13 luglio 1944. Trucidati dai nazisti dopo aver scavato la propria fossa
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13 luglio 1944. Trucidati dai nazisti dopo aver scavato la propria fossa

Due anziani contadini della campagna di Poggibonsi, Francesco Cecconi e Giuseppe Iacopini, furono catturati, accusati di essere spie e sentenziati barbaramente dai tedeschi che stavano ritirandosi verso nord sotto la spinta dagli alleati e dei partigiani.

13 luglio 1944. Trucidati dai nazisti dopo aver scavato la propria fossa
Il cippo a Gavignano, in memoria di Francesco e Giuseppe, nel luogo dell’esecuzione del 13 luglio 1944
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Marcello Cecconi Modifica articolo

17 Aprile 2023 - 18.08 Culture


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Scavano pochi centimetri di quel tufo indurito. Poi Francesco e Giuseppe incrociano gli sguardi e, contemporaneamente, lasciano cadere a terra le pale; si voltano consci di un futuro già passato. Bereit zu schießen? Feuer!!! Parte la scarica, cadono scomposti. Il prete, tremante, si fa il segno della croce, borbotta qualcosa in latino e alza lo sguardo al cielo implorando, per chissà chi, perdono.

Così furono brutalmente uccisi mio nonno paterno Francesco Cecconi e l’amico suo Giuseppe Iacopini quel giovedì 13 luglio del 1944 e la ricostruzione dell’accaduto segue le testimonianze orali delle famiglie, del sacerdote che presenziò l’esecuzione e dei fratelli Giannozzi, più fortunati compagni di sventura.

Era un caldo asfissiante in quel boschetto sotto Gavignano in quel primo pomeriggio, a Francesco e Giuseppe gli vennero consegnate due pale corte, a punta arrotondata e con manico a D, e intimato di scavare due fosse. Avevano capito bene che dovevano prepararsi le tombe, proprio lì, in quell’anfratto. I due contadini obbedirono all’ordine perentorio con il sudore che esondava dalle sopracciglia annebbiandoli la vista.

Nella testa un accavallarsi di volti e luoghi in una confusa rassegna e, nelle orecchie, un rimbombo assordante di voci e suoni familiari. Sulla schiena prona, lancinanti erano le punture dello sguardo di quelle pupille dilatate di quei due ragazzi in divisa che parlavano una lingua sconosciuta e ti puntavano il fucile. Più in là, lo sguardo rassegnato di un prete, testimone obbligato e terrorizzato, a balbettare una specie di confessione.

Fra un colpo di pala e l’altra, Francesco e Giuseppe si tergevano gli occhi gonfi di sudore e lacrime con la manica della camicia arrotolata nell’interno del gomito, proprio come facevano durante il lavoro nei campi. Spalarono in silenzio, per alcuni minuti, con la forza di un naturale coraggio intinto nella disperazione di chi sa bene di essere di fronte a una morte certa e inaspettata. Eppure loro non erano i primi a morire così, era successo a molti negli ultimi mesi, e i due lo sapevano, ma una cosa è sentirne il racconto la sera, nel buio del rifugio, altra cosa esserci di persona. Lì, spirito e corpo, a rimestare nella mente con l’ansia di sapere di andare dritti verso la morte. E così fu.

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Il cippo a Gavignano, in memoria di Francesco e Giuseppe, nel luogo dell’esecuzione del 13 luglio 1944

Quel luglio del 1944 fu un mese difficile per Poggibonsi e per le colline che lo sovrastano, c’era il passaggio del fronte. I tedeschi resistevano agli alleati e lentamente, molto lentamente, si ritiravano verso nord. I partigiani, invisibili ma presenti, collaboravano con gli alleati che preferivano farsi annunciare dalle bombe e dagli obici dei cannoni anziché avventurarsi in attacchi frontali.

Nella collina di Strozzavolpe le famiglie dei mezzadri delle due fattorie, insieme a tanti “sfollati” del capoluogo, con il freddo nel cuore avevano lasciato case, animali e molte cose care per trovar riparo nel “rifugio” scavato in pochi giorni sotto il bosco della Ragnaia del Castello di Strozzavolpe, in quel costone scosceso che guarda il dirimpettaio colle di Talciona.

Per Francesco e Giuseppe tutto ebbe inizio all’alba di quel giovedì. All’ingresso di quel rifugio, fra lo sgomento e la paura generale, si avvicinò una pattuglia di marocchini del Cef, il Corpo di Spedizione Francese, scesa da Talciona. L’invito, molto perentorio era che “qualcuno degli italiani” salisse su, alla Torre di Luco, per poi riferire se i cecchini tedeschi, da ore silenti, avessero già sgombrato le postazioni.

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Francesco Cecconi, 69enne, che abitava proprio nella casa colonica collegata a quella torre sospettata di ospitare i cecchini, e il 63enne Giuseppe Iacopini, che viveva invece in una casa della fattoria nel piazzale sottostante, si offersero volontari per evitare che fossero i soldati marocchini a fare la complicata e dolorosa selezione fra i presenti.

Rassicurarono i familiari preoccupati e salirono verso Luco dove, nel piazzale, incontrarono i due fratelli Giannozzi, più giovani e conosciuti coloni della vicina Fattoria del Tresto. Improvvisamente si materializzarono dal nulla quattro militari tedeschi che fermarono con decisione i quattro contadini sbraitando parole incomprensibili e rabbiose.

Francesco e Giuseppe capirono solo di essere in pericolo e spiegarono, inascoltati, che erano saliti fin lì solo per prendere alcune cose dalle reciproche abitazioni. Furono spinti, armi puntate, nel “cantinino”, così veniva chiamata una piccola cantina scavata alla base di un alto ciglione tufaceo lungo la ripida discesa ghiaiosa che da Luco scende verso il Tresto. I soldati tedeschi, dopo aver ben chiusa la porta, lasciarono intendere che sarebbero tornati di lì a poco.

Non si accorsero però dello “sfiatatoio”, quell’apertura nell’alto soffitto che hanno le cantine scavate nel tufo, per il ricambio dell’aria. E quella fu la via di fuga scelta immediatamente dai giovani e più agili fratelli Giannozzi che invitarono anche i due compagni di sventura a seguirli. Ma Giuseppe aveva una mobilità limitata e non avrebbe mai potuto tentare la scalata, così Francesco non se la sentì di lasciar solo l’amico e rassicurò i due fratelli mentre fuggivano “…andate, andate, noi siamo anziani che ci faranno mai!”.

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Tornarono i militari tedeschi e, sorpresi e incattiviti dalla fuga dei due fratelli, imposero a Francesco e Giuseppe una complicata e tragica camminata di qualche chilometro sotto il sole cocente, per saliscendi polverosi, fino a Gavignano. Lì si fermarono in un angolo di un boschetto nascosto, in valle, non lontano dal nucleo abitato dove i militari tedeschi ricevettero l’ordine di ricercare un testimone interprete per un “tribunale improvvisato”.

Fu chiamato un prete che, traducendo con difficoltà, spiegò ai due “imputati” che erano accusati di essere spie dei sovversivi e di aver favorito la fuga dei due “partigiani”, così come i tedeschi ritenevano che fossero i fratelli Giannozzi. Il prete, a richiesta dei militari, dichiarò di non riconoscere i due contadini di Luco come fascisti né tantomeno come frequentatori della Chiesa. Il prete, a quel punto, si rivolse direttamente ai due implorandoli di confessare comunque “qualcosa” per scagionarsi, per tentare di salvarsi.

Francesco e Giuseppe continuarono solo a ripetere che non erano spie, che erano saliti nel piazzale di Luco per prendere cose dalle rispettive abitazioni e che non sapevano dove fossero fuggiti i fratelli Giannozzi. Niente altro più uscì dalla loro bocca. La condanna fu emessa ed eseguita. I due corpi a mala pena ricoperti con qualche palata di tufo avevano i piedi che spuntavano, irriverenti e accusatori.

Appena il giorno dopo, 14 luglio, il corpo di spedizione francese tentò il primo ingresso in una Poggibonsi deserta e sconquassata ma fu respinto dalle forze tedesche. Solo dopo cruenti scontri, quattro giorni dopo, gli stessi francesi con l’aiuto dei partigiani, avrebbero liberato finalmente la città. Era il 18 luglio 1944. Francesco e Giuseppe riposavano già nel cimitero di Luco, a due passi da quel “cantinino”, loro prima e ultima prigione.

Di seguito la mia videotestimonianza

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