Sguardi critici: riscoprire l'essere nella società delle non-cose
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Sguardi critici: riscoprire l'essere nella società delle non-cose

Esplorando la transizione dalla società dell'avere a quella delle non-cose, riflettiamo sulle implicazioni della comunicazione digitale, la perdita del contatto con la realtà e la necessità di riscoprire l'importanza delle cose concrete nella nostra vit

Sguardi critici: riscoprire l'essere nella società delle non-cose
Byung-Chul Han,
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14 Luglio 2023 - 09.12


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di Antonio Salvati

Nello scorso secolo venivamo messi in guardia dalla cosificazione. Tutti leggemmo Erich Fromm che in Essere o avere sosteneva: «L’avere si riferisce a cose […] L’essere si riferisce all’esperienza», sottolineando criticamente che la società moderna è più orientata all’avere che all’essere. Oggi non è piú così, poiché – come argomenta in un libricino denso e ricco suggestioni il filosofo Byung-chul Han, Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale (Einaudi, 2022 pp. 136, € 13,50) – viviamo in una società dell’esperienza e della comunicazione che preferisce l’essere all’avere. Insomma, non vale piú la vecchia massima dell’avere che recitava «piú ho, piú sono». Abbiamo perso il contatto con il reale. È necessario – avverte l’autore – tornare a rivolgere lo sguardo alle cose concrete, modeste e quotidiane. Le sole capaci di starci a cuore e stabilizzare la vita umana. Sempre più siamo immersi in una massa di informazioni che ci investe ogni giorno. Come ogni inondazione, anche questa agisce sulle nostre esistenze, spazza via confini, rimodella geografie. Ormai sono i dati e non piú le cose concrete a influenzare le nostre vite. Le non-cose stanno prendendo il sopravvento sul reale, sui fatti e la biologia. E cosí la realtà ci appare sempre piú sfuggente e confusa, piena di stimoli che non vanno oltre la superfice. In questo volume, Byung-chul Han, assai noto come critico severo ma acuto della contemporaneità, ci offre una peculiare e sferzante riflessione sulla comunicazione, la Rete e il futuro che stiamo vivendo e realizzando.

Le non-cose sono le informazioni che stanno alla base dell’ordine digitale; esso «derealizza il mondo informatizzandolo»: «Ci troviamo nel periodo di passaggio dall’era delle cose all’era delle non-cose. Non sono gli oggetti, bensí le informazioni a predisporre il mondo in cui viviamo». Secondo il filosofo tedesco di origini sudcoreane, «le cose sono i punti fermi dell’esistenza», a differenza delle informazioni: «Non è possibile indugiare presso di esse. Hanno una validità molto limitata. Si fondano sul brivido della sorpresa». Una «fuggevolezza», la loro, che destabilizza la vita, richiedendo «continuamente la nostra attenzione».

Quel che è peggio è corriamo dietro alle informazioni senz’approdare ad alcun sapere. Prendiamo nota di tutto «senza imparare a conoscerlo. Viaggiamo ovunque senza fare vera esperienza. Comunichiamo ininterrottamente senza prendere parte a una comunità. Salviamo quantità immani di dati senza far risuonare i ricordi. Accumuliamo amici e follower senza mai incontrare l’Altro. Così le informazioni generano un modo di vivere privo di tenuta e di durata».

In realtà, oggi non vogliamo piú legarci né alle cose, né alle persone. I legami sono inattuali perché come spiega Byung-chul sminuiscono «la possibilità di fare esperienza, ovvero la libertà nel senso consumistico del termine. Persino dal consumo delle cose ci aspettiamo delle esperienze. Il portato informativo degli oggetti, l’immagine di un marchio, diventa piú importante del loro valore di consumo». Acquistando cose, compriamo e consumiamo grandi emozioni. I prodotti vengono caricati di emozioni mediante lo storytelling. Per la creazione di valore – spiega Byung-chul – diventa cruciale la produzione di informazioni distintive che promettono al consumatore esperienze particolari, ovvero l’esperienza di ciò che è particolare. «Le informazioni sono sempre piú importanti rispetto alla dimensione reale della merce. Il contenuto estetico è il vero prodotto. L’economia dell’esperienza sostituisce l’economia delle cose. Le informazioni non si lasciano possedere facilmente come le cose, per cui si fa largo la sensazione che appartengano a tutti. È il possesso a definire il paradigma delle cose, e il mondo fatto di informazioni viene regolato non dal possesso, bensí dall’accesso. I legami a cose o luoghi vengono sostituiti dagli accessi temporanei a reti e piattaforme».

Noi sui social media ci produciamo. L’espressione francese se produire significa mettersi in scena. C’insceniamo, dice Byung-chul, performando la nostra identità. Per Jeremy Rifkin, il passaggio dal possesso all’accesso è un profondo cambio di paradigma che introduce novità decisive nel mondo della vita. Rifkin profetizza persino l’avvento di una nuova tipologia di essere umano: «L’accesso, access, è il nuovo concetto chiave della nuova epoca. […] L’era dell’accesso, dunque, è governata da un insieme completamente nuovo di assunti economici […] Ma, forse, è ancora piú importante che […] la perdita di importanza della proprietà, da un punto di vista strettamente commerciale, lasci intravedere un cambiamento prodigioso nella maniera in cui le generazioni future percepiranno la natura umana. Un mondo fondato su rapporti di accesso genererà, molto probabilmente, un uomo del tutto diverso da quello attuale».

Buona parte degli articoli di consumo finiscono in fretta nella spazzatura. Non li possediamo piú. Il possesso oggi, per Byung-chul, viene interiorizzato e caricato di contenuti psichici. Le cose in mio possesso sono contenitori di emozioni e ricordi. La storia che cresce sulle cose insieme a un loro lungo utilizzo finisce per animare gli oggetti che ci stanno a cuore. Ma solo le cose discrete possono animarsi e starci a cuore mediante un legame intenso e libidico. Gli odierni beni di consumo sono indiscreti, invadenti e ciarlieri. Sono già zeppi di idee ed emozioni precotte che assalgono il consumatore. Non vi penetra quasi nulla della nostra vita. Secondo Walter Benjamin, il possesso è «il rapporto piú profondo che in assoluto si possa avere con le cose». Il collezionista è l’ideale proprietario delle cose. Benjamin lo eleva a figura utopica, a futuro salvatore delle cose che si prefigge il compito di «trasfigurarle». Egli «si trasferisce idealmente, non solo in un mondo remoto nello spazio o nel tempo, ma anche in un mondo migliore, dove gli uomini, è vero, sono altrettanto poco provvisti del necessario che in quello di tutti i giorni, ma dove le cose sono libere dalla schiavitú di essere utili».

Assai degno di nota è il paragone tra il libro e l’ebook. Benjamin cita il noto proverbio latino habent sua fata libelli (i libri hanno il proprio destino). Secondo lui il libro ha quindi una sorte in quanto cosa, proprietà di qualcuno. Un ebook non è una cosa, bensí un’informazione. Dispone di uno status ontologico ben diverso, sottolinea Byung-chul. Utilizzarlo non equivale a un possesso, ma a un accesso. «Nel caso dell’ebook, il libro viene ridotto alle sue informazioni ed è privo d’età, luogo, lavoro manuale e proprietario. Gli manca del tutto quella lontananza auratica dalla quale ci può parlare un destino individuale. Il destino non rientra nell’ordine digitale. Le informazioni non hanno né fisionomia, né destino. Non consentono nemmeno un legame intenso. Non esiste una copia per uso personale dell’ebook. È la mano del proprietario a dotare il libro di un volto inconfondibile, una fisionomia. Gli ebook sono privi di volto e di storia. Vengono letti senza mani. Nello sfogliare è insito quell’elemento tattile costitutivo di qualsiasi relazione. Senza contatto fisico non emergono legami».

Le nostre giornate sono caratterizzate dal costante digitare e strisciare delle dita sullo smartphone. Un gesto quasi liturgico con effetti ponderosi sul nostro rapporto col mondo. Le informazioni che non m’interessano vengono scacciate alla svelta. I contenuti che mi piacciono vengono invece zoomati con due dita. Abbiamo la percezione di avere tutto il mondo in pugno. Il mondo – spiega Byung-chul – deve orientarsi interamente verso di me. In tal senso, «lo smartphone potenzia l’autoreferenzialità. Digitando come un pazzo, sottometto il mondo ai miei bisogni. Il mondo mi dà l’impressione di una totale disponibilità nell’apparenza digitale». Mediante lo smartphone ci ritiriamo in una bolla che ci protegge dall’Altro. «Nel quadro della comunicazione digitale spesso scompare anche l’atto di chiamare. L’Altro non viene chiamato appositamente: preferiamo scrivere messaggi di testo invece di chiamare, poiché per iscritto siamo meno esposti all’Altro. In tal modo scompare l’Altro in forma di voce». Lo smartphone s’impone come un devozionale del regime neoliberista.

Quale dispositivo di sottomissione «equivale al rosario, altrettanto mobile e maneggevole. Il like è l’amen digitale. Schiacciando il bottone del mi piace, ci sottomettiamo al contesto dominante. Le piattaforme come Facebook o Google sono i nuovi feudatari. Noi ariamo instancabili la loro terra e produciamo dati preziosi che loro procedono a cannibalizzare. Ci sentiamo liberi, eppure siamo sfruttati, sorvegliati e influenzati. In un sistema che sfrutta la libertà non si sviluppa alcuna resistenza. Il dominio arriva a compimento nell’attimo in cui coincide con la libertà». Le cose non ci spiano e di esse ci fidiamo. Lo smartphone invece non è solo un infoma, bensí anche un efficacissimo informatore che – come avvertiamo quotidianamente – sorveglia senza sosta il suo proprietario. Una volta introdotti nella sua vita interiore algoritmica, ci si sente con giusta ragione perseguitati dal telefono, che ci influenza e ci programma. Non siamo noi – avverte Byung-chul – a usare lo smartphone, ma viceversa. Il vero agente è lo smartphone. Noi siamo alla mercé di questo «informatore digitale dietro la cui superficie numerose figure c’influenzano e ci distraggono. Lo smartphone non emancipa. La costante raggiungibilità non si differenzia sostanzialmente dalla servitú. Lo smartphone si rivela un campo di lavoro mobile in cui noi c’imprigioniamo di nostra sponte».

Infine, l’autore si sofferma sugli effetti dell’intelligenza artificiale. Il pensiero è un processo decisamente analogico. Prima che esso colga il mondo, è il mondo a toccarlo, a commuoverlo. L’aspetto emotivo è essenziale per il pensiero umano. La prima immagine di pensiero è la pelle d’oca. Proprio per questo – secondo Byung-chul – «l’intelligenza artificiale non può pensare, perché non le viene la pelle d’oca. Le manca la dimensione affettiva e analogica, quel senso di profonda commozione che dati e informazioni non riescono a portare con sé. Il pensiero scaturisce da un tutto insito nei concetti, nelle idee e nelle informazioni. Si muove già in un “campo di esperienza” prima ancora di rivolgersi alle cose e ai fatti che vi si manifestano. L’essente nel suo complesso, proprio del pensiero, viene inizialmente captato da un medium affettivo come può essere l’umore: «La tonalità emotiva ha già sempre aperto l’essere-nel-mondo nella sua totalità, rendendo solo cosí possibile un dirigersi verso…», direbbe il filosofo tedesco Martin Heidegger. Prima che il pensiero s’indirizzi a qualcosa, si trova già nei confini di uno stato d’animo fondamentale. È questa situazione emotiva – sottolinea Byung-chul – a caratterizzare il pensiero umano. Lo stato d’animo non è uno stato soggettivo che si riflette sul mondo oggettivo. È il mondo. Il pensiero articola successivamente in concetti il mondo incluso nello stato d’animo fondamentale. La profonda commozione scaturisce dall’atto di comprendere, dal lavoro della comprensione». Il pathos è l’inizio del pensiero. L’intelligenza artificiale è apatica, vale a dire senza pathos, senza passione. Essa calcola. L’intelligenza artificiale non ha alcun accesso a orizzonti che si lasciano piú intuire che delineare con nettezza.

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