di Chiara Zanini
Maria Edgarda Marcucci, detta Eddi, è un’attivista di ventisette anni che ha combattuto l’Isis. Nonostante questo, anzi, proprio con questa motivazione, il 17 marzo scorso il Tribunale di Torino ha emesso un decreto di sorveglianza speciale nei suoi confronti come “individuo portatore di pericolosità speciale”, evidentemente per il suo attivismo su più fronti, compreso quello No-TAV. Domani 12 novembre si terrà l’appello per ridiscutere la misura che già ora le impedisce di parlare in pubblico e le permette di uscire solo se accompagnata da un libretto in cui gli agenti di polizia annotano tutto quello che fa. Le abbiamo rivolto alcune domande.
Nel mainstream spesso manca un approfondimento su quanto sta accadendo in Rojava in Siria. La nostra stampa a volte fa addirittura confusione tra fondamentalismo e resistenza. Lei come è entrata in contatto con la realtà della regione?
Nel 2013 ho cominciato a interessarmi alla situazione del Kurdistan e a quel che accadeva in Siria. Ci fu il massacro di Sinjar (Shengal). Era un momento in cui Daesh sembrava inarrestabile, I miliziani del califfato avevano affrontato l’esercito siriano e iracheno e controllavano un territorio vastissimo. Nei villaggi ezidi hanno cercato di realizzare un genocidio: sarebbero riusciti nell’intento se non fossero intervenute le HPG (Hezen Parastina Gel, Forze di difesa popolari) e le YPG (le Unità di autodifesa popolare, ndr) e YPJ (Unità di difesa delle donne, ndr) dalla Siria, che crearono un corridoio umanitario e ingaggiarono la battaglia contro Isis, fermandolo. Poi ci fu la resistenza di Kobane: di nuovo le YPJ e le YPG affrontarono con molti meno mezzi un nemico che teneva sotto scacco il mondo, e ne uscirono vittoriose. Una vittoria costata tantissimo, ma la resa non fu mai un’opzione. E così cambiarono le sorti della guerra e del mondo intero. All’epoca leggevo libri, articoli, guardavo qualche documentario, testimonianze dirette e quel che era uscito a riguardo fino a quel momento, ma ai tempi era davvero difficile capire. Anche per questo decidemmo di partire con una delegazione. Volevamo dare la nostra solidarietà, oltre che raccontare quella straordinaria rivoluzione attorno alla quale i giornali avevano costruito un muro di silenzio. Volevamo romperlo e fare la nostra parte per dare voce a quell’esperienza politica straordinaria: le comuni, il movimento delle donne, le cooperative, le unità di autodifesa.
Voglio riprendere le parole della combattente che l’ha accolta nella YPJ: «Non abbiamo bisogno di gente brava a sparare, abbiamo bisogno di persone consapevoli del perché ora è necessario. Vogliamo fare la rivoluzione, non la guerra». Cosa è scattato in Lei quando ha smesso di essereuna semplice osservatrice della situazione, ha aderito alla YPJ e si è arruolata nell’esercito curdo, rischiando di morire sotto i bombardamenti turchi?
Sono partita convinta che quella fosse anche la nostra battaglia, sotto ogni punto di vista. La sconfitta dell’Isis, ma anche e soprattutto la rivoluzione, la costruzione di una società alternativa e il ruolo delle donne in essa. Mentre ero lì mi rendevo conto che ci riguardava anche più di quanto avessi pensato. I miei giorni si riempivano di vissuti, di esperienze, imparavo e ricevevo tantissimo.
Comprendevo quanto fosse alto il prezzo di quella battaglia, ma anche quanto alta fosse la posta in gioco. Milioni di persone e una società come quella che sognavo insieme alle mie compagne e compagni in Italia. Ad un certo punto ho cominciato a sentire che se quella era anche la nostra battaglia, e lo è. Mi sarei vergognata per sempre a lasciarla tutta sulle spalle di qualcun altro. Quel poco che potevo fare, dovevo farlo.
Come suggerisce di informarci su quanto sta realmente accadendo?
Ci sono i reportage di siti indipendenti come infoaut.org, il portale di Rete Kurdistan, l’Ufficio Informazioni Kurdistan Italia, i lavori di Benedetta Argentieri, giornalista italiana che è stata sul campo per molto tempo. Per chi legge in inglese c’è il Rojava Information Center, un’agenzia stampa in loco, che fa dei lavori approfonditi e accurati. Anche ANF e Anha news. Per un’infarinatura generale, in italiano, consiglierei i libri “Kobane Calling” di Zerocalcare, il “Fiore del Deserto” di Davide Grasso, “Laboratorio Rojava” di Anja Flach, Ercan Ayboga e Michael Knapp, e “Rojava – una democrazia senza stato” di Dilar Dirik, David Levi Strauss e Michael Taussig.
Più specifici sull’internazionalismo ci sono delle meravigliose raccolte di testimonianze come “Brigata Maddalena, storie di internazionaliste in Rojava” (sono racconti anonimi), oppure “Omaggio al Rojava”, scritto dalla Combattenti internazionali Ypg, titolo che fa eco all’ “Omaggio alla Catalogna” di George Orwell. Poi c’è il sito della comune internazionalista, il sito del comitato europeo di Jineoloji. Negli anni credo sono stati prodotti lavori molto esplicativi, non abbastanza, ma la base è ottima.
Se tutte e tutti possiamo fare tesoro di quell’esperienza in cui è fondamentale la lotta al patriarcato e al capitalismo, perché un certo femminismo in Italia non le ha espresso vicinanza?
I femminismi sono sempre stati tanti. Negli ultimi anni le lotte delle donne in tutto il mondo hanno scompaginato equilibri globali: il movimento delle donne in Kurdistan ne è un chiaro esempio. È normale una reazione della controparte che oltre alla violenza usa l’arma ideologica; femminismo liberale, femo-nazionalismo, concetto efficacemente proposto Sara R. Farris. Le lotte delle donne nel corso della storia hanno prodotto tantissimi saperi, metodi e pratiche che il capitalismo patriarcale ha sempre osteggiato oppure rubato, diluendo i concetti, depoliticizzando messaggi e figure storiche. Io ho scelto dei percorsi di altro tipo, che rivendicano e costruiscono un’alterità radicale. Non credo che questo sistema sia perfettibile: non c’è nulla da migliorare, bisogna proprio costruire qualcosa di radicalmente diverso.
La questione della sorveglianza speciale è a sé: io sono No Tav no? Non c’è mai stata una forza politica istituzionale che non abbia sempre scelto di proteggere gli interessi delle lobby del cemento, contro la società valsusina e italiana. Invece la questione della guerra in Siria è stata unificante su molti livelli. Ci sono le persone come me che hanno scelto la parte dell’Amministrazione Autonoma del Nord Est della Siria perché rivoluzionaria, e chi invece ha puntato sulla convenienza del momento. L’Italia si è schierata entrando a far parte della coalizione internazionale. Quindi l’iniziativa della Procura di Torino è assurda sì, ma trova spiegazione anzitutto nel residuo di norme fasciste che affollano il Codice penale e i decreti giudiziari italiani, e poi nella condotta degli organi giudiziari e di polizia torinesi, che da anni ormai sono un soggetto attivo e partecipe della politica cittadina, che fa sentire il suo peso a suon di anni di galera. Queste persone non sono lucide, hanno costruito processi sul nulla. La sorveglianza in quanto “processo all’intenzione” è un caso esemplare, ma sfortunatamente non l’unico. Non solo non fanno nulla per la società, ma con tutto il potere che hanno piuttosto costituiscono un pericolo per essa.
Tutto questo anche per dire che sicuramente la società è attraversata da fratture molto complesse, ma c’è sempre modo di distinguere, di scegliere da che parte stare. La mia penso sia chiara, e non sono mai stata da sola.
Lei ha contestato gli scambi di tecnologie militari tra Italia e Turchia e poco dopo è arrivata la minaccia della sorveglianza sociale. Come sta trascorrendo le sue giornate e cosa farà se verrà prorogata questa misura?
Il processo è cominciato prima. Quell’episodio in particolare è stato il motivo addotto dalla coorte nel decreto, la ragione che conferma la tesi che io sia “un individuo portatore di pericolosità sociale”. Comunque faccio quel che ho sempre fatto, continuo a cercare di contribuire e fare la mia parte per gli ideali in cui credo. Ci sono donne e uomini che ancora combattono in tutto il Kurdistan, movimenti in Libano e in Iran, le donne polacche stanno cercando di vincere una battaglia sull’aborto che ha un peso internazionale. Si lotta in Argentina, in Nigeria, in Chiapas, in Mali e in Indonesia. Qui tantissime persone appartenenti al movimento No Tav sono sotto processo. Dana Lauriola è in galera per aver usato un megafono, Nicoletta Dosio è ai domiciliari. Ci sono più di venti studenti dell’università di Torino sottoposti a misure cautelari per aver impedito che un gruppetto di fascisti sabotasse un dibattito organizzato dall’A.N.P.I. In altre parole c’è molto da fare e penso che arrendersi non sia un’opzione.