I palestinesi dicono no a Netanyahu: "La nostra libertà non è in vendita"
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I palestinesi dicono no a Netanyahu: "La nostra libertà non è in vendita"

Il governo di Israele mentre procede nel suo progetto di annessione vuole aiutare l'economia palestinese per 'comprare' consenso.

Proteste palestinesi in Israele
Proteste palestinesi in Israele
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

16 Maggio 2020 - 15.15


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Plata o pomo Il “motto” di Pablo Escobar in versione mediorientale. Argento o piombo. La forza delle armi e quella del denaro. Così “King Bibi; al secolo Benjamin Netanyahu, attuale e futuro primo ministro d’Israele, intende affrontare, tra un’annessione e l’altra, la “questione palestinese”. A rivelare le intenzioni di “Bibi” è l’analista militare del giornale Yedioth Ahronoth, il più diffuso giornale israeliano, in Israele, Alex Fishman. Giovedì scorso, Fishman, la cui serietà e correttezza professionale nessuno in Israele mette in dubbio, ha scritto che Netanyahu ha in programma di comprare il silenzio dei palestinesi sull’annessione dei Territori palestinesi attraverso i “contanti”. Fishman ha affermato che l’annessione programmata si sta avvicinando e Israele sta usando i soldi per indebolire la reazione dei palestinesi al suo piano di annessione per le aree della Cisgiordania occupata.

Secondo l’analista di Yediot Ahronoth, mentre le forze d’occupazione arrestano i palestinesi durante i raid notturni, nel tentativo di silenziare le proteste di massa a seguito dei piani di sequestro delle terre palestinesi, il governo israeliano si offre di rianimare e nutrire l’economia palestinese, per placare gli animi palestinesi.

All’inizio di questa settimana, Netanyahu ha offerto all’Autorità nazionale palestinese (Anp) un prestito di 800 milioni di shekel (226 milioni di dollari) e di trasferire quasi 500 milioni di shekel (141,5 milioni di dollari) al mese per un periodo di sei mesi in entrate fiscali che Tel Aviv raccoglie per conto dell’Anp per aiutare a combattere le ripercussioni economiche dell’epidemia di Coronavirus.

Plata o pomo

Fishman ha spiegato che Netanyahu definisce questa strategia come una “pace economica” che gli consente di offrire ai palestinesi condizioni di vita “apparentemente” migliori rispetto ai paesi vicini in cambio dell’abbandono dei loro ideali. Una resa monetizzata. Questa politica servirebbe anche per mantenere le entrate fino a quando i lavoratori palestinesi saranno in grado di tornare in Israele per lavorare, durante la pandemia di Coronavirus. Secondo un sondaggio dell’Anp, circa l’80% dei palestinesi ha dichiarato di aver perso completamente o parzialmente la propria fonte di reddito a causa della pandemia.

Dura la reazione della dirigenza palestinese: “La nostra libertà non è in vendita, i nostri diritti non hanno prezzo – dice in esclusiva a Globalist  Hanan Ashrawi, più volte ministra, tra le figure più autorevoli e rappresentative della leadership palestinese. -. Il popolo palestinese ha pagato un prezzo altissimo a un processo che ha negato la pace. L’ha pagato, l’abbiamo pagato, con la vita di molti civili palestinesi, con la colonizzazione forzata della Cisgiordania, con i palestinesi di Gerusalemme Est cacciati dai quartieri arabi per far posto ai coloni ebrei, con l’assedio di Gaza. L’abbiamo pagato con un furto senza precedenti di terre e di risorse perpetrato dal governo israeliano anche attraverso la pulizia etnica e misure degne di un regime di apartheid. C’è solo una definizione che dà il senso di questo sistematico scempio di legalità: punizione collettiva contro il popolo palestinese. Ed ora il signor Netanyahu, col sostegno del suo amico americano che siede alla Casa Bianca, pensa di approfittare della pandemia per comperare il silenzio dei Palestinesi. Il cinismo di chi governa Israele non conosce limiti”, rimarca Ashrawi. La dirigente palestinese guarda all’Europa e lancia un appello: “I piani di annessione del nascente governo israeliano – dice – certificano la morte della soluzione a ‘due Stati’ che l’Europa afferma di sostenere ancora. C’è un unico modo per fermare questo piano: sanzionare Israele se dovesse metterlo in pratica. Le parole scivolano come l’acqua su Netanyahu e i suoi sodali. Lui conosce solo un linguaggio: quello della forza”.

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Assalto finale

E tutto questo, in attesa dell’assalto finale ai Territori occupati. Un assalto che ha già una data d’inizio: l’1 luglio,  giorno in cui, da primo ministro di nuovo in carica, Netanyahu sottoporrà al governo e alla Knesset l’approvazione dell’estensione della sovranità israeliana sulla Valle del Giordano e gli insediamenti ebraici nella Cisgiordania palestinese occupata da Israele nel 1967. Le restanti porzioni, i centri abitati palestinesi o poco più, resteranno sotto la legge militare israeliana. Una battaglia cruciale, quella dell’annessione e dell’ampliamento unilaterale dei confini d’Israele, per il leader del Likud sulla quale si è sempre speso considerandola la sua eredità storica. L’ampliamento della sovranità israeliana sugli insediamenti, prevista nel piano di pace per la regione promosso dall’amministrazione Trump, verrà portato avanti “con responsabilità”, hanno sottolineato i suoi alleati governativi di ciò che resta di Blu e Bianco.

Game over

In cosa possa consistere questa “responsabilità” è francamente difficile da immaginare, se non come un tentativo di tranquillizzare quella parte della comunità internazionale che ancora crede, almeno a parole, che la colonizzazione- annessione di Territori occupati, definiti tali da almeno due risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, sia un atto illegale, contrario al diritto internazionale oltre che a un senso minimo di giustizia. Il piano prevede l’annessione delle colonie israeliane nei territori palestinesi della Cisgiordania, inclusa la Valle del Giordano, il confine orientale di quello che avrebbe dovuto essere il futuro Stato palestinese. Bibi aveva promesso di annetterle subito, una volta eletto. Gli abitanti delle colonie (500.000 in Cisgiordania e 250.000 a Gerusalemme Est) hanno subito risposto all’appello riversandosi nei seggi.

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“Per la prima volta in 53 anni di occupazione, un piano di annessione di Territori palestinesi occupati diviene in modo esplicito parte del programma di un Governo israeliano – ci dice Saeb Erekat, storico capo negoziatore palestinese, oggi segretario generale dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina , raggiunto telefonicamente nel suo ufficio a Gerico -. L’applicazione di questo piano – aggiunge Erekat – infligge un colpo mortale al dialogo e alla ripresa di un negoziato di pace, distrugge definitivamente la soluzione a due Stati e rappresenta una minaccia per la sicurezza e la stabilità in Medio Oriente”.

 Le ragioni del no al “deal of the Century” vengono rilanciate dalla lettera appello di 50 ministri e leader europei: «Il piano (americano) contraddice i parametri concordati a livello internazionale per il processo di pace in Medio Oriente, le risoluzioni delle Nazioni Unite pertinenti, compresa la risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza, e i principi fondamentali del diritto internazionale. Invece di promuovere la pace – rimarcano i firmatari –, rischia di alimentare il conflitto, a spese dei civili israeliani e palestinesi e con gravi implicazioni per la Giordania e per l’intera regione, dove ha trovato, così come in Europa e negli Stati Uniti, una diffusa opposizione. Il piano concede l’annessione di parti ampie e vitali del territorio palestinese occupato e legittima e incoraggia l’attività illegale degli insediamenti israeliani. Riconosce solo le rivendicazioni di una parte su Gerusalemme e non offre una soluzione giusta alla questione dei rifugiati palestinesi. Prevede un futuro “Stato” palestinese senza controllo né sovranità sul suo frammentato territorio. La mappa presentata nel piano propone delle enclave palestinesi sotto il controllo militare israeliano permanente, che evocano agghiaccianti associazioni con i bantustan del Sudafrica». E ancora: “Peace to Prosperity non è una roadmap in grado di portare alla soluzione dei due Stati, né a qualsiasi altra soluzione legittima del conflitto. Il piano prevede una formalizzazione della realtà attuale nei territori palestinesi occupati, dove due popoli vivono fianco a fianco senza godere di pari diritti. Un esito con caratteristiche simili all’apartheid – un termine che non usiamo con leggerezza. La comunità internazionale, in particolare l’Unione europea, deve impedire che questo scenario si verifichi, al fine di preservare la dignità e i diritti dei palestinesi, il futuro della democrazia israeliana e l’ordine internazionale basato sul diritto”.

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La rabbia di Amman

Il “Governo dell’annessione” non piace neanche un po’ ai Paesi arabi, neanche a quelli che con Israele hanno un accordo di pace. Tra questi Paesi, c’è la Giordania. Amman ha annunciato ieri che “tutte le opzioni sono aperte” nel caso che Israele darà seguito ai suoi progetti di annessione di parti significative di territori palestinesi in Cisgiordania. A dichiararlo è  re Abdallah II, sovrano del regno hashemita  che da 27 anni intrattiene rapporti diplomatici con lo Stato ebraico dopo storico accordo di pace firmato con Israele il 26 ottobre del 1994.

“Non voglio lanciare minacce o preparare un clima di tensione, ma stiamo studiando tutte le opzioni nel caso che Israele annettesse parti della Cisgiordania”, ha detto il sovrano in una dichiarazione ripresa dalla tv satellitare al Jazeera.

Ma “Bibi” di questi avvertimenti, come dei mal di pancia europei, non se ne cura. Per lui, l’unica luce verde che conta davvero a livello internazionale, è quella americana. Una luce che si è accesa da tempo e che è stata ravvivata nei giorni scorsi dalla missione lampo in Israele del segretario di Stato Usa Mike Pompeo. Pompeo ha ribadito il sostegno all’annessione della Cisgiordania in quanto parte integrante del piano di pace ideato    da Jared Kushner, consigliere-genero di Trump. Ma Bibi l’insaziabile, ha chiesto ancora di più: un maggior sostegno politico in quanto con un’eventuale sconfitta di The Donald alle presidenziali di novembre potrebbe chiudersi l’occasione di allargare i confini israeliani.

Per evitare spiacevoli sorprese, come l’elezione di Joe Biden, occorre accelerare i tempi dell’assalto finale. Le armi ci sono. E anche i soldi per provare a comperare la resa dei Palestinesi.

 

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