La "Striscia" infettata dal coronavirus: così i palestinesi stanno morendo a Gaza
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La "Striscia" infettata dal coronavirus: così i palestinesi stanno morendo a Gaza

Il ministero della Salute si sta preparando al peggio se la situazione epidemiologica non migliorasse. Il numero di terapie intensive è limitato e l’approvvigionamento di medicinali è sempre più difficile

Il valico di Rafah tra Egitto e Palestina
Il valico di Rafah tra Egitto e Palestina
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

18 Dicembre 2020 - 15.35


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Gaza, l’incubo si sta avverando. Aumento record di contagi da coronavirus nella Striscia di Gaza, con una situazione sanitaria che rischia di finire fuori controllo secondo le autorità mediche e politiche. 

Nel fine settimana i nuovi casi sono stati oltre 890, il picco più alto dall’inizio della pandemia. In totale i positivi sono stati oltre 15 mila e 70 decessi. Oltre 300 le persone ricoverate in terapia intensiva, con 79 dei 100 ventilatori polmonari già occupati.

Isolamento e sovrappopolazione 

Il numero di casi gravi non è altissimo, riferiscono i medici di Gaza, ma a preoccupare sono le condizioni di tutta la Striscia dove la densità della popolazione è altissima e oltre due milioni di persone vivono in poche centinaia di chilometri quadrati.

Il ministero della Salute si sta quindi preparando al peggio se la situazione epidemiologica dovesse restare quella attuale. Il numero di terapie intensive è molto limitato e l’approvvigionamento di medicinali è sempre più difficile a causa del blocco israeliano, sostenuto anche dall’Egitto. L’isolamento di Gaza, paradossalmente, aveva protetto l’area dalla prima ondata del virus, ma già ad agosto si erano cominciati a registrare i primi casi fuori dai centri di quarantena, aumentando così la preoccupazione della popolazione e spingendo le autorità ad imporre il coprifuoco.

Sempre più difficile lasciare la Striscia

“Il coronavirus ha reso più grave la situazione umanitaria e la vita ordinaria”, conferma a Vatican News padre Gabriel Romanelli, parroco a Gaza, “non dimentichiamoci che da oltre dieci anni su Gaza pesa un embargo molto stretto e questo fa sì che quelli che hanno dei permessi e possono andare fuori sono pochissimi, soprattutto chi si dedica al commercio”. Nell’ultimo periodo, poi, le persone che hanno potuto lasciare la Striscia, spiega ancora, “è stato ridotto in maniera drastica”, anche perché a causa della pandemia, “in Israele è anche chiuso l’ufficio che si occupa di concedere visti e permessi”.

“Entro una settimana non saremo in grado di occuparci dei casi critici causati dal coronavirus”. Non lascia spazio alle interpretazioni l’allarme lanciato nei giorni scorsi da Abdelnaser Soboh, responsabile per l’Organizzazione mondiale della sanità dell’emergenza Covid-19 nella Striscia di Gaza. Il rischio tanto temuto a marzo, all’inizio della pandemia, è diventato una drammatica realtà in questo lembo di terra palestinese martoriato negli ultimi anni dalle offensive militari israeliane, penalizzato dalla scarsità di acqua potabile e di energia elettrica e che fa i conti con la precarietà delle infrastrutture civili. Il numero dei contagi è in rapido aumento e la percentuale di tamponi positivi è oltre il 20%. «Molto presto la nostra sanità non sarà in grado di assorbire un tale aumento dei casi e potrebbero esserci malati che non troveranno posto nelle terapia intensiva», avverte da parte sua Abdel Raouf Elmanama, membro della task force pandemica di Gaza.

Israele ha consentito nei mesi scorsi l’ingresso a Gaza di 60 respiratori e di una decina dispositivi per i tamponi. Il fabbisogno però è più alto. E i palestinesi puntano il dito proprio contro il blocco israeliano che, denunciano, non ha permesso di riorganizzare in modo più efficiente il sistema sanitario della Striscia. Nei giorni scorsi il movimento islamico Hamas – che controlla Gaza dal 2007 – attraverso gli egiziani ha avvertito Israele che la situazione sta per «andare fuori controllo». Stando a fonti ben informate citate dal quotidiano Al Akhbar, i recenti razzi lanciati da Gaza verso il territorio israeliano non sono altro che un segnale di allarme. «Servono subito una decina di macchinari per l’analisi dei tamponi e altri 40 respiratori per coprire le necessità delle prossime settimane. Altrimenti il fallimento del piano di assistenza ai malati sarà inevitabile, con conseguenze drammatiche», ci dice il giornalista Aziz Kahlout di Gaza city.

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Ad appesantire il clima è il rapporto presentato dall’Unctad (Onu) nei giorni scorsi che spiega come il blocco israeliano di Gaza sia costato oltre 16 miliardi di dollari ai suoi abitanti – sei volte il valore del prodotto interno lordo di Gaza nel 2018, o il 107% del PIL totale palestinese, compresa la Cisgiordania – e come abbia spinto, tra il 2007 e il 2018, più di un milione di palestinesi al di sotto della soglia di povertà.

Gli ospedali stanno esaurendo rapidamente le loro riserve di carburante di emergenza che ora dovranno destinare ad arginare la minaccia del Covid-19; rimane, quindi, poca scelta se non rimandare gli interventi chirurgici, dimettere i pazienti prematuramente e fermare i trattamenti salvavita come la dialisi. Il ministero della Salute di Gaza ha avvertito che le vite dei bambini nelle incubatrici e nelle unità di assistenza neonatale sono a rischio immediato”, è l’allarme lanciato da Save the Children.
Altre infrastrutture essenziali come il trattamento delle acque e le strutture fognarie cesseranno di funzionare senza carburante, riducendo l’accesso all’acqua pulita e rendendo difficile per le famiglie lavarsi le mani. Questo e la limitata capacità medica minacciano di creare le condizioni perfette per la diffusione del Covid-19.

“Gaza sta già combattendo la diffusione del Covid-19 ma ogni giorno, in cui viene negato l’approvvigionamento di carburante, avvicina una catastrofe umanitaria. Non ci si può aspettare che ovunque si possa far fronte a una pandemia senza carburante per gestire ospedali, ambulanze o servizi che forniscono acqua pulita, figuriamoci in un luogo come Gaza dove le famiglie stavano già lottando per ottenere cure per i loro bambini e affrontando attacchi aerei in corso – dichiara Mohamad Alasmar, direttore di Save the Children per l’advocacy e la comunicazione in Medio Oriente -. Chiediamo ai gruppi armati di Gaza di smettere di inviare palloni incendiari e di lanciare razzi e chiediamo a Israele di rinnovare urgentemente le forniture di carburante per consentire a Gaza di rispondere alla crescente minaccia del Covid-19. Il blocco è illegale secondo il diritto internazionale e la decisione di interrompere la fornitura di carburante alla popolazione equivale a una punizione collettiva contro la legge. Israele rimane la potenza occupante di Gaza e, in quanto principale portatore di doveri, conserva le responsabilità per il benessere della popolazione. Deve revocare il blocco terrestre, aereo e marittimo di Gaza in linea con i suoi obblighi ai sensi del diritto internazionale”.

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“Il virus si sta diffondendo e la situazione sta sfuggendo di mano”, avverte il dottor Ahmad al-Jadba, funzionario dell’ospedale Shifa di Gaza City. “Il numero di casi gravi non è elevato ma i servizi medici disponibili sono pochi e molte persone dubitano dell’esistenza del coronavirus”, si è rammaricato.

“Il numero di letti di terapia intensiva è molto limitato, così come le medicine”, dice Mahmoud Al-Khazindar, direttore di un ospedale privato a Gaza. “Se il numero dei casi aumenta, bisognerà scegliere tra l’assistenza agli anziani, ai giovani e ai pazienti con un’altra malattia”, ha avvertito.

Il ministero della Salute “si aspetta il peggio se la situazione epidemiologica rimane la stessa”, dichiara Bassem Naïm, un alto funzionario di Hamas ed ex ministro della salute, riferendosi a “un sistema sanitario alla corda” per la grave carenza di medicine e per “il sovraffollamento estremo”.

La Striscia è uno dei posti più densamente abitati al mondo, dove isolarsi per fermare la catena di contagio del virus sarebbe assai complicato. La seconda ragione riguarda le condizioni fatiscenti del sistema sanitario locale: secondo i calcoli di Foreign Policy gli ospedali della Striscia dispongono soltanto di 70 posti letto di terapia intensiva – gli unici adatti a gestire un paziente in condizioni gravi – e oggi sono in uso 45 dei 60 ventilatori disponibili, fa sapere l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). “Non ci vuole molto perché il sistema, che per il momento sta reggendo, abbia notevoli difficoltà”, dice a Foreign Policy Jamie McGoldrick, che coordina la task dell’Oms per la gestione del coronavirus in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Secondo i dati dell’Oms il 97% dell’acqua di Gaza non è pulita, per cui sarebbe difficile per i medici e il personale sanitario anche solo rispettare le normali norme igieniche e riuscire a lavarsi mani e faccia, come raccomandato in tutti gli altri Paesi in cui si sono registrati dei contagi. A ciò si aggiunge la mancanza cronica di medicine e prodotti sanitari di base, senza contare l’inadeguatezza delle strutture sanitarie in caso di ricoveri in terapia intensiva e un sistema già al collasso da mesi. A gennaio l’Ong israeliana B’Tselem ha pubblicato un report in cui evidenziava la difficoltà degli ospedali della Striscia nel curare le centinaia di persone rimaste ferite durante le manifestazioni al confine con Israele.

Un tweet da Gaza diventato virale su Internet ha chiesto: “Caro mondo, come ci si sente in quarantena? Cordialmente, Gaza, assediata già da 14 anni». 

Già nel 2018, il tasso di disoccupazione di Gaza era probabilmente il più alto al mondo, la maggior parte della popolazione dipendeva dagli aiuti alimentari, il 39% delle famiglie viveva in condizioni di povertà,  un bambino su dieci  era affetto da malnutrizione cronica e il 96% dell’acqua del rubinetto era contaminata.  Le Nazioni Unite già nel 2015 avevano sostenuto che Gaza sarebbe potuta diventare “invivibile” già dal 2020. L’intelligence militare israeliana ha concordato, mentre le Nazioni Unite successivamente hanno sostenuto che quella proiezione era da considerarsi troppo ottimista. 

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Immagina…

“Immagina due milioni di esseri umani che vivono nello spazio di soli trecentosessantacinque chilometri quadrati. Uno dei luoghi più densamente popolati del pianeta terra, confinato in una gabbia da cui non possono fuggire. Questi due milioni di persone non possono andarsene, anche se volessero, senza grandi difficoltà. Devono vivere la propria vita entro i confini di questa zona di terra in rapido deterioramento, alcuni persistono nella speranza che un giorno le cose possano cambiare, ma molti sopravvivono con la consapevolezza che potrebbero non farlo. Indipendentemente dal loro grado di ottimismo o pessimismo, tutti sono isolati dal resto del mondo. Chiamiamo questo posto la Striscia di Gaza, ed è stato bloccato da Israele dal 2007, scrive su Haaretz, il quotidiano progressista israeliano, Shannon Marre Torrens, avvocato internazionale e per i diritti umani, con una vasta esperienza in materia: ha lavorato presso i tribunali penali internazionali delle Nazioni Unite per l’ex Jugoslavia, Ruanda, Sierra Leone e Cambogia e con il Tribunale penale internazionale. 

E prosegue: “Se sei rinchiuso in una gabbia, sei protetto – ma, allo stesso tempo, sei anche molto più a rischio di essere gravemente colpito. Se la gente di Gaza non si sente bene, a qualcuno importa, non più che nella minima misura che ha in passato? Cambierà qualcosa per loro o semplicemente peggiorerà molto? Con notevoli problemi economici a Gaza, il più alto tasso di disoccupazione nel mondo e la mancanza di forniture a causa delle restrizioni all’importazione di beni, è impossibile per le famiglie fare scorta di articoli e medicinali essenziali. Quelli con problemi di salute esistenti sono particolarmente vulnerabili alla malattia. Con la salute generale di molte persone a Gaza in costante calo a causa di un grave deficit sanitario e di un basso tenore di vita, la popolazione ne risentirebbe in modo univoco. È improbabile che gli abitanti di Gaza avranno un facile accesso ai kit di test se saranno sospettati di contrarre Covid-19 e ancora più improbabile che riceveranno cure mediche adeguate se saranno effettivamente infettati. Nel migliore dei casi, quando i pazienti a Gaza sono così malati da chiedere il permesso a Israele di partire attraverso il valico di Erez per cure mediche in Cisgiordania o in Israele, spesso non ricevono risposta o vengono respinti. Nel caso di un focolaio di coronavirus a Gaza, la probabilità che vengano respinte le autorizzazioni di uscita per l’assistenza medica è quindi elevata, in particolare se Israele sta lottando contro il proprio focolaio…

Il titolo della sua analisi è, insieme, una drammatica constatazione di fatto e un disperato appello alla comunità internazionale: “Coronavirus è una condanna a morte per i palestinesi ingabbiati a Gaza”.

(ha collaborato Osama Hamdan)

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