilitazione dei respingimenti verso la Libia. Intanto le operazioni di monitoraggio aereo civile, seppur discontinue e anch’esse ostacolate, nel 2020 hanno avvistato quasi 5.000 persone in pericolo in mare in 82 casi, testimoniando continui episodi di mancata o ritardata assistenza da parte delle autorità.

Dall’Italia, nessuna notizia sulla dichiarata modifica dell’accordo

Infine, pur di fronte al tragico fallimento dell’accordo da anni sotto gli occhi dell’opinione pubblica sottolineano le organizzazioni – nulla si è più saputo rispetto alla proposta libica di modifica del Memorandum, annunciata il 26 giugno 2020 e che a detta del ministro degli Esteri Luigi di Maio andava “nella direzione della volontà italiana di rafforzare la piena tutela dei diritti umani”.

Né tantomeno sono stati resi noti gli esiti della riunione del 2 luglio 2020 del Comitato interministeriale italo-libico, o se ci siano stati nuovi incontri, e neppure a quali eventuali esiti finali sia giunto il negoziato che avrebbe dovuto portare un deciso cambio di rotta nei contenuti dell’accordo.

 L’appello al Parlamento

 Tenendo conto dell’attuale crisi politica, le organizzazioni chiedono quindi al Parlamento di istituire una Commissione di inchiesta, che indaghi sul reale impatto dei soldi spesi in Libia e sui naufragi nel Mediterraneo e di presentare un testo che impegni il Governo a:   interrompere l’accordo Italia-Libia, subordinando qualsiasi futuro accordo bilaterale alla transizione politica della crisi libica, nonché alle necessarie riforme del sistema giuridico che eliminino la detenzione arbitraria e prevedano adeguate misure di assistenza e protezione per migranti e rifugiati;     dare l’indirizzo a non rinnovare le missioni militari in Libia, chiedendo con forza la chiusura dei centri di detenzione nel paese nord-africano;  promuoverein sede europea, l’approvazione di un piano di evacuazione dalla Libia delle persone più vulnerabili e a rischio di subire violenze, maltrattamenti e gravi abusi;    dare mandato per l’istituzione di una missione navale europea con chiaro compito di ricerca e salvataggio delle persone in mare;    promuovere, in sede europea, l’approvazione di un meccanismo automatico per lo sbarco immediato e la successiva redistribuzione delle persone in arrivo sulle coste meridionali europee, sulla base del principio di condivisione delle responsabilità tra stati membri su asilo e immigrazione;    promuovere la revoca dell’area di ricerca e soccorso libicapoiché solo finalizzata all’intercettazione e al respingimento illegale delle persone in Libia;    riconoscere il ruolo delle organizzazioni umanitarie nella salvaguardia della vita umana in mare, mettendo fine alla loro criminalizzazione e liberando le loro navi ancora sotto fermo.

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Serve oggi più che mai un’azione decisa e tempestiva per gestire e regolare gli ingressi, perché mentre la politica continua a tergiversare concentrandosi solo su come impedire gli arrivi, migliaia di persone in fuga da guerre, persecuzioni e miseria muoiono in mare o sono vittime di orrori indicibili”, rimarca 

Proposte precise, concrete, che nascono da una esperienza sul campo fatta in questi anni dalle 6 organizzazioni firmatarie. Proposte che, dalla lettura della vagonata di articoli, del genere che tanto in auge va in Italia, unico Paese del mondo civilizzato dedito a questo esercizio giornalistico (si fa per dire), il “retroscenismo”, non trovano un che minimo spazio sui tavoli programmatici dei partiti che trattano la formazione del nuovo Governo, Conte ter o altro. Non è una novità. E’ purtroppo la triste “normalità” di un ceto politico autoreferenziale. Ma il mondo solidale italiano, si sa, è cocciuto e non si arrende. La battaglia continua. Una battaglia di civiltà.

 

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