Perché adesso Tripoli accusa l'Italia di faro il doppio gioco in Libia
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Perché adesso Tripoli accusa l'Italia di faro il doppio gioco in Libia

Alla base la richiesta fatta ai servizi segreti italiani da una milizia pro-Serraj di contattare un ufficiale dell'intelligence degli Emirati per passare dalla parte di Haftar

Guerra civile in LIbia
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

25 Febbraio 2020 - 16.43


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Tripoli accusa Roma: doppiogiochisti. Una milizia di Tripoli avrebbe chiesto all’intelligence italiana di facilitare un contatto con Mohammed bin Rashid, il responsabile del dossier Libia dei servizi segreti degli Emirati Arabi Uniti — i principali sostenitori di Khalifa Haftar, il signore della guerra dell’Est che sta cercando da aprile scorso di rovesciare il Governo di accordo nazionale (il Gna, l’esecutivo internazionalmente riconosciuto che ha sede nella capitale).

La vicenda è stata pubblicamente denunciata dal ministro degli Interni libico, Fathi Bashaga, uno dei politici più importanti del Gna. Secondo le informazioni ottenute da Agenzia Nova, Bashaga si riferiva alla milizia Nawasi, anche se ieri durante la conferenza stampa di denuncia non ha fatto nomi.

I fatti di cui parla il ministro non sono recentissimi: risalgono a qualche mese fa, quando Haftar era sul punto di entrare a Tripoli e qualcuno tra i gruppi armati che difendono il Gna nella capitale stava pensando di cambiare casacca. Poi le cose sono cambiate, anche perché Haftar ha visto ridursi il sostegno a terra fornito da un gruppo piccolo ma molto ben attrezzato di contractor russi.

Nova scrive che tra le ragioni delle dichiarazioni di Bashaga, ci sarebbe una questione interna alla Tripolitania: il ministro è di Misurata, città che si occupa di difendere militarmente e politicamente Tripoli, e che non è stata sempre allineata — anzi a volte è stata “in contrasto” — con i miliziani tripolini.  Quella rivolta al governo italiano è un’accusa forte: aver facilitato un doppio gioco a Tripoli. Anche per questo le stesse fonti spiegano che all’interno dell’esecutivo di Tripoli ci sono posizioni “molto più prudenti”, finalizzate a non coinvolgere Roma — che sulla Libia ha ripreso le proprie attività politico-diplomatiche — in questioni interne alla Tripolitania. Le fonti spiegano che in questa fase Bashaga è “in difficoltà”, e forse per questo ha scelto di rendere pubblico l’attacco contro una parte del fronte anti-Haftar.

Annota Alberto Negri, tra i più autorevoli conoscitori della realtà lbica: “La brigata Nawasi, composta da oltre 700 uomini che vanta al suo interno anche una componente di salafiti madkhaliti, opera a Tripoli nella zona di Abu Seta a Tripoli. Meno di 100 metri separano il quartier generale della brigata Nawasi dalla base navale di Abu Seta, dove si trovano i membri del Consiglio presidenziale, Sarraj compreso. La milizia ha diversi checkpoint e pattuglie nell’area, incluso un checkpoint vicino a Libyana Company, il più grande operatore di telefonia mobile in Libia. Tutte queste zone sono alla portata della milizia e le hanno permesso di svolgere un ruolo militare importante nella capitale. La milizia Nawasi ricatta Tripoli e si è dichiarata ostile alla presenza dei mercenari siriani inviati da Erdogan. Le sorti del governo di Tripoli appaiono sempre più incerte e non si escludono colpi di scena”.

Doppiogioco

Sullo scenario libico, confidano fonti diplomatiche, l’Italia ha sottovalutato l’importanza di stabilire un rapporto forte con i paesi del Golfo, relegati in un ruolo di secondo piano nella fallimentare Conferenza di Palermo del novembre scorso. Non scegliere in politica è un errore esiziale. In politica estera ancor di più. Il verbo “includere”, abusato da Conte e da Di Maio , non regge quando si è chiamati, costretti, a scegliere. In Libia non si può essere con al-Sisi e con Erdogan, e quando era chiaro a tutti, meno che a Roma forse, che al-Sarraj non aveva lo spessore politico, e soprattutto i fondamentali legami con le tribù che più contano nella stessa Tripolitania, Roma, confidano a Globalist fonti diplomatiche addentro al dossier libico, avrebbe dovuto lavorare per cercare un’alternativa più credibile tra le forze (Misurata) che ancora sostengono il Gna. Oggi, col “cerchiobottismo” elevato ad azione diplomatica, l’Italia rischia di restare ai margini degli eventi che segneranno il futuro della Libia. Insistere, come fanno Conte e Milanesi, nella difesa del piano di pace – finito su un binario morto – dell’inviato speciale delle Nazioni Unite per la Libia, Ghassan Salamé, è una declinazione del non decidere. Il risultato è l’isolamento, la marginalizzazione, in un’area cruciale, sul piano geopolitico e su quello degli interessi economici-energetici, per l’Italia come è il Mediterraneo.

Fallimento

Una guerra la si può pure vincere. Un dittatore lo si può anche abbattere e poi eliminare fisicamente perché testimone scomodo, ma se non hai uno straccio di strategia politica, quelle vittorie militari finiscono per trasformarsi in tragedie immani, che fanno di popoli moltitudini di profughi, disseminando il Grande Medio Oriente di stati falliti, di paesi in macerie, di “terre di nessuno” dove a dettar legge sono milizie, tribù, organizzazioni criminali. È successo con la guerra in Iraq, con la Siria, e venendo ai confini del Belpaese, con la Libia. 

Sono passati nove  dall’eliminazione di Muammar Gheddafi e del suo regime. Che quella del 2011 tutto fosse meno che una “guerra umanitaria” era già chiaro allora, nonostante una narrazione ipocrita quanto criminale, che raccontava di (inesistenti) fosse comuni e di una rivolta libica entrata nel novero delle primavere arabe. Una narrazione falsa, come falsa era la pistola fumante che aveva legittimato in quel porto delle nebbie chiamato Onu, l’invasione dell’Iraq. 

Democrazia, stabilità, elezioni: in qualunque lingua declinate – italiano, francese, egiziano, russo, arabo – sono comunque parole prive di valore reale in una Libia dove a dominare è il caos. Un caos armato. Perché, nove anni dopo, la caduta del Colonnello – divenuto scomodo per i Sarkozy di turno, e per quanti in Italia avevano fatto la fila per accreditarsi e fare affari con il rais libico – la Libia è questo: due governi, due parlamenti in guerra tra loro, oltre duecentocinquanta tra milizie e tribù in armi, un “signor nessuno” – Fayez al-Sarraj – messo alla guida, proprio perché tale, di un governo riconosciuto internazionalmente ma incapace di controllare neanche i quartieri di Tripoli dove è insediato, che per non essere asfaltato deve chiedere aiuto a milizie – quella di Misurata – e signori della guerra spacciati da statisti, che si alleano e poi si sparano per un solo, vero, obiettivo: spartirsi la torta petrolifera.

Una torta miliardaria. La stessa per la quale, sette anni fa, la Francia, leggi Total, impose la guerra, alla quale l’Italia – leggi Eni – sentì di non poter sottrarsi se non volevamo restare fuori dal tavolo dei “vincitori”. La “guerra delle cabine” di regia tra Roma e Parigi è la non risposta al caos libico. Perché non fa i conti con la realtà sul campo. E su ciò che realmente è la Libia, sette anni dopo la caduta di Gheddafi. Una “nuova Somalia” a ridosso della Sicilia. Uno stato fallito, una terra di nessuno dove si consumano i traffici più sporchi, e lucrosi.

In questa terra di nessuno, parlare di una tregua capace di reggere è inseguire un’illusione. Perché l’unica tregua che può davvero reggere è quella che si basa sulla ripartizione condivisa (da capi milizie, capi tribù, parte dei quali eterodiretti dall’esterno) dei proventi petroliferi. Pensare che una soluzione possa venire da un compromesso (quale poi) tra al-Sarraj e l’uomo forte della Cirenaica, il generale Khalifa Haftar, è un esercizio diplomatico destinato a fallire sul nascere.

Per resistere al golpe orchestrato da Haftar, Sarraj deve pagare pegno alle milizie rimastegli fedeli, le quali hanno guadagnato nel tempo molto potere sull’esecutivo di Sarraj, diventato col tempo sempre più debole. Secondo gli analisti, in cambio della difesa del governo sostenuto dall’Onu, i miliziani fedeli avrebbero ottenuto risorse sempre maggiori, a cui ora anche le altre milizie, quelle finora escluse, puntano con forza. E Serraj non è riuscito a smobilitare le forze irregolari e a integrarle nel suo sistema di difesa e in un apparato di sicurezza, suscitando la reazione delle altre milizie che si sono coalizzate nel corso degli ultimi mesi e ora – con la scusa di ribaltare un sistema corrotto che “affama i libici” – pretendono “una fetta della torta”, in particolare derivanti dai pozzi petroliferi.

In nove anni non si  si è riusciti a mettere in campo, da parte della comunità internazionale, uno straccio di institution building, un piano di costruzione di istituzioni democratiche, di partiti, di una magistratura indipendente, insomma, una parvenza di stato. Semmai, si è operato in senso inverso. Smantellando quel poco che esisteva di esercito libico, salvo poi accorgersi della necessità, per contenere “l’invasione dei migranti”, di costruire una parvenza di Guardia costiera, magari arruolando ex trafficanti di esseri umani. 

Sette anni dopo, si è arrivati alla stessa conclusione, senza peraltro ammetterlo, a cui si è giunti, anche qui senza riconoscerlo, dopo diciassette anni di guerra in Afghanistan. La conclusione è che se vuoi davvero provare a controllare il territorio, devi fare i conti con ciò che quei paesi, l’Afghanistan come la Libia, hanno espresso e sedimentato nel corso della loro storia: società tribali, dove la fedeltà alla tribù di appartenenza è molto più pregnante dell’arruolamento in un partito o in un esercito nazionale.

Caos armato

Delle oltre cento tribù in cui è frazionato l’enorme territorio di circa un milione e 760 mila km quadrati (più di sei volte l’estensione dell’Italia), le più grandi, attorno a cui orbitano le altre sotto-tribù, sono quattro: i Warfalla e i Ghadafa, appunto, e i Meqarha e gli Zuwayya. Ramificati nella parte orientale del paese a sud di Bengasi, gli Zuwayya si trovano nella zona strategica del deserto libico, attraversata dalle condutture di petrolio. Mentre i Warfalla controllano la parte sud-occidentale del paese lungo il confine con l’Algeria. E non meno decisiva fu il passaggio tra le fila degli insorti della tribù Zintan, originaria della città omonima situata a sud di Tripoli.

Nove  anni dopo, le stesse tribù, frazionatesi in milizie  e sotto gruppi, sono quelle che dettano legge nel non-stato libico, nel quale i capi di governo sono solo figure di contorno, buone per presenziare ad una conferenza internazionale ma privi di autorità, e autorevolezza, anche rispetto ai sindaci, emanazione diretta delle tribù. Governare questo caos attraverso lo strumento militare esterno è pura follia. Chi di guerra e strategie militari se ne intende, conviene che per provare a percorrere questa strada, vorrebbe dire impegnate, in tempi che si calcolano in anni, non meno di cinquantamila soldati, boots on the ground, mettendo in conto perdite significative, insostenibili per le opinioni pubbliche interne. Resta la via diplomatica, che per non rivelarsi senza uscita, avrebbe bisogno di un’azione unitaria dell’Europa (l’interesse dell’amministrazione Trump per la Libia è pari a zero) in sintonia con attori regionali che hanno incidenza nei vari campi miliziani e tribali (Egitto, Turchia, Emirati Arabi Uniti, in primis). Ma anche questo lavoro di ricucitura è tutto da realizzare.

Per questo la Libia è destinata a restare ancora a lungo un Far West mediterraneo.

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