Natale da sequestrati in Libia per i pescatori di Mazara mentre a Roma tutto tace
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Natale da sequestrati in Libia per i pescatori di Mazara mentre a Roma tutto tace

Nonostante si sia bussato a tutte le porte degli amici e sponsor del sequestratore, i 18 marittimi di Mazara del Vallo non vedono la luce in fondo al tunnel.

Manifestazione per i pescatori di Mazara sequestrati a Bengasi
Manifestazione per i pescatori di Mazara sequestrati a Bengasi
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

16 Dicembre 2020 - 15.41


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Una cosa appare certa: passeranno il Natale da ostaggi. Perché nonostante aver bussato a tutte le porte degli amici e sponsor del sequestratore, i 18 marittimi di Mazara del Vallo non vedono la luce in fondo al tunnel. Sequestrati da oltre 100 giorni in Libia, ecco la loro condizione nel racconto di oggi del Corriere della Sera:  “I due pescherecci italiani sequestrati sono ormeggiati alla banchina principale della zona militare costruita ai tempi di Gheddafi nel grande porto di Bengasi. Ieri poco dopo mezzogiorno non erano visibili sentinelle lì attorno. Sono fermi e vuoti da quando sono stati sequestrati dalle motovedette del maresciallo Khalifa Haftar, la notte tra l’uno e il due settembre. L’Antartide e il Medinea hanno le reti arrotolate sul ponte di poppa, vicino alle casse vuote, ben impilate, del pescato. I 18 membri dell’equipaggio (8 italiani, 6 tunisini, 2 indonesiani e 2 senegalesi) si trovano invece chiusi nella palazzina di quattro piani dell’amministrazione, sita a circa 500 metri dalle due barche. Secondo un collaboratore locale del Corriere, che è stato al porto militare ieri, i prigionieri sono relegati in un grande stanzone al secondo piano. Il cibo viene servito regolarmente: una dieta a base di pasta, pesce e verdura. Trascorrono il tempo guardando la televisione, hanno servizi igienici sempre accessibili. Sin dall’inizio del sequestro, e come già nei numerosi casi simili nel passato, le autorità italiane hanno chiesto che i marinai non venissero chiusi in un carcere con altri prigionieri. Alcune settimane fa era girata la notizia che fossero stati spostati nel carcere civile di El Kuefia, una quindicina di chilometri da Bengasi. Ma dal campo testimoniano il contrario. Si tratta però di prigionia a pieno titolo. Non hanno alcuna libertà di movimento. L’intera area è circondata da un muro di cemento. Vi si accede dal centro città soltanto da un posto di blocco controllato dalle teste di cuoio con l’uniforme blu dei commando della marina di Haftar, addestrate dai consiglieri militari russi ed egiziani. Quattro o cinque sentinelle stazionano notte e giorno all’entrata della palazzina. A sentire gli ufficiali di Haftar ci sono poche speranze che siano liberati per Natale. ‘La prossima settimana inizierà il processo agli italiani qui nel tribunale di Bengasi. Attendiamo il verdetto. E dobbiamo valutare se il governo di Roma è disposto a scambiare i calciatori libici condannati a 30 anni di carcere dai tribunali italiani’, spiega un alto graduato che comanda la difesa del porto, riferendosi al caso dei quattro giovani libici accusati nel 2015 dal tribunale di Catania di essere trafficanti di esseri umani e di aver causato la morte di 49 migranti. Fonti locali spiegano inoltre la differenza del caso italiano con quello dei 17 marinai turchi a bordo del mercantile Mabruka fermati dai guardiacoste di Haftar il 5 dicembre e liberati solo 5 giorni dopo su pagamento di una cauzione da parte di Ankara. Dicono: «La nave turca è stata ispezionata. Non trasportava armi o merce illegale. Gli italiani stavano invece gettando le reti nella zona esclusiva libica di pesca. Sapevano di contravvenire le nostre leggi e non era la prima volta”.

Il nulla di Roma

Una conferma che ormai non contiamo più nulla nello scacchiere mediterraneo viene da New York. Nei giorni scorsi il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato la proposta del segretario generale, Antonio Guterres, di nominare il bulgaro Nickolay Mladenov come nuovo inviato speciale in Libia. Mladenov sostituirà Ghassan Salamé, che aveva lasciato l’incarico lo scorso marzo per motivi personali. Il diplomatico bulgaro è stato negli ultimi anni il mediatore dell’Onu nel conflitto israelo-palestinese. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato contemporaneamente la proposta di Guterres di nominare il norvegese Tor Wennesland nuovo inviato Onu per il processo di pace in Medio Oriente. Wennesland ricopriva il ruolo di inviato speciale della Norvegia per il Medio Oriente. Wennesland prenderà il posto di Mladenov, nominato nuovo inviato speciale in Libia. Dunque: un bulgaro e un norvegese rappresenteranno le Nazioni Unite in un’area Sud rivestendo ruoli che l’Italia ambiva. 

Il caso della nave turca

Il portavoce dell’armata del generale Khalifa Haftar, cioè dell’Esercito nazionale libico (Lna), Ahmed al Mismari, ha annunciato giovedì scorso  che la nave turca Mabrouka, battente bandiera giamaicana, è stata rilasciata dopo la perquisizione e l’interrogatorio del suo equipaggio. Il colonnello al-Mismari ha dichiarato in una nota che la nave turca, il cui fermo da parte delle motovedette di Haftar risale al 5 dicembre, quando il cargo venne dirottato nel porticciolo di Raas al-Hilal (nella foto sotto), 80 chilometri a ovest di Derna e 40 a nord di al-Baida, sede del governo della Cirenaica.

La nave “è stata rilasciata dopo che è stata pagata una multa per aver navigato nelle acque territoriali libiche senza autorizzazione nonché per essere entrata in una zona di operazioni militari” ha aggiunto al-Mismari. Secondo l’Lna la nave cargo, che aveva a bordo 17 uomini di equipaggio, di cui 9 cittadini turchi, era entrata in una zona proibita al largo di Derna.

Alla nave turca è stata comminata una multa mentre per liberare navi e marittimi italiani pare che Haftar voglia la liberazione di quattro rampolli di importanti clan che sostengono il feldmaresciallo, uomini che in Libia vengono definiti “calciatori” e che da noi sono in galera con condanne per reati gravissimi, incluso l’omicidio, legati allo sfruttamento dell’immigrazione illegale. Uno “scambio di prigionieri” che si addice più ad accordo tra due nemici dopo un cessate il fuoco che a un sequestro arbitrario di cittadini italiani allo scopo di ricattare e umiliare Roma.

Alla nave turca – annota il direttore di AnalisiDifesa Gianandrea Gaiani – è stata comminata una multa mentre per liberare navi e marittimi italiani pare che Haftar voglia la liberazione di quattro rampolli di importanti clan che sostengono il feldmaresciallo, uomini che in Libia vengono definiti “calciatori” e che da noi sono in galera con condanne per reati gravissimi, incluso l’omicidio, legati allo sfruttamento dell’immigrazione illegale. Uno “scambio di prigionieri” che si addice più ad accordo tra due nemici dopo un cessate il fuoco che a un sequestro arbitrario di cittadini italiani allo scopo di ricattare e umiliare Roma”.

Prosegue Gaiani: “Dopo 100 giorni di prigionia né Palazzo Chigi né la Farnesina hanno usato termini inequivocabili e perentori paragonabili a quelli utilizzati dai turchi e che solitamente ogni Stato utilizza in simili circostanze.Roma ha di fatto informato il mondo che prendere di mira gli interessi (e i cittadini) italiani non comporta per nessuno “gravi conseguenze” e chi attua questa minaccia non verrà considerato un “obiettivo legittimo”. Sul piano diplomatico il ministero degli Esteri non ha mai nominato un inviato speciale in Libia, figura la cui istituzione era stata annunciata un anno or sono dal ministro Luigi Di Maio poi rimasta lettera morta, che oggi avrebbe forse potuto essere di qualche utilità nella gestione della crisi dei pescatori. Roma mostra così la sua inconsistenza, una resa incondizionata a chiunque abbia interesse a minacciare l’Italia, al punto che il governo Conte non ha neppure dichiarato che ‘nessuna opzione venga esclusa’ per riportare a casa i connazionali: formula solitamente utilizzata da sempre in circostanze simili per esprimere una deterrenza credibile che include anche opzioni militari graduali, dal blitz per liberare gli ostaggi a successive rappresaglie”.

Protesta a Mazara

La notizia della liberazione della nave turca “Mabrouka”, ha scatenato una forte protesta, finita anche sotto casa dei genitori del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede (che è originario proprio di Mazara del Vallo). “Questi politici devono dimettersi – ha detto ad Avvenire Giuseppe Giacalone, papà di Giacomo, uno dei marittimi sequestrati –. È inaccettabile che la nave turca sia stata presto liberata e che i nostri figli siano ancora rinchiusi in Libia senza un motivo”. “Ora diciamo basta: è ora che chi di dovere intervenga, anche con corpi speciali, affinché i pescatori possano fare rientro nelle loro famiglie” aveva detto qualche giorno addietro il vescovo di Mazara del Vallo, monsignor Domenico Mogavero. 

Le rassicurazioni del governo non bastano più. I familiari non ci stanno al silenzio della Farnesina e si dicono pronti a tornare a protestare a Roma. Compresi i parenti dei pescatori senegalesi, tunisini e indonesiani, ai quali, in questi lunghissimi 103 giorni di sequestro, non è stato concesso di poter sentire al telefono i propri cari in Libia. Un lato oscuro di un’intricata vicenda che è davvero più complessa di quella che si pensasse in un primo momento. “In altri tempi abbiamo tollerato episodi simili che si sono conclusi in tempi molto più ravvicinati. Adesso diciamo che è stata superata ogni misura”, ha commentato monsignor Mogavero.

Ai turchi una multa. All’Italia un ricatto politico con 18 persone sequestrate da oltre 100 giorni. Da al-Sisi ad Haftar: l’Italia è diventata il punching ball del Mediterraneo. 

 

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