Dopo il figlio di Gheddafi pure Haftar si candida in Libia: non è una farsa ma una tragedia
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Dopo il figlio di Gheddafi pure Haftar si candida in Libia: non è una farsa ma una tragedia

Mancava solo lui per fare il “pienone” presidenziale. Ora il vuoto è stato riempito. E così, dopo il secondogenito del Colonnello Gheddafi, Saif al-Islam, ecco che anche l’uomo forte della Cirenaica,

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17 Novembre 2021 - 15.47


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Ora siamo al sold out. Mancava solo lui per fare il “pienone” presidenziale. Ora il vuoto è stato riempito. E così, dopo il secondogenito del Colonnello Gheddafi, Saif al-Islam, ecco che anche l’uomo forte della Cirenaica, il generale Khalifa Haftar, ufficializza la sua candidatura alle elezioni presidenziali programmate per il 24 dicembre prossimo.

Il generale ci prova

La mossa era attesa sin da settembre, quando l’uomo forte della Cirenaica si era autosospeso dalle proprie cariche militari. “Dichiaro la mia candidatura alle elezioni presidenziali, non perché corro dietro al potere, ma per condurre il nostro popolo alla gloria, al progresso e alla prosperità”, ha detto Haftar in un discorso trasmesso in diretta tv da Bengasi, sua roccaforte. Il maresciallo di campo ha affermato che le elezioni di dicembre sono “l’unico modo per far uscire la Libia dal caos”. Dopo il discorso, Haftar doveva recarsi in un ufficio dell’Autorità elettorale per presentare formalmente la propria candidatura. La mossa, sostenuta da potenze regionali-chiave coinvolte nella crisi libica come Egitto ed Emirati Arabi Uniti, arriva due giorni dopo quella analoga di Seif al-Islam Gheddafi, figlio dell’ex dittatore Muammar che ha già suscitato proteste.

Non vuole il potere, ma ”guidare il popolo libico in una fase cruciale” per la Libia e ”realizzare i sogni” dei suoi connazionali, ”portare il popolo verso il progresso e la prosperità”. Puntando sulla riconciliazione e la ricostruzione difendendo l’identità nazionale per un periodo di pace. Così il generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica, ha motivato la decisione di candidarsi alle elezioni presidenziali in Libia previste per il 24 dicembre. Dopo aver depositato i documenti necessari all’Alta Commissione elettorale di Bengasi, nella Libia orientale, Haftar ha precisato di non essere sceso in campo ”alla circa di potere”. Come riporta l’emittente al-Arabiya, Haftar ha sottolineato l’intenzione di impegnarsi per ”l’unità, la sovranità e l’indipendenza del Paese”. Si tratta di ”un momento storico”, ha detto il generale.

In caso di sua vittoria, Haftar ha quindi promesso “di unirsi ai libici per realizzare le loro ambizioni, prime su tutte l’unità, l’indipendenza e la sovranità del Paese”. Il generale ha quindi affermato che ”se saremo destinati ad assumere la presidenza, metteremo a disposizione dei libici le nostre menti piene di idee in risposta ai loro sogni”. Secondo Haftar ”le elezioni sono l’unica via di uscita dalla grave crisi in cui è sprofondato il nostro Paese”. 

Anche sul suo nome, però, ci sono i dubbi di alcuni potentati locali, come quello di Zawiya che, oltre a respingere la discesa in campo di Gheddafi Jr, ha deciso di ribellarsi anche a quella di Haftar: i leader “rivoluzionari” della città a circa 50 chilometri da Tripoli hanno fatto sapere di “rifiutare categoricamente la candidatura dei due criminali di guerra, Seif al-Islam Gheddafi e Khalifa Haftar, ricercati dalla giustizia”. Inoltre, c’è da aspettarsi che ad opporsi alla sua corsa verso la presidenza saranno anche le milizie di Misurata. Oltre a queste incognite, restano anche i dubbi sulle conseguenze di una sua eventuale sconfitta alle urne: il generale si arrenderà all’esito del voto o denuncerà brogli elettorali cercando un nuovo colpo di mano per prendersi il Paese con la forza? A contrastare il generale potrebbe pensarci il presidente del parlamento di Tobruk, Aguila Saleh, suo rivale in Cirenaica. Anche l’ex ministro dell’Interno, Fathi Bashagha, figura di spicco di Misurata, appoggiato dai Fratelli musulmani e dai turchi si presenterà alle presidenziali. La Commissione elettorale non ha ancora dato il via libera alla candidatura di Seif el Islam, ma accettato quella del comico Hatem al-Kour e di un paio di ambasciatori compreso l’ex rappresentante libico all’Onu, Ibrahim Dabbashi. Gli americani hanno messo le mani avanti facendo sapere che il figlio di Gheddafi non può avere alcun ruolo nel futuro governo del paese. La grande incognita è la candidatura del premier in carica, Adbul Dbeibah, che avrebbe dovuto dimettersi tre mesi fa per presentarsi alle presidenziali. La mancata legge elettorale, il fronte anti Haftar e Gheddafi, la Turchia che vuole far slittare il voto sono minacciosi segnali sulla reale possibilità che i libici vadano pacificamente alle urne il 24 dicembre.

Chi si oppone a Gheddafi e Haftar

Scrive Vincenzo Nigro su Repubblica: “La candidatura di Gheddafi in Libia ha già prodotto molte reazioni negative, come era facile prevedere. Gruppi di “rivoluzionari” di Misurata, di Zawiya, di Tripoli, hanno inscenato azioni di protesta: non vogliono che un erede del regime che è stato abbattuto nel 2011 abbia la possibilità di tornare al potere o  o comunque al centro del gioco politico del Paese.

Un gruppo di ‘leader e rivoluzionari di Al Zawiya’  ha annunciato che si opporranno alle candidature dei ‘ricercati per la giustizia’ Saif Al Islam Gheddafi e Khalifa Haftar: minacciano di non far aprire centri elettorali all’interno della città a meno che le elezioni non siano condotte “secondo una norma costituzionale concordata”. Anche a Tripoli gruppi anti-gheddafiani hanno lavorato per chiudere i centri elettorali e gli uffici della Commissione elettorale. Tanto che un esponente politico vicino a un candidato indipendente sostiene che “la candidatura di Saif Gheddafi potrebbe essere stata spinta da governi arabi che hanno interesse a far saltare le elezioni, creando nuovo caos politico in Libia”, annota ancora Nugro.

Tutti contro tutti

Il primo ministro libico Abdul Hamid Dbeibah ha dichiarato che la legge elettorale approvata dal parlamento è viziata e scritta per favorire candidati specifici, affermando che avrebbe annunciato se si candiderà alla presidenza “al momento giusto”.

Gli alleati di Dbeibah hanno detto a Reuters una settimana fa che si sarebbe candidato, nonostante avesse promesso, quando è stato insediato come primo ministro del governo di unità provvisoria, che non avrebbe preso parte alle prossime elezioni. Dbeibah ha dichiarato durante una manifestazione a Tripoli che “non possiamo essere soddisfatti di questa legge imperfetta”. Dbeibah ha aggiunto “al momento giusto” annuncerà la sua posizione in queste elezioni.

Le due fazioni rivali della Libia non hanno però ancora concordato le regole per le elezioni a meno di sei settimane prima della data di voto del 24 dicembre fissata attraverso una tabella di marcia per la pace sostenuta dalle Nazioni Unite lo scorso anno. La tabella di marcia chiedeva alle entità politiche della Libia di concordare una base costituzionale per il voto e di tenere le elezioni parlamentari e presidenziali nella stessa data.

Tuttavia, non c’è stato un accordo sulla costituzione e l’unica legge elettorale che è stata emanata – dal presidente del parlamento in circostanze controverse – ha fissato il 24 dicembre come data di voto solo per un primo turno delle elezioni presidenziali. Il secondo turno del voto presidenziale e le elezioni parlamentari seguiranno a gennaio o febbraio, secondo quella legge, che ha anche previsto che i funzionari che vogliono candidarsi lascino il loro ruolo tre mesi prima del giorno delle elezioni. Una circostanza che escluderebbe una discesa in campo di Dbeibah, mentre ammetterebbe quella di Haftar. L’Alto Consiglio di Stato con sede a Tripoli ha respinto la legge. 

 C’è chi si candida e chi muore

Dieci i morti ritrovati nel fondo di un natante dove era stipate un centinaio di persone. Lo ha riferito Medici senza frontiere, in mare con la nave ‘Geo Barents’. E le ong accusano: è stata ignorata la richiesta di aiuto.

L’allerta era stata lanciata nel pomeriggio di ieri da Alarm Phone in riferimento a un barcone alla deriva al largo della Libia. Dopo la richiesta di soccorso, confermata da Seabird, il velivolo di Sea Watch, 99 persone, riferisce sempre Msf, sono state prese a bordo da Geo Barents, a circa 30 miglia dalle coste libiche.

Qui la terribile scoperta: “Sul fondo della barca di legno sovraffollata, 10 persone sono state trovate morte“. Morte soffocate nell’imbarcazione piena di uomini, donne e bambini in cerca di salvezza. Era stato lanciato l’allarme almeno tredici ore prima, ma per 10 persone è stato troppo tardi.

“Non ne possiamo più di queste morti annunciate e che si potrebbero impedire. Condoglianze alle loro famiglie e ai loro cari”, è l’amarezza e la protesta di Alarm Phone. Sea Watch, ricostruisce la ong tedesca, aveva avvistato il natante in pericolo “vicino alle navi italiane AssoVenticinque e Almisan che non hanno risposto al Mayday Relay lanciato dal nostro equipaggio”.

“Morti che potrebbero essere evitate se ci fosse una volontà al di là degli accordi economici tra Paesi”, accusa anche la ong spagnola Salvamento maritimo humanitario. “Morti che si potevano evitare”, incalza Medici senza frontiere, “dieci persone morte soffocate dopo 13 ore in balia del mare.Com’è possibile accettare ancora tutto questo nel 2021?”.

“Corpi senza vita trovati a bordo di un barcone. Sono 1.236 – spiega il portavoce dell’Oim, l’agenzia delle Nazioni Unite per le migrazioni, Flavio Di Giacomo – le persone morte nel Mediterraneo centrale nel 2021 (erano 858 nello stesso periodo del 2020). Il soccorso della Geo Barents ha probabilmente evitato altre vittime a bordo. Evidente la necessità di aumentare i pattugliamenti in mare”.

“Sono stanchi e traumatizzati dal terribile viaggio. Vanno portati al sicuro al più presto”, sottolinea Msf che sta assistendo i naufraghi sotto choc. E intanto circa cento migranti sono stati soccorsi dal cargo commerciale Almisane sono stati condotti a Lampedusa. La nave, che opera in prevalenza presso le piattaforme petrolifere, è stata fatta fermare davanti a Cala Pisana per il successivo trasbordo delle persone.

Lotta continua

Intanto, continua la lotta dei rifugiati davanti alla sede dell’Unhcr (L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) a Tripoli; da 45 giorni sono in presidio permanente per chiedere l’evacuazione dalla Libia verso un paese sicuro, ma la situazione sta diventando sempre più dura. “Sono 2500, molti sudanesi ed eritrei ma provenienti anche da altre zone dell’Africa subsahariana, diversificati per età, che ci ricordano che stanno lottando in rappresentanza di tutti i migranti intrappolati in quel paese” racconta a Radio Onda d’Urto Serena Sardi di Mediterranea Saving humans “Le condizioni meteo sono in peggioramento e mancano ripari, servizi igienici, cibo: il loro umore sta peggiorando anche perchè l’Unhcr non sta facendo nulla per aiutarli e le loro rivendicazioni restano inascoltate.” Questa lotta però è già straordinaria per come è stata organizzata e per il fatto stesso di essere fatta: “l’aspetto più importante è che questi rifugiati hanno deciso di lottare per i propri diritti senza nascondersi, per il loro diritto di essere riconosciuti come persone. Le decisioni le prendono collettivamente, in assemblea -prosegue Serena- si tratta di un grande momento di autorganizzazione.”.

Una cosa è certa: nessuno dei candidati alla Presidenza di uno Stato fallito chiamato Libia ha un minimo d’interesse per i destini di quei disperati. Per loro, semplicemente non esistono. O per peggio dire: esistono come arma di ricatto verso l’Europa. Esistono per fare affare con i trafficanti di esseri umani che dettano ancora legge in vaste aree, soprattutto costiere, della Libia. Esistono per essere respinti in mare e ricacciati nei campi di detenzione libici, parte dei quali gestiti direttamente dalle autorità del paese nordafricano. Esistono per giustificare i finanziamenti italiani a quell’associazione a delinquere denominata Guardia costiera libica. 

Chiedete a questa moltitudine di disperati, e in quella moltitudine c’è anche una parte sempre più grande della popolazione libica, cosa ne pensa delle elezioni presidenziali e dei capi fazione che ambiscono a diventare presidente. Le loro risposte, i loro silenzi, la loro sofferenza, valgono più di mille dichiarazioni di voto.

Quanto poi alla pletora dei candidati, ognuno di loro è un candidato per procura esterna. Chi della Turchia, o della Russia, o del Qatar, o dell’Egitto, o degli Emirati Arabi Uniti, o dell’Arabia Saudita e pure d’Israele…

 Dall’elenco manca l’Italia. E non perché Roma – leggasi Farnesina, Palazzo Chigi – non abbia su chi puntare. Solo che noi ormai contiamo il giusto, cioè poco o nulla. 

 

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