Il Pd teme il ritorno alle urne: per ora Draghi rimanga a palazzo Chigi
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Il Pd teme il ritorno alle urne: per ora Draghi rimanga a palazzo Chigi

Le forze politiche sono in movimento frenetico, complice anche una certa instabilità interna ai partiti. In questo scenario, l'unico elemento di certezza è il consenso intorno a Mario Draghi

Mario Draghi
Mario Draghi
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4 Novembre 2021 - 09.58


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I partiti si stanno preparando alla partita più grande della legislatura, ossia l’elezione del nuovo Capo dello Stato.
Prima si approva la legge di bilancio e si “mettono a terra” i progetti del Piano nazionale di ripresa e resilienza, poi si ragiona di Quirinale. Enrico Letta ripete il suo mantra ogni qualvolta gli venga posta la domanda sul successore di Sergio Mattarella. Le forze politiche, però, sono in movimento frenetico, complice anche una certa instabilità interna ai partiti.
Emblematici i casi di Movimento 5 Stelle e Lega, con il primo alle prese con un lungo e complicato lavoro di ‘settaggio’ interno – si attende l’elezione del nuovo capogruppo al Senato, fra l’altro – e la seconda che offre il doppio standard sulla collocazione europea, con Giancarlo Giorgetti che spinge verso il Partito Popolare e Matteo Salvini che guarda ai nazionalisti ungheresi e polacchi
In questo scenario, l’unico elemento di certezza – almeno a scorrere le dichiarazioni dei leader – è il consenso intorno a Mario Draghi. Almeno nel suo ruolo di premier. Perchè l’idea del ministro Giorgetti di eleggere Draghi Presidente della repubblica lasciandogli le redini di Palazzo Chigi provoca una levata di scudi a difesa della carta costituzionale. Che non prevede un presidente della Repubblica facente funzione premier.
Caustico il commento di Pier Luigi Bersani: “Fatevelo di legno il Presidente della Repubblica, visto che della Costituzione non frega niente a nessuno. Faccio gli auguri a Giancarlo Giorgetti che ora ha il problema di rimodulare la Lega. A quelli che hanno giurato sulla Costituzione dico: leggetela”. Netto il giudizio dal Nazareno, dove si sottolinea che “il dibattito sul semipresidenzialismo è surreale, non sta in piedi”.
Il sospetto di molti nel centrosinistra è che, dietro la mossa di Giorgetti, ci sia la volontà di andare al voto, così da metteer al sicuro il consenso di cui ancora gode il centrodestra. è ancora Bersani a dire che “se uno vuol tirare giù un governo, c’è la sfiducia in Parlamento. Non si manda qualcuno al Quirinale per andare a votare. Io penso che ci sia qualcuno che vuole andare a votare per sfilarsi”. Le elezioni anticipate sembrano essere il vero nodo all’idea di un ‘upgrade’ che porti Draghi al Quirinale.
Sull’esigenza di evitare il voto si sofferma anche Giuseppe Conte che, tuttavia, apre all’ipotesi Draghi al Quirinale: “Non ci sono preclusioni. Ovviamente, bisogna verificare che ci siamo tutte le condizioni e lo ripeto: questo non significa che un attimo dopo si vada alle elezioni”. Matteo Salvini sente di poter rassicurare il partito del ‘no voto’: “Anche se Draghi accettasse di andare al Quirinale, non credo che ci sarebbero elezioni anticipate”. Quello delle urne è uno spettro ben presente in un parlamento che vedrà dimezzare i propri eletti nella prossima legislatura.
Il timore è che l’elezione di Draghi al Quirinale metta in moto meccanismi imprevedibili in grado di precipitare il paese alle elezioni. Per questo, prima ancora di ragionare sull’ipotesi, occorre rassicurare deputati e senatori. Al di là di questo, spiega una fonte parlamentare del Pd, occorre ragionare quanto sia utile a Draghi un dibatito di questo tipo sulla sua eventuale elezione: “Così facendo non si fa un gran favore al presidente del consiglio: mancano tre mesi all’elezione del Capo dello Stato e si rischia di bruciarlo”.
I vari scenari
La stessa fonte indica nel ministro dell’Economia, Daniele Franco, il possibile sostituto di Draghi a Palazzo Chigi se si scegliesse la strada di un nuovo governo tecnico-politico. Un’altra lettura che viene data alle parole di Giorgetti è che si voglia, in realtà, coprire un altro nome o una rosa di nomi. Quello di Pier Ferdinando Casini, ad esempio, viene definito nei corridoi di Montecitorio un profilo che non dispiacerebbe alla destra e sarebbe sostenuto anche da Italia Viva, in virtù degli ottimi rapporti che intercorrono fra Matteo Renzi e ‘Pier’, come tutti chiamano l’ex presidente della Camera, oggi senatore.
Lo stesso Renzi sottolinea che altri presidenti della Repubblica hanno fatto i presidenti di uno dei rami del parlamento prima dell’elezione al Quirinale. Il leader di Italia Viva, tuttavia, tiene le carte ancora coperte, spiega che i nomi buoni escono generalmente all’ultimo momento e, pur ritenendo Draghi un’ottima opzione, Renzi chiede che non venga “tirato per la giacchetta”.
Perché, “Draghi farebbe bene il presidente della Repubblica come fa bene il premier o come farebbe ai vertici delle istituzioni europee”, aggiunge. Una cautela, quella del leader di Italia Viva condivisa dalle fila renziane al Senato, altro segno che il ‘salto’ di Draghi preoccupa e non poco i parlamentari dei diversi schieramenti per il rischio di scivolare verso il voto.
Il Pd non teme le urne
Chi non sembra temere il voto sono proprio i vertici del Partito Democratico. Una fonte Pd segnala, infatti, come a Letta “farebbe comodo andare al voto, per capitalizzare il consenso mostrato dai sondaggi e per avere dei gruppi parlamentari che, finalmente, rispecchino la maggioranza negli organi statutari”. Della stessa idea è anche Pier Luigi Bersani: “Non penso sia desiderabile andare a votare, ma se il campo progressista facesse una mossa o due nei prossimi mesi potrebbe andare alle elezioni con una certa tranquillità di andarsela a giocare. Ci vorrebbe un elemento di novità”.
Un cetrosinistra “in alleanza con i Cinque stelle portati a maturità”, è l’idea di Bersani “sarebbe competitivo fra cinque o sei mesi, anche se le elezioni anticipate non sono desiderabili. Letta ha i suoi problemi, ci sono delle titubanze, delle resistenze, ma nel mondo il famoso ‘centro’ non c’è più, non c’è più da nessuna parte”. In questo scenario, va avanti il lavoro sulle alleanze a cui si sta dedicando Enrico Letta con gli interlocutori degli altri partiti.
Lo strappo con Italia Viva nulla ha a che vedere con la costruzione del campo largo di centrosinistra, una costruzione dal basso, che va avanti attraverso il lavoro delle Agorà dmeocratiche, è la linea. Insomma, non una somma di sigle, ma qualcosa di più profondo che si innerva nella società e comprende le forze progressiste, riformiste e liberali.
Forze che, come spiega una autorevole fonte parlamentare del Partito Democratico, “Non si possono confinare nel perimetro stretto della rappresentanza di Italia Viva sul territorio nazionale, con tutto il rispetto. Anche chi guarda e commenta questo processo dovrebbe uscire dall’approssimazione secondo cui ‘o con Renzi o niente’. Lo schema è quello del Nuovo Ulivo da costruire con il mondo moderato e liberale che non si esaurisce certo in Italia Viva”. 

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