"Biden ha firmato il certificato di morte dei palestinesi": il j'accuse di Levi e di una relatrice speciale
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"Biden ha firmato il certificato di morte dei palestinesi": il j'accuse di Levi e di una relatrice speciale

Globalist ha raccontato e documentato nei giorni scorsi la visita ufficiale di Joe Biden in Medio Oriente, soffermandoci soprattutto sulla tappa che ha portato il presidente degli Stati Uniti in Israele e nella Cisgiordania palestinese

"Biden ha firmato il certificato di morte dei palestinesi": il j'accuse di Levi e di una relatrice speciale
Joe Biden e Abu Mazen
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

17 Luglio 2022 - 16.10


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Gideon Levy è l’icona vivente del giornalismo “da battaglia” israeliano. La battaglia della verità. Levy ha conquistato sul campo la sua meritata fama che va ben oltre i confini d’Israele e del Medio Oriente. L’ha conquistata per le sue straordinarie capacità di scrittura, per la nettezza delle sue posizioni, per la sua indipendenza assoluta dal potere politico. Sopra di ogni cosa, almeno per chi, è il mio caso, ha avuto l’onore di conoscerlo di persona e interloquire con lui, la cosa che più colpisce in Levy è il suo saper andare controcorrente, scrivendo verità scomode e che entrano in rotta di collisione con il pensiero mainstream che dalla Terrasanta sconfina qui da noi, nell’Italia dove chi osa criticare Israele per quel che fa (le politiche che adotta nei Territori palestinesi occupati e a Gaza) e non per quel che è (lo Stato focolare nazionale del popolo ebraico), viene subito tacciato, nonostante questa fondamentale distinzione, come antisemita e amico dei terroristi.

Certificato di morte

Globalist ha raccontato e documentato nei giorni scorsi la visita ufficiale di Joe Biden in Medio Oriente, soffermandoci soprattutto sulla tappa che ha portato il presidente degli Stati Uniti in Israele e nella Cisgiordania palestinese. Lo abbiamo fatto avvalendoci dei preziosi contributi degli analisti di punta di Haaretz, il quotidiano progressista di Tel Aviv (ce ne fossero giornali così in Italia). Il giudizio che è emerso, sia pure con gradualità diverse, porta a dare un giudizio negativo dei risultati di questa visita, in particolare per ciò che concerne l’atteggiamento Usa nei confronti della colonizzazione israeliana dei Territori occupati e del rilancio di una iniziativa di pace fondata sulla soluzione “a due Stati”. 

Levy è andato oltre. E il titolo della sua analisi è tutto un programma: A Gerusalemme, Biden firma il certificato di morte dei palestinesi

Di seguito alcuni passaggi del suo scritto: “Proprio all’Augusta Victoria Hospital di Gerusalemme Est, il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha firmato un certificato di morte. La soluzione dei due Stati è morta molto tempo fa, e ora anche la scelta strategica dei palestinesi di affidarsi all’Occidente nella lotta per i loro diritti nazionali. Questa speranza ha esalato il suo ultimo respiro ad Augusta Victoria. Nel suo discorso Biden ha riflettuto a lungo sul periodo trascorso in ospedale da lui e dalla sua famiglia; ha ricordato il reparto di terapia intensiva. Una linea piatta sul monitor significava morte, ha imparato lì. Circa un’ora dopo, a Betlemme, il monitor era piatto. Il percorso intrapreso dai palestinesi 50 anni fa è giunto al termine. Hanno raggiunto un vicolo cieco.[…]. È un Presidente che non si preoccupa di pronunciare correttamente il nome di Shireen Abu Akleh, la giornalista uccisa quasi certamente da Israele e diventata un simbolo nazionale e internazionale. Jamal Khashoggi lo sa pronunciare. I palestinesi non hanno più nulla da cercare in questo campo. Quando Biden ha citato una poesia che dice come “speranza e storia fanno rima” e ha lanciato loro 100 milioni di dollari per Augusta Victoria, è stato chiaro che con gli Stati Uniti hanno perso.

Con un presidente americano che promette loro una soluzione a due Stati, ma “non a breve termine”, si arriva alla fine della storia. Viene voglia di chiedere a Biden: “Cosa succederà “non nel lungo termine” per raggiungere questa soluzione? Gli israeliani decideranno da soli? I coloni torneranno da soli? Quando ce ne saranno un milione invece di 700.000, saranno soddisfatti?

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L’America penserà mai in modo diverso? Perché dovrebbe accadere? Con le leggi contro il Bds e le nuove e distorte definizioni di antisemitismo, gli Stati Uniti e l’Europa sono persi per quanto riguarda i palestinesi. La battaglia è stata decisa, Israele li ha praticamente sconfitti e il loro destino potrebbe essere lo stesso delle popolazioni indigene negli Stati Uniti…”. 

Così Levy.

Di altrettanto spessore è l’editoriale di Haaretz: “I razzi lanciati da Gaza verso Israele nel fine settimana e gli attacchi aerei di rappresaglia hanno infranto l’euforia per l’inconsistente normalizzazione delle relazioni con l’Arabia Saudita, l’integrazione di Israele nel Medio Oriente e, soprattutto, la gioia di Israele per il fatto che il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden non l’ha spinto nell’angolo dei negoziati diplomatici con i palestinesi. I voli sul territorio saudita, la presenza di giornalisti israeliani a Gedda, una dichiarazione congiunta per impedire all’Iran di dotarsi di armi nucleari e altri barlumi di pace non possono sostituire la minaccia tangibile: il pericolo chiaro e presente che Israele affronta da est e da sud. Con disappunto, Biden ha adottato il paradigma di Israele secondo il quale, al momento, non è possibile portare avanti un processo diplomatico che possa implementare la sua convinzione di una soluzione a due Stati. Dal punto di vista di Biden, si tratta di un conflitto marginale, che non turba le relazioni degli Stati Uniti con il mondo arabo. Ma Biden e i cittadini americani non sono quelli minacciati dal conflitto israelo-palestinese e non sono impegnati a desiderare la pace più di quanto lo siano israeliani e palestinesi. Con disappunto, Biden ha adottato il paradigma di Israele secondo il quale, al momento, non è possibile portare avanti un processo diplomatico che possa implementare la sua convinzione di una soluzione a due Stati. Dal punto di vista di Biden, si tratta di un conflitto marginale, che non turba le relazioni degli Stati Uniti con il mondo arabo. Ma Biden e i cittadini americani non sono quelli minacciati dal conflitto israelo-palestinese e non sono impegnati a desiderare la pace più di quanto lo siano israeliani e palestinesi. L’ospite americano, che promuove i diritti umani come pilastro della sua politica estera, ha sottolineato venerdì che non sta evitando il confronto con il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman per l’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi. Ci si sarebbe aspettati che esprimesse con coraggio la stessa determinazione durante l’incontro con i suoi ospiti israeliani.

L’amministrazione Biden è ben consapevole dei dati crudi riportati da Haaretz la scorsa settimana: Sessanta palestinesi sono stati uccisi nei primi sei mesi di quest’anno, rispetto ai 70 palestinesi di tutto il 2021 e ai 19 del 2020. È consapevole che le regole di ingaggio sono state “aggiornate”, consentendo il fuoco vivo contro chi lancia pietre o ordigni incendiari.

Per anni il Dipartimento di Stato ha seguito le finte indagini dell’esercito israeliano sugli incidenti con il fuoco vivo, ed è consapevole che quest’anno sono stati indagati solo 16 incidenti di questo tipo, con indagini che non hanno garantito risultati eclatanti. L’Ambasciata degli Stati Uniti riceve regolarmente rapporti sulle operazioni notturne dell’esercito israeliano, che irrompe nelle case di civili innocenti, spaventando donne e bambini e arrestando persone senza motivo, mentre i soldati sparano con le loro armi in strada solo per intimidire.

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Tenendo conto del rischio di essere coinvolto nella politica interna israeliana o di minare il paradigma dell'”inapplicabilità”, Biden avrebbe dovuto inviare un messaggio forte di condanna dell’uccisione di innocenti. Avrebbe dovuto chiedere indagini rapide ed efficaci sugli incidenti letali, presentandosi come un leader impegnato non solo per la sicurezza di Israele, ma anche per il diritto alla vita dei palestinesi innocenti. Questo messaggio non può attendere oltre”. 

Una denuncia coraggiosa

“Non sono una partigiana, anche se mi appassiona quello che faccio. Questa è prima di tutto una questione di giustizia, per i palestinesi, ma anche per gli israeliani: l’apartheid è una forma di corruzione e la violenza genera sempre violenza”. Così Francesca Albanese, 45 anni, neo Relatrice speciale sulla situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati, in una bella intervista ad Anna Maria Selini per Altreconomia. Quello palestinese, rimarca Albanese, “è un popolo che vive sotto occupazione militare da 55 anni. L’occupazione non è illegale di per sé, ma perché non giustificata, proporzionale o temporanea. Viola tre norme fondamentali: la proibizione di acquisizione di nuovi territori, con l’espandersi delle colonie; la proibizione del razzismo e il diritto all’autodeterminazione[…]L’occupazione si è trasformata in apartheid. Era inevitabile che il dibattito esplodesse prima o poi. Trovo incredibile come in Italia non se ne parli, con la connivenza dei media.

Un popolo imprigionato. 

Dopo l’occupazione israeliana della Cisgiordania nel 1967, i palestinesi accusati di reati in base alla legge militare israeliana e giudicati nei tribunali militari sono stati più di 800.000: tale cifra costituisce circa il 20 % del numero totale di palestinesi che abitano nei Territori Palestinesi Occupati (Tpo), ovvero il 40% della popolazione maschile totale.

Le autorità israeliane devono essere chiamate a rendere conto del crimine di apartheid contro i palestinesi. È quanto ha dichiarato Amnesty International in un rapporto di 278 pagine nel quale descrive dettagliatamente il sistema di oppressione e dominazione di Israele nei confronti della popolazione palestinese, ovunque eserciti controllo sui loro diritti: i palestinesi residenti in Israele, quelli dei Territori palestinesi occupati e i rifugiati che vivono in altri stati.

Nel rapporto si legge che le massicce requisizioni di terre e proprietà, le uccisioni illegali, i trasferimenti forzati, le drastiche limitazioni al movimento e il diniego di nazionalità e cittadinanza ai danni dei palestinesi fanno parte di un sistema che, secondo il diritto internazionale, costituisce apartheid. Questo sistema si basa su violazioni dei diritti umani che, secondo Amnesty International, qualificano l’apartheid come crimine contro l’umanità così come definito dallo Statuto di Roma del Tribunale penale internazionale e dalla Convenzione sull’apartheid.

Amnesty International chiede al Tribunale penale internazionale di includere il crimine di apartheid nella sua indagine riguardante i Territori palestinesi occupati e a tutti gli stati di esercitare la giurisdizione universale per portare di fronte alla giustizia i responsabili del crimine di apartheid.

“Il nostro rapporto rivela la reale dimensione del regime di apartheid di Israele. Che vivano a Gaza, a Gerusalemme Est, a Hebron o in Israele, i palestinesi sono trattati come un gruppo razziale inferiore e sono sistematicamente privati dei loro diritti. Abbiamo riscontrato che le crudeli politiche delle autorità israeliane di segregazione, spossessamento ed esclusione in tutti i territori sotto il loro controllo costituiscono chiaramente apartheid. La comunità internazionale ha l’obbligo di agire”, ha dichiarato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International.

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“Non è possibile giustificare in alcun modo un sistema edificato sull’oppressione razzista, istituzionalizzata e prolungata, di milioni di persone. L’apartheid non ha posto nel nostro mondo e gli stati che scelgono di essere indulgenti verso Israele si troveranno a loro volta dal lato sbagliato della storia. I governi che continuano a fornire armi a Israele e lo proteggono dai meccanismi di accertamento delle responsabilità delle Nazioni Unite stanno sostenendo un sistema di apartheid, compromettendo l’ordine giuridico internazionale ed esacerbando la sofferenza della popolazione palestinese. La comunità internazionale deve affrontare la realtà dell’apartheid israeliano e dare seguito alle molte opportunità di cercare giustizia che rimangono vergognosamente inesplorate, ha aggiunto Callamard.

Le conclusioni di Amnesty International sono rafforzate da un crescente lavoro di organizzazioni non governative palestinesi, israeliane e internazionali che sempre più spesso applicano la definizione di apartheid alla situazione in Israele e/o nei Territori palestinesi occupati. Amnesty International ha documentato atti vietati dalla Convenzione sull’apartheid e dallo Statuto di Roma del Tribunale penale internazionale in tutte le aree sotto il controllo israeliano, sebbene si verifichino con maggiore frequenza nei Territori palestinesi occupati piuttosto che in Israele.

Le autorità israeliane hanno introdotto tutta una serie di misure per negare deliberatamente i diritti e le libertà basilari ai palestinesi, anche attraverso drastiche limitazioni al movimento nei Territori palestinesi occupati, i cronici e discriminatori minori investimenti a favore delle comunità palestinesi residenti in Israele e il diniego del diritto al ritorno dei rifugiati. Il rapporto documenta inoltre i trasferimenti forzati, la detenzione amministrativa, la tortura e le uccisioni illegali sia in Israele che nei Territori palestinesi occupati.

Amnesty International ha rilevato che questi atti formano parte di attacchi sistematici e diffusi contro la popolazione palestinese, commessi allo scopo di mantenere il sistema di oppressione e di dominazione. Pertanto, costituiscono il crimine contro l’umanità di apartheid.

L’uccisione illegale di manifestanti palestinesiè forse il più chiaro esempio di come le autorità israeliane ricorrano ad atti vietati per mantenere il loro status quo. Nel 2018 i palestinesi di Gaza avviarono proteste settimanali lungo il confine con Israele per affermare il diritto al ritorno dei rifugiati e chiedere la fine del blocco. Ancora prima che le proteste avessero inizio, alti funzionari israeliani avvisarono che contro i palestinesi che si fossero avvicinati al confine sarebbe stato aperto il fuoco. Alla fine del 2019,le forze israeliane avevano ucciso 214 civili palestinesi, tra cui 46 minorenni.

Alla luce delle sistematiche uccisioni illegali di palestinesi documentate nel suo rapporto, Amnesty International chiede al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di imporre un embargo totale sulle armi verso Israele. Questo embargo, a causa delle migliaia di uccisioni illegali di palestinesi compiute dalle forze israeliane, dovrebbe comprendere tutte le armi e le munizioni, così come le forniture di sicurezza. Il Consiglio di sicurezza dovrebbe imporre anche sanzioni mirate, come il congelamento dei beni dei funzionari israeliani implicati nel crimine di apartheid.

Il rapporto di AI è conosciuto nel mondo. Anche a Washington. Ma non dite a Biden che esiste il “crimine di apartheid”. Lui a Gerusalemme era impegnato a firmare il certificato di morte dei palestinesi.

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