Valdarno, il racconto corale di una comunità che ha vissuto la barbarie dei nazifascisti
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Valdarno, il racconto corale di una comunità che ha vissuto la barbarie dei nazifascisti

Bombardamenti, persone deportate, altre uccise fuori dalla porta di casa. Ecco alcune testimonianze della comunità valdarnese che ha vissuto nell’invasione del nazifascismo.

Valdarno, il racconto corale di una comunità che ha vissuto la barbarie dei nazifascisti
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25 Aprile 2023 - 00.03 Culture


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di Irene Perli

Pensando al 25 aprile, vengono subito in mente le parole di Piero Calamandrei: Questo è un testamento, un testamento di 100 mila morti. Se volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate li, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra costituzione

La costituzione, allora, è nata anche in Valdarno, valle situata fra le città di Arezzo e Firenze, dove vivevano piccole comunità composte prevalentemente da contadini e da pochi commercianti. La valle era da sempre rigogliosa di vita, con la popolazione che somigliava ad una famiglia: la conoscenza reciproca dei cittadini era, infatti, il fulcro della civiltà. Tutti si preoccupavano l’uno dell’altro, spesso immischiandosi anche nei fatti altrui. E’ così che succedeva nelle comunità ristrette, in quelle in cui i nuclei familiari si contavano sulle dita delle mani.

C’è stato, però, un periodo in cui le chiacchiere delle persone non si udivano più; un periodo in cui l’odore del pane fresco era solo un ricordo e in cui tutte le strade principali e le piazze erano state svuotate di vita e riempite di macerie. Durante la Seconda Guerra Mondiale la terra valdarnese è stata depravata dai tedeschi e dall’ideologia del nazifascismo che ha regnato in quegli anni. L’aria era intrinsa di paura e il silenzio era interrotto dai fischi delle bombe che cadevano dal cielo, ma la comunità non si è mai sgretolata.

Le testimonianze delle persone riescono a portarci indietro, come in una macchina del tempo, per vivere quel macabro periodo nei ricordi degli allora ragazzi valdarnesi. Alcuni partirono, si allontanarono per combattere nascosti nelle montagne, altri furono invece deportati, catturati, torturati e uccisi, anche proprio fuori dalla porta di casa. Due sono le testimonianze di questo tipo, quella di Innocenzo Ferrini e di Tosello Gabrielli.

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Innocenzo Ferrini racconta la sua esperienza da quindicenne militare. Doveva tronare a casa dopo aver prestato servizio, ma alla fine del viaggio in treno non vide la sua amata Toscana, bensì la Germania. I tedeschi, dopo aver bloccato il treno su cui viaggiava Innocenzo, radunarono tutti i passeggeri, li picchiarono e li chiusero in un vagone come bestie, minacciandoli con la canna della pistola puntata alla tempia per deportarli in un campo di lavoro coatto in Germania che produceva armi per il fronte, come le mitragliatrici e missili V1 e V2 per i bombardamenti aerei. Per tutto il tempo in cui è rimasto nella fabbrica ha mangiato solo zuppa di cavolo a pranzo e una fetta di pane alla sera. Molti morirono di fame, ma non lui che rubava bucce di mela al generale tedesco che supervisionava il lavoro. Grazie al suo coraggio, ha potuto rivedere la terra che chiamava casa.

Tosello Gabrielli è stato invece un partigiano. Il suo nome di battaglia era “Arno” e ha prestato servizio ovunque ce ne fosse stato bisogno, anche in Emilia-Romagna e in Liguria. Per anni ha visto la morte rincorrerlo, ma non si è mai tirato indietro. Ha sempre cercato di provocare più danni possibili alle forze nazifasciste, che però gli hanno portato via il suo caro amico, un compagno di battaglia, un partigiano come lui che credeva nella libertà, nella democrazia e nella forza del popolo. Tosello, che oggi ha 103 anni, è una persona comune, che per la maggior parte della sua vita ha avuto un lavoro semplice ad eccezione di quegli anni: si è fatto avanti, si è messo a disposizione per seguire l’ideale di giustizia che aveva, ma mai per la gloria, solo perché era giusto. Ha rischiato la vita per un bene superiore.

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Chi è rimasto in Valdarno ha invece vissuto un’esperienza differente, ma non meno pericolosa: i paesi della valle erano invasi dalle forze nazifasciste e, ormai, rimanere in casa era sicuro tanto quanto uscire. Non c’erano certezze. A testimonianza di questo Omero Bronzi, di Terranuova Braccioli, e Marta Matassini, di Meleto, entrambi giovanissimi al tempo.

Omero Bronzi era solo un bambino quando lavorava al forno di Terranuova Bracciolini per imparare il mestiere. Nonostante la tenera età ha conosciuto la fame. Racconta, infatti, della tessera per il pane, che aveva lo scopo ultimo di mantenere la guerra; ogni famiglia poteva accedere solo a piccole quantità di pane al giorno, perché non potevano esserci sprechi. Non era però il pane dalla crosta chiara e friabile: in tempo di guerra le materie prime erano di scarsa qualità e il pane era marrone scuro, duro e difficile da masticare.

Uscendo dal panificio doveva poi fronteggiare i posti di blocco dei tedeschi, che, verso la fine della guerra, sapendo che avrebbero dovuto ritirarsi presto, non si facevano scrupoli a sparare per le strade, per provocare più morti possibili. Da ragazzino ha visto persone cadere per le strade come birilli, cercando di rimanere in piedi e sopravvivere. Un giorno vide un gruppo di partigiani tentare un attacco ai tedeschi che erano situati lungo le mura di Terranuova Bracciolini e sulle torrette. Omero ha assistito a tutta la scena: spari, urla e suoni di proiettile che penetrano la carne. Alla fine dell’attacco si avvicinò ai partigiani caduti, concentrandosi su uno, Bellomo Vito, classe 1918, che da Bari era di stanza in Valdarno parteggiando per la resistenza. Omero non si è mai dimenticato di Vito Bellomo, il partigiano con il cranio spaccato da un proiettile tedesco.

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Marta Matassini racconta, invece, l’incubo che ha accompagnato le sue notti dal 4 luglio 1944: l’eccidio di Meleto. Su una popolazione di 500 persone i tedeschi ne uccisero 97, fra uomini e bambini. La mattina sul presto iniziarono ad arrivare delle camionette tedesche. I soldati entrarono nelle case per prelevare con la forza gli uomini. I 97 furono poi divisi in due gruppi, portati alle estremità del paese, uccisi per mano delle mitragliatrici e successivamente bruciati. La tragedia è stata poi per le donne di Meleto che nella disperazione di ritrovare i propri cari camminarono fra i corpi, che ormai avevano la carne sciolta ed erano solo un’accozzaglia di ossa e fetore. Scavarono poi tutte le fosse con attrezzi non adatti, alcune anche a mani nude, dato che Mussolini aveva sequestrato a tutti gli italiani il ferro, come quello dei cancelli, per fabbricare armi. La volontà di seppellire dignitosamente i cadaveri ha spinto le donne di Meleto a mettere da parte il dolore per ricordare la comunità. La loro forza e il loro coraggio sono stati esemplari.

Alla fine, poi, i tedeschi andarono via e tornò la pace. Piano piano le strade si ripopolarono di voci, con l’aggiunta di monumenti ai caduti, agli eroi nascosti, a quelli comuni. Il Valdarno ha vissuto bombardamenti e invasioni, ha visto morte e disperazione, ma la sua comunità non ha ceduto: da quel momento è cresciuta sempre più, dividendo il peso del ricordo, trasmettendolo di generazione in generazione. Un grazie particolare a “Dritto e Rovescio”, alla proloco di Terranuova Bracciolini e a Riccardo Vannelli: grazie alle testimonianze e ai documenti è stato possibile scrivere questo articolo

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