La mostra 'Guy Bourdin Storyteller' da Armani/Silos
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La mostra 'Guy Bourdin Storyteller' da Armani/Silos

Guy Bourdin, Storyteller: la forza narrativa travolgente di un autentico pioniere iconografico attraverso la fotografia intesa come totale e incondizionata libertà espressiva. L’irruzione coraggiosa di Giorgio Armani nella fashion week milanese

La mostra 'Guy Bourdin Storyteller' da Armani/Silos
Vogue Paris, May 1970 И 2023, The Guy Bourdin Estate.
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7 Marzo 2023 - 15.51


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di Francesca Parenti

Giorgio Armani stupisce, incanta, trascende la facilità ed irrompe, nella settimana della moda milanese, inaugurando una mostra audace, ardita, straordinaria e altamente rivelatrice.

Con Guy Bourdin: Storyteller dimostra assoluta libertà di scelta, afferma la volontà di osare, manifesta l’intenzione di trascendere i confini abituali attraverso una ricerca lucida, un’indagine consapevole, un’investigazione erudita, uno studio appassionato raggiungendo la trionfante concentrazione nell’eccezionalità.

Un’esposizione che, se da un lato ribadisce il proposito di “fare di Armani/Silos un centro di cultura fotografica contemporanea” dall’altro, come ricorda lo stilista, procede “includendo” non solo “ciò che è prossimo al mondo Armani, ma anche ciò che ne è lontano”.

Addentrarsi nella cospicua selezione delle centoventi fotografie on show, dalle più celebri agli scatti meno conosciuti, significa seguire la cernita accurata effettuata personalmente da Giorgio Armani insieme a The Guy Bourdin Estate: è solo in questo modo che potranno dipanarsi le origini delle sorgenti generanti, la scoperta delle motivazioni intrinseche e si potrà rinvenire, nell’illusorio distacco, la direzione provocante un avvicinamento inatteso. 

Il francese Bourdin (Parigi, 1928-1991) è un autore tutt’altro che prevedibile, tantomeno scontato, e specialmente distante, in una riluttanza sempre manifesta, da qualunque imposizione stilistica, linguistica e visiva. 

Da autentico pioniere iconografico, innovatore pertinace, anticipatore caparbio agisce, senza riserve, in virtù della totale e incondizionata libertà espressiva come la sola esigenza perseguita ostinatamente per tutta la vita. 

Una tale determinazione è riscontrabile sia nel gusto per la provocazione, esplicitata nell’audacia compositiva, che nel superamento delle paratie convenzionali: frantumando ogni aspettativa ordinaria legata alle campagne pubblicitarie, polverizzando la prevedibilità di ogni modalità incatenata ad incarichi di advertising, disgregando con una rottura radicale i dettami convenzionali della fotografia di moda, raggiunge una forza narrativa impetuosa e travolgente. 

Senza alcun timore reverenziale.

Se ognuno di questi aspetti trova esatta collocazione nella grandiosa retrospettiva milanese, l’ultimo menzionato culmina, grazie ad un titolo perfetto che lo enfatizza inequivocabilmente, nell’affioramento delimitante l’autore quale storyteller e nel pre/dominio prospettico di questa angolazione all’interno di un progetto espositivo ambizioso ma pienamente riuscito.

Infatti, nel perfezionismo implacabile di Bourdin, mediante la scansione inappuntabile dell’allestimento e la successione misurata delle sale espositive, troviamo la pungente ironia tendente al sarcasmo provocatorio e tagliente; rinveniamo la precisione minuziosa nella melodia di un cromatismo oppositivo o euritmico; riscontriamo la preminenza del dettaglio congiunta ad un’armonia dissacrante, enigmatica o irreprensibile nell’integra strutturazione; incontriamo la riformulazione decisa di una grafia fulgida che sorpassa e valica la sterilità del manierismo normativo; scorgiamo l’entusiasmo esternato nell’aspirazione a suscitare stupore trasmettendolo ai fruitori, con la finalità non di scioccare quanto piuttosto di condurli all’interazione attiva, partecipata e sollecita con le immagini per interrogarsi su di esse e relazionarsi ad esse.

Ma è soprattutto la ri/nascita persistente di scenari pienamente filmici, frame all’interno dei quali il frammento minimale e l’interezza totale si fanno narrazione stringente, racconto affascinante o storia misteriosa ad essere accentuati, dischiusi con chiarezza negli spazi di Armani/Silos e che, oltre a catturare l’immaginario di intere generazioni, hanno consentito all’artista di ottenere un posto intoccabile nell’olimpo dell’arte fotografica.

Armani Silos – Guy Bourdin, Storyteller – Courtesy of Giorgio Armani

Ed ora, oltre a sondare la sua produzione con zelo circonstanziato, non possiamo esimerci dal rinvenimento delle connessioni con altri autori ed esponenti di correnti artistiche: per Bourdin, gli influssi da loro esercitati hanno avuto un ruolo fondamentale nel modellare il proprio linguaggio espressivo, in una formazione segnata, biograficamente e stilisticamente, dai contatti decisivi che è necessario rintracciare. 

Durante il servizio militare a Dakar (1948–1949), come cadetto della French Air Force, acquisisce le prime nozioni fotografiche e, nel 1950, di ritorno in patria, conosce Man Ray. 

Questo decennio segna l’inizio della sua carriera e l’utilizzo, per un breve periodo, dello pseudonimo di Edwin Hallan. Nello stesso anno, a Parigi, tiene la sua prima mostra di disegni e dipinti in Rue de la Bourgogne nel VII arrondissement, mentre al 1952 risale la sua prima esposizione fotografica presso La Galerie 29, il cui piccolo catalogo contiene un’introduzione proprio di Man Ray.

D’ora in avanti, l’ascesa diventa inarrestabile: con i servizi di moda esordisce su Vogue Paris nel 1955 e per la rivista continuerà a lavorare per decenni. L’incontro con lo stilista di calzature Charles Jourdan sancisce un ulteriore sodalizio prolungato e proficuo con la realizzazione di tutte le campagne commerciali del brand dal 1967 al 1981. 

Fin dal principio, le sue composizioni eteroclite, insolite, stravaganti e complesse, suscitano una temperie di fremente attesa e grande aspettativa da parte del pubblico e dei media internazionali.

Fece scalpore, pur riflettendo il suo temperamento riluttante alle lusinghe incensatorie, il rifiuto del Grand Prix National de la Photographie, attribuitogli dal Ministero della Cultura Francese nel 1985, eppure il suo nome venne comunque mantenuto nell’albo d’oro dei vincitori.

Insomma, sebbene Bourdin condivida con altri fotografi il gusto per la provocazione e la stilizzazione, si getta alle spalle le barriere impositive della fotografia pubblicitaria convenzionale, ponendo le fondamenta per l’approccio ad una rivoluzionaria fotografia di moda.

Da questi sommari, e non esaustivi, dati biografici, possiamo tuttavia identificare cospicui elementi da tenere in rilevante considerazione.

Anzitutto, il rapporto imperituro con la pittura, con la quale principia la sua professione e che mai abbandonerà, è evidente in ogni suo scatto. Importantissima è inoltre l’affinità con le atmosfere di ascendenza surrealista a partire dalle tele del pittore belga René Magritte, illusionista onirico e artefice di cortocircuiti visivi, detto le saboteur tranquille, per la capacità d’insinuare dubbi sul reale attraverso la sua rappresentazione, al quale si avvicina per mostrarne le incognite indefinibili. 

È opportuno menzionare altri rappresentanti del Surrealismo (movimento d’avanguardia nato negli anni ’20 a Parigi che coinvolse tutte le arti) tra i quali i poeti André Breton e Paul Éluard, nonché Max Ernst, pittore, scultore e precursore delle tecniche del grattage e del frottage

A partire dal 1950, l’amicizia duratura e l’assidua frequentazione con Man Ray (pittore, fotografo, costruttore d’oggetti e regista) influenzano indubbiamente il pensiero di Bourdin e la sua produzione.

Per l’incredibile destrezza nel riuscire a racchiudere interi romanzi, preferibilmente gialli o noir, in un singolo scatto, il testo isagogico a Storyteller insiste giustamente sull’affinità e la vicinanza attinente al cinema, citando appropriatamente il pittore Edward Hopper e il regista, maestro della suspence, Alfred Hitchcock: non è un caso che i due siano affiancati in un accostamento adeguato e confacente.

L’americano Hopper (noto per la predilezione nella rappresentazione fedele di architetture nel paesaggio, strade cittadine, interni di case, uffici, teatri e locali) combina in un’epitome il panorama figurativo con il sentimento tormentato e le potenzialità poetiche percepibili sia nei soggetti che nelle disposizioni pittoriche. Il suo accentuato, ma sfingeo, realismo emerge prepotentemente nella pronunciata geometrizzazione, nel raffinato avvicendamento di luci fredde, acuminate e di proposito artificiose, nei sintetici dettagli, nelle scene spesso deserte ed immerse in una silenziosità talmente marcata da risultare assordante. 

Le figure umane, di norma solitarie e raramente in gruppo, sono contraddistinte da una tormentata estraneità reciproca e da una dolorosa incomunicabilità: i loro sguardi assorti e i loro atteggiamenti oltrepassano l’estremità della tela, rivolgendosi a qualcosa che all’osservatore non è dato vedere e conoscere. 

Persino quando la cromia si fa brillante non trasmette vivacità o vitalità e, ugualmente, nonostante gli spazi risultino verosimili, in loro aleggia un sentore toccante il metafisico, traghettante un senso d’inquietudine. Quest’ultima, insieme alla solitudine, all’emarginazione e all’irraggiungibilità amplificate, caratterizzano le figure femminili, che occupano una posizione rilevante per la pienezza simbolica in loro racchiusa. I tratti brevemente esposti chiariscono la vicinanza all’opera di Bourdin e, al contempo, quanto l’immaginario ri/creato da Hopper sia accostabile alla strutturazione fotografica e cinematografica.

Difatti, la sua House by the railroad (1925) divenne, per Alfred Hitchcock, il modello per la casa in stile secondo impero americano del film Psyco (1960). Ma questo non è che un isolato dettaglio. 

Scavando a fondo, come suggerisce l’approfondimento di Storyteller, Hopper, Hitchcock e Bourdin hanno molteplici caratteristiche accomunanti, a partire proprio dall’eccezionale impatto della loro energia narrativa, declinata con mezzi espressivi diversi ma convergenti in risultanze sorprendenti.

Hitchcock, da master of staging, esattamente come Bourdin in fotografia (e ancor prima Hopper in pittura), realizza opere cinematografiche nelle quali nulla è estemporaneo o gratuito. 

E se talvolta gli sono state rivolte critiche accusanti l’assenza di veridicità situazionale, queste sono da imputare ad un’errata prospettiva esegetica: al regista non interessa la riproduzione realistica di circostanze e personaggi, quanto provocare emozioni tramite un racconto. 

Ma le affinità accomunanti la triade autoriale sono ancora molte. 

A partire dall’umorismo, che porta Hitchcock a mischiare istanti da commedia e dramma, servendosi di sceneggiature pervase di battute brillanti fino alle venature ironiche; e ancora, la fragilità dell’ordine esistenziale in un equilibrio sempre precario; il ruolo determinante della casualità; la difficoltà nella distinzione tra vero e falso, tra apparenza e realtà; l’alone di segreto, di dubbio e sospetto; in aggiunta, la frequenza del conflitto fra bene e male, innocenza e colpa, normalità e follia; la comunicazione dell’ansia e dell’angoscia attraverso l’eloquenza di oggetti, luoghi e l’uso di simboli e metafore; l’impiego della lentezza e della rapidità, nella temporalità contratta o dilatata. 

Infine, le invenzioni di effetti visivi, sparsi ovunque nella sua produzione (descritti nella celebre intervista concessa a François Truffaut nel 1962) e gli inarrivabili storyboard dettagliatamente disegnati da lui stesso prima di iniziare le riprese.

Eppure è la suspense lo strumento più potente ed intenso per ancorare la concentrazione dello spettatore. Ottenuta dallo scollamento tra ciò di cui si è e non si è a conoscenza, o dall’identificazione con un personaggio, causa uno stato di ansiosa agitazione. 

Si deve inoltre inserire la rilevanza della psicoanalisi della quale Hitchcock è stato considerato un interprete e un divulgatore per la ricorrenza delle sequenze oniriche.

Per capacitarsi di quanto queste specificità siano reperibili nelle opere di Bourdin basterà rientrare nel suo universo, rintracciandone la prossemica con gli autori citati e la singolarità feconda che gli appartengono.

Dal momento che la fotografia è una scrittura con la luce, ogni grafia luminosa non può esimersi dall’essere necessariamente letta e, nel caso di Bourdin va decifrata, decodificata, sviscerata e compresa dinamicamente dal lettore tramite le tracce elusive, le impronte enigmatiche, gli indizi evasivi, i balenii allusivi che l’artista effonde lungo il tragitto. 

Le storie contenute in ogni suo singolo abbacinante fotogramma sono inviti caleidoscopici, sollecitazioni immaginifiche, stimoli esortanti la ri/costruzione possibile di un prima e l’ipotesi plausibile di un dopo

In ultima analisi, la sua arte vive nella ri/consegna ai fruitori di quella tenace libertà ermeneutica e interpretativa della quale lui stesso è stato portatore indomito e campione invitto.

L’invenzione continua della fantasia, la scoperta rinnovata costantemente, la carica sovvertitrice nell’edificazione perenne di orientamenti riformatori portano Bourdin non ad attenersi alle strettoie nel semplicistico ritratto del soggetto e dell’oggetto da pubblicizzare, ma alla dedizione

nel creare una scenografia veicolante una storia da dipanare. 

È così che la fotografia abita in lui e, grazie a lui, continua ad abitare in noi.

Nella fabbricazione di un set narrativo ineccepibile, di frequente, le modelle sono apparizioni inafferrabili nella loro interezza e le tonalità si rincorrono tra saturazione e impalpabilità in una visione tranchant rispetto alle regole classiche e ai dettami consueti.

Nella foto Vogue Paris, May 1970 il viso femminile in primo piano è ir/riconoscibile in quanto totalmente ri/coperto, dalle guance fino agli occhi, da numerose mani disposte simmetricamente e a cascata su di esso. Le dita che avvolgono il volto terminano in unghie identiche e colorate da un vermiglio sfavillante che richiama la tonalità del rossetto glossy

In Invite for MAF!A AD Agency, 1972 la donna ristretta nel mezzo busto di una sagoma rarefatta, è avvolta nella nebulosità di un rosa cipria delicato dal quale emerge, enorme e sproporzionato, only one eye, dal trucco impeccabile negli ombretti lilla e celeste sfumati insieme: un occhio che, guardando dritto verso di noi, ci scruta, ci interroga e ci insegue con la potenza del suo sguardo unico e plurimo al tempo stesso.

Invite for MAF!A AD Agency, 1972 И 2023, The Guy Bourdin Estate

Nelle campagne commerciali realizzate per Charles Jourdan, le circostanze si fanno maggiormente 

sfuggenti e sospese in atmosfere atemporali.

Con Charles Jourdan, 1972 delle due ragazze sedute a tavola intravediamo solo le ombre dei loro corpi e della loro gestualità fissata, mentre le scarpe, arancioni dell’una e verdi dell’altra, si avvistano sotto il tavolo in basso (tra le sedie ed in pose normali) dove, il pavimento e il muro retrostante ritornano ai colori già identificati. 

Nello scatto Charles Jourdan, Spring 1979 la modella inguainata nel nero di un costume e calze a rete, pare precipitare da una scogliera di gomma purpurea sullo sfondo di un arancione acido, mostrando solo le gambe e le décolleté (nuovamente nere) con tacco a spillo dorato.

Ancora per il designer, un’altra immagine presenta una sola scarpa aperta di un giallo esuberante, badiale se paragonata al contesto, fotografata nel freddo ed impersonale corridoio di un hotel: è appoggiata sulla moquette, circondata da mocassini maschili ordinatamente avvicinati al muro e di dimensioni ridotte rispetto alla preminenza riservata a quella menzionata. 

In Charles Jourdan, April 1974 un’auto immobile, in un paesaggio marino, assolato e florido sullo sfondo, lascia avvistare solamente dai finestrini i sandali ai piedi.

Famose, sconcertanti e sensazionali le fotografie che non utilizzano figure umane, bensì pezzi di manichini. Come fossero dotati di vita e ritratti infatti in cammino, stiletti appuntiti si muovono in un giardino dai roseti in fiore o in un vicolo acciottolato parigino: Bourdin decompone il soggetto e l’oggetto, scegliendo di usarli in parte, di sostituirli con ausili inserendoli in situazioni misteriose eppur apparentemente reali.

Non manca nuovamente di sbalordire con la fotografia nella quale la forma di un tavolo bianco in un’eco rinviante invoca, con puntualità ed esattezza, la postura delle gambe sottostanti, indossanti calze velate nere e chaussures blu scuro; oppure di meravigliare con Charles Jourdin, Spring 1975 dove un sandalo buttato a terra (sul lato sinistro del pavimento in continuità con la parete rosé) convive con due prese di corrente e, se una di esse presenta la spina inserita, dai fori dell’altra fuoriesce un liquido sgorgante che pare sangue, identico al colore della scarpa.

Frequentissime sono le fotografie nelle quali l’interezza della ripresa non è indispensabile e un singolo dettaglio è sufficiente come porzione innalzata allo status di distintiva totalità. 

Accade con l’occhio, perfettamente truccato, nello scatto ingombrato da ombrelli blu sotto la pioggia battente: solamente da uno dei parapluie appare al centro l’oeil, avec le regard rivolto in direzione opposta e laterale rispetto all’osservatore; oppure in Photo France, 1972 con le labbra incastonate nell’incarnato roseo della pelle o ancora nelle lunghe braccia dalle unghie laccate che cingono e si afferrano ad una collina costellata di detriti, terriccio e sterpaglie arboree.

Charles Jourdan, Spring 1977, scelta come immagine guida della retrospettiva, contiene tutta l’originalità delle doti inarrivabili di Guy Bourdin, ne racchiude lo splendore innovativo nella genesi di un codice visivo, unico e immediatamente riconoscibile.

Con una strutturazione ineccepibile, il contrasto tra il nero dell’abito e il rosso sfolgorante del copricapo, lasciano esposta solo la superficie epidermica e triangolare della schiena e quella rettangolare del collo: enfatizzando la schematizzazione geometrica between shape and color, Bourdin mette in risalto l’atto creativo e non esclusivamente il prodotto.

La mostra presso Armani/Silos riprende, nella fluida organizzazione espositiva priva di stonature,

tutti gli aspetti enumerati: intere sale evidenziano l’uso saturante del colore consacrandosi ai rossi, ai verdi o ai viola; altre la sua perizia nel farsi prestigiatore iconografico con la scomposizione della forma e l’uso di manichini; una sezione esplora l’uso del bianco e nero che amplifica l’espressività nell’articolazione della scultorea fisicità e un’altra l’ammirazione di Bourdin per il cinema presentando istantanee simili a scene del crimine o inseguimenti polizieschi, riportandoci alla fascinazione per Alfred Hitchcock.

Le composizioni in sospensione tra l’improbabile e il sublime, la capacità di stimolare il subconscio dello spettatore, il gioco sapiente di luci, ombre, colori e forme, e l’edificazione di scenografie narrative fanno delle sue fotografie un’esperienza percettiva esclusiva ed inclusiva per i fruitori, catturandone ipnoticamente l’attenzione.

Charles Jourdan, 1972 И 2023, The Guy Bourdin Estate

Bourdin non può essere incasellato in nessuna categoria imprigionante.

È la libertà incondizionata e illimitata, mai castrata dalle committenze, che, senza se e senza ma, gli consente di inventare senza imitare, di creare senza copiare, di dare forma a racconti visivi che detengono il potere dell’anticipazione e dell’immortalità, affrancandosi dalla prigionia temporale essendo detentori della largizione valevole della permanenza. 

Bourdin, e Armani con lui, con questa mostra sono determinati ad andare oltre: oltre il logorio degli sbarramenti routinari, oltre la demarcazione mercificante, oltre le occlusioni ab/usate.

La diversità, l’impareggiabilità, l’inimitabilità, la difformità, l’étonnement irriverente, la sorpresa della découverte perpétuelle fanno di Bourdin un fotografo di certo non comodo da proporre. 

Armani lo sa perfettamente ed è proprio questo a spingerlo e motivarlo.  

Chi crede ciecamente che Storyteller sia un’operazione puramente commerciale si sbaglia. 

È tutt’altro, semmai.

Mille altri autori avrebbero potuto essere proposti per la fashion week milanese, piegandosi servilmente ad essa.

Molti, troppi forse, ma non Bourdin. Lui no. 

Il perché giace nelle sue immagini, nel suo ardimento, nell’anteporre il proprio pensiero ad ogni diktat. E, nel farlo, si è svincolato da ogni regola incluse quelle del mercato dell’arte: non volendo promuovere se stesso, non archiviò le proprie opere e non fece nulla per preservarle; respinse le offerte per mostre e pubblicazioni, infatti sono pochissime le esposizioni a lui dedicate (per la maggior parte postume), così come i suoi libri sono rarissimi e introvabili.

Dieci anni dopo la sua morte, nel 2001, venne edito il volume Exhibit A, voluto dal figlio Samuel (recentemente scomparso), che contiene tutte le migliori realizzazioni del padre. 

La sua prima antologica si è tenuta presso il Victoria & Albert Museum a Londra nel 2003, per poi circuitare presso la National Gallery of Victoria di Melbourne ed il Jeu de Paume di Parigi.

Eppure, ogni suo scatto, una volta visto si tatua nella memoria individuale e collettiva in maniera indelebile.

Guy Bourdin: Storyteller, inaugurata con una private view nella serata del 23 febbraio subito dopo la sfilata di presentazione della linea Emporio Armani Autunno/Inverno 23, rimarrà aperta fino al 31 agosto. 

Provvidenzialmente e fortunatamente, aggiungo io. 

Sì, dal momento che è un’esposizione da guardare e ri/guardare, da studiare, da indagare e che richiede un tempo lungo di osservazione per poter essere compresa ed apprezzata in ogni possibile declinazione, per poterne rinvenire le intime connessioni, per appassionarsi ad un autore che non finisce mai di stupire ed istruire, per apprezzare una visione sempre nuova, per rintracciare la potenza delle sue narrazioni raccordata all’etica del duro lavoro. 

E perché, come sostiene Man Ray nella raccolta di scritti Sulla fotografia, “la consapevolezza del desiderio è il primo passo verso la partecipazione e l’esperienza” in quanto vi è “un solo modo per avere la piena misura di qualsiasi opera creativa ed è il contatto continuo con essa.”

Eppure, c’è di più: gli artisti coinvolti sono due e la cagione risiede nella genesi del progetto.

Giorgio Armani – Courtesy of Giorgio Armani

Basta chiedersi che cosa muove ed anima l’universo di Giorgio Armani e cosa ha mosso ed animato quello di Guy Bourdin. 

In definitiva sono la passione, l’ardore, in assonanza con ardire, e la serietà dell’impegno a stimolarli, renderli impavidi, a farli proseguire seguendo la direttrice indicata nuovamente da Man Ray quando dichiara che “la vera audacia consiste nell’essere interamente se stessi” e che “il nuovo è un modo sia di vedere che di fare”.

Per questo, eliminata la patina fasulla del glamour, possiamo affermare che Bourdin ed Armani in/segnano e continueranno a farlo.

Con le forze motrici che detengono saldamente, a partire dal coraggio e dalla devozione, intesa come impegno consacrato nell’agire creativo di entrambi, forniscono un esemplare modello per tutti noi.

Lo stilista, nell’aver effettuato una scelta risoluta e cosciente, la esplicita con chiarezza disarmante: “a prima vista, Guy Bourdin non è un autore a me vicino: il suo era un linguaggio netto, grafico, forte. Nella sua opera quel che si percepisce subito, in superficie, è la provocazione, ma quello che mi colpisce, e che ho voluto mettere in risalto, sono piuttosto la sua libertà creativa, la sua capacità narrativa e il suo grande amore per il cinema. Bourdin non seguiva la corrente e non scendeva a compromessi: un tratto nel quale mi riconosco io stesso. Credo non ci sia un altro modo per lasciare un segno nell’immaginario collettivo”.

Ecco l’avvicinamento inatteso e il ricongiungimento raggiunto. 

E se, per merito loro, anche noi troveremo la forza di guardarci dentro, scopriremo che il nostro mondo può muoversi seguendo queste direzioni. 

La promessa è dunque di non scendere a com/promessi nel per/seguire la libertà delle nostre aspirazioni.

L’eccezionalità dell’impresa sta nel non accontentarsi, nel ri/conoscersi non abbandonando mai i nostri sogni, nella normalità dell’essere davvero noi stessi.

Lasciando un segno in e per noi, prima che altrove o per altri. 

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