Don Panizza: non ci si inchina ai criminali
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Don Panizza: non ci si inchina ai criminali

Bisogna avere il coraggio di dissociarsi e parlare, ha detto don Giacomo, a Lamezia dal ’76, commentando l’inchino della Madonna delle Grazie davanti alla casa del boss.

Don Panizza: non ci si inchina ai criminali
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7 Luglio 2014 - 22.04


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“Il parroco è il responsabile delle iniziative religiose pubbliche. Deve prendere coraggio, anche a costo di non essere applaudito da qualcuno. Ci sono ruoli insostituibili: non ci si può sottrarre ai propri doveri”. Don Giacomo Panizza, bresciano, dal 1976 vive a Lamezia dove porta avanti “Progetto Sud”, una comunità autogestita insieme con persone disabili. Vive sotto protezione dal 2002, quando prese in gestione un palazzo confiscato a una cosca, a pochi chilometri dalla casa del boss. Don Giacomo commenta così il momento in cui la processione della Madonna delle Grazie di Oppido Mamertina, provincia di Reggio Calabria, si è fermata per 30 secondi davanti alla casa del boss della ‘ndrangheta Peppe Mazzagatti, 82 anni, condannato all’ergastolo per omicidio e associazione per delinquere, ai domiciliari per motivi di salute.

Non solo il corteo si è fermato, ma i portantini hanno fatto fare alla statua della Madonna un inchino davanti all’abitazione per omaggiare il boss. A quel punto, il comandante della stazione locale dei carabinieri si è allontanato in segno di dissenso, sacerdoti e amministratori locali sono restati al loro posto. “In quel momento il parroco avrebbe potuto vedere se la gente stava con lui o con il clan”, spiega don Giacomo. Il sindaco di Oppido, Domenico Giannetta, ha dichiarato: “Se ci sono stati gesti non consoni noi siamo i primi a prendere le distanze ma ci pare che durante la processione sia stata ripetuta una gestualità che va avanti da oltre 30 anni, con la Vara rivolta verso una parte del paese”.

“Ovviamente bisogna chiarire l’origine del gesto, se è una ritualità o una reverenza al boss: se così fosse, sarebbe da condannare. Non si può permettere che la religione si inchini alla criminalità”, commenta don Giacomo. Spiega che il legame tra criminalità e religione, in quelle aree, è qualcosa di atavico, antropologico, come i concetti di sangue e vendetta dai quali gli abitanti si fanno guidare: “I mafiosi sono degli imbroglioni con una religiosità loro, che credono essere quella giusta: un esempio? Le madri durante i funerali invocano vendetta. I clan schiacciano e costringono la religione cattolica, le vite dei Santi e i vangeli nel loro piccolo mondo, nelle loro vite, e sono convinti di avere ragione”. Secondo don Giacomo, il fatto che religione e criminalità vadano a braccetto antropologicamente si può spiegare, religiosamente no: “Tutto è cominciato ben prima del cristianesimo.

Questo non avviene solo nel nostro Meridione, ma in tutti gli Stati che si affacciano sul Mediterraneo, Stati deboli o assenti e una religione che giustifica il sangue. In queste culture, la nostra tradizione cattolica non è riuscita a prevalere: non è stata in grado di spiegare che Dio è al di sopra di tutto e tutti, a maggior ragione dei boss che sono, in primis, criminali. La Bibbia non va dietro alla nostra cultura, ma viceversa: l’umile non è chi si sottomette, ma chi combatte il prepotente. Su questo, la nostra Chiesa ha insistito troppo poco”. Ma, dall’esperienza di don Giacomo, i preti oggi sono molto più attenti e convinti della necessità di condannare episodi come quello di Oppido rispetto a una decina di anni fa: “Oggi, prima di una processione si mette subito in chiaro quali siano le fermate da effettuare: davanti al campanile, per esempio. Oppure di fronte alla casa di una persona che sta per morire o è gravemente malata. Il parroco di Oppido, invece, lasciando che i portantini facessero quell’inchino ha avallato il loro gesto. Così si diventa omertosi: fare come se niente fosse non sta né in cielo né in terra”.

Solo pochi giorni fa, il Papa in visita in Calabria aveva scomunicato i mafiosi (e pochi giorni fa, per protesta, i detenuti della sezione di alta sicurezza del carcere di Larino, Campobasso, hanno deciso di non partecipare alla messa) e incontrato la famiglia del piccolo Cocò Campolongo, bruciato dalla ‘ndrangheta a 3 anni con il nonno e la sua compagna. Il resto della sua famiglia è in carcere per traffico di stupefacenti: “Bisogna fare chiarezza sulle responsabilità. Perché perdonare non è dimenticare: riparare è obbligatorio, perché di mezzo ci sono altre persone, morte, sulla sedia a ruote, in ospedale. Non esiste un recupero a costo zero”.

Secondo l’esperienza di don Giacomo, oggi non c’è uno scontro aperto tra Chiesa e mafie (“hanno abbassato la cresta”, commenta), ma i clan ci sono lo stesso, più evoluti e più forti di quando, quasi quarant’anni fa, arrivò in queste terre. Prima venivano dalla campagna e vivevano di pizzo, controllo di guardianie e protezioni. Oggi i loro metodi sono più subdoli: “Fanno affari con le istituzioni, con i colletti bianchi, i politici, le pubbliche amministrazioni. Usano i fondi europei. Hanno perfezionato il loro sistema, lavorano con la droga. Ma per farlo, hanno gente accondiscendente che collabora con loro”. Quindi per adesso hanno vinto loro? “Sì. Ma c’è una grande novità: c’è sempre più gente che sotto di loro non ci vuole stare. Anni fa, non capiva. Oggi, tantissime persone – a partire dai giovani – comprendono che i mafiosi rubano democrazia e soldi”.

Don Giacomo porta l’esempio della ‘sua’ Lamezia: negli ultimi anni ha messo in carcere mafiosi – non solo killer, ma gli stessi mandanti – dei 3 clan più potenti della zona: “Quello che ora resta da capire è se nei prossimi due anni, con questi boss in carcere, cresceranno altre mafie o no. Le forze dell’ordine e le istituzioni saranno capaci di impedirlo? Avremo ladruncoli, bande o clan? La scommessa è tutta qui. Se i tribunali avessero organici regolari – e invece sono sotto organico, perché qui nessuno ci vuole venire – potremmo vincere. Se avessimo il numero esatto di poliziotti, carabinieri. Per cambiare le cose servono istituzioni adeguate. Servono denunce, processi, serve la fine dell’omertà.

Sono necessari giudici perché i boss non escano dalle carceri per decorrenza dei termini, come è successo a quelli che continuano a minacciarmi. Servono tempistiche regolari, la certezza della pena”. Don Giacomo ricorda che a Lamezia, su 72 mila abitanti, i mafiosi – tra boss, killer e collusi – sono 2 mila. Ne restano altri 70 mila.

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