Gianni Minà: il Gabo che conosco
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Gianni Minà: il Gabo che conosco

Il giornalista ricorda il grande premio Nobel scomparso all'età di 87 anni. Era malato già da tempo. Per tutti resta il più prestigioso scrittore del XX secolo.

Gianni Minà: il Gabo che conosco
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18 Aprile 2014 - 19.29


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Se n’è andato uno dei più grandi scrittori del Novecento. Il giornalista Gianni Minà è uno dei tanti, in tutto il mondo, che in queste ore cercano di ricordare Gabriel García Márquez e di omaggiare la sua memoria. Minà, sul suo sito [url”www.giannimina-latinoamerica.it”]www.giannimina-latinoamerica.it[/url], lo fa parlando della prima volta che lo ha intervistato e di quello che ha significato. Marquez che ha cambiato non solo la cultura latinoamericana, ma la cultura del nostro secolo. di Gianni Minà

Se ne è andato da questo mondo Gabriel García Márquez, probabilmente il più prestigioso scrittore del XX secolo.
Aveva praticamente imposto, nella letteratura del nostro tempo, un nuovo stile e un nuovo modo di raccontare.
Questo stile ha avuto molti adepti e ha imposto la letteratura latinoamericana nel mercato della cultura.
Era un uomo schietto e ironico che ho avuto la fortuna di frequentare e con il quale ho condiviso sogni ed emozioni.
È stato leale fino all’ultimo con la rivoluzione cubana conscio, quando lo sottolineava con ironia, che un sistema, quello dell’economia neoliberale, non può insegnare niente a nessuno, nemmeno ai comunisti, se continua ad essere una fabbrica di repressione e dolore per gli esseri umani.

In questo Gabo fu esplicito pur non avendo mai sposato ideologie, a differenza di Vargas Llosa che è stato, dopo una gioventù comunista, sempre connivente con il sistema capitalista e inguaribilmente geloso di un amico di gioventù, García Márquez, che, ai suoi occhi, aveva commesso il peccato di vincere il Nobel 30 anni prima di lui.

Pensate che per questa scelta controcorrente di non condividere la linea dei potenti, anche oggi, in cui si dovrebbe solo ricordare con commozione i suoi racconti, la sua prosa innovativa, i suoi inarrivabili inizi di capitolo, c’è stato chi, invece di ricordare il miracolo di romanzi irripetibili come Cent’anni di solitudine, L’autunno del patriarca, Cronaca di una morte annunciata, L’amore ai tempi del colera, Il generale nel suo labirinto e tanti altri, ci ha tenuto a sottolineare criticamente che era stato “inguaribilmente castrista” e i capolavori che aveva scritto non lo salvavano dal fuoco dell’inferno.

Per molti è ancora insopportabile il riscatto dell’America Latina nato, pur fra tanti errori, proprio con la rivoluzione cubana e prosperato ultimamente con Lula, Chavez, Evo Morales, Correa e grazie all’inattesa unità latinoamericana.

Questo che segue è dunque il Gabo che conosco io, che ci manca, ma non ci abbandona e non ci abbandonerà.




La prima volta che García Márquez stuzzicò la mia ambizione di giornalista che non concepiva l’idea di lasciarsi sfuggire un colpo, uno scoop, fu al Festival di Cannes nell’82. Era già lo scrittore di Cent’anni di solitudine, L’autunno del patriarca e di Cronaca di una morte annunciata, ma il Nobel lo avrebbe vinto mesi dopo.
Nella televisione che facevamo allora, occuparsi di cultura per il pubblico della domenica pomeriggio non era una presunzione o una scelta fuori luogo.
Io, ogni domenica pomeriggio, facevo, con la trasmissione Blitz, concorrenza alla Domenica In di Pippo Baudo ma con Giovanni Minoli, capostruttura di Rai Due che produceva il programma, condividevamo l’idea che niente era impossibile per la televisione servizio pubblico, se eravamo consci del prestigio di cui godeva allora la massima industria culturale del paese.

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Come sempre succede nelle maratone televisive in diretta, quella domenica di maggio in trasferta sulla Costa Azzurra eravamo in ritardo sulla scaletta, tanto che Rita Salci Carano, una delle più efficienti assistenti al programma, decise di condurre Gabo a fare un giro in motoscafo al largo della città del Festival per evitare di dover rinunciare alla sua partecipazione.
Poi, continuando il ritardo, registrai l’intervista durante un intermezzo sportivo. García Márquez fu, come sempre, diretto e critico: “Il mondo latinoamericano- mi disse- è un mondo socialmente conflittuale e il cinema occidentale, che da tempo ha lasciato da parte l’impegno politico, vede l’America latina in modo convenzionale, secondo schemi europei”.

Fu disponibile, anche se confessò che non amava essere una figura pubblica mentre, come presidente della giuria del Festival, gli toccava “fare lo streap-tease”, nel senso che aveva trentacinque, quaranta richieste di interviste da evadere. Ma l’amore per il cinema, che aveva appreso in gioventù in Italia al Centro Sperimentale come allievo di Cesare Zavattini, e la grande amicizia con l’allora ministro francese della cultura Jack Lang, glielo imponevano.
Anni dopo mi avrebbe rivelato che al cinema non sapeva proprio negarsi perché era stato il neorealismo di Miracolo a Milano ad ispirare il suo modo di far letteratura, di dar vita al realismo magico o fantastico, che avrebbe reso mitico il suo mondo, da Macondo alla Invincibile e triste storia della candida Eréndira e caratterizzato la sua scrittura e quella di un’intera generazione.
C’eravamo conosciuti in Messico che è stato, insieme a Cuba, la sua seconda patria, tutte le volte che ha dovuto lasciare la sofferta Colombia, sempre dilaniata dai cartelli dei narcotrafficanti, dai metodi repressivi voluti dagli Stati Uniti per combattere e perdere sistematicamente la guerra al mercato della cocaina. Una guerra sempre dichiarata dai politici che si succedevano nel paese, ma mai affrontata con un credibile piano di riscatto sociale per le popolazioni.

D’altronde il Messico, che pure ha vissuto, e sta vivendo a sua volta stagioni repressive, è sempre stato un approdo sicuro per gli intellettuali in fuga dalle dittature latinoamericane e non solo.
La Rai mi aveva mandato a seguire un viaggio di stato in Messico del Presidente Pertini che poi era previsto proseguisse per la Colombia.
García Márquez, nuovamente minacciato nel suo paese, si era rifugiato ancora una volta nella rivoluzionaria terra di Zapata.
Lo cercavamo in molti. Il mio amico Pedro Armendariz, grande attore e figlio di un mito del cinema, aveva promesso di farmi chiamare e una notte il futuro premio Nobel lo fece: “Soy Gabo, me dijo Pedro que me estas buscando. Que quieres?” (“Sono Gabo, mi ha detto Pedro che mi stai cercando, cosa vuoi?”) mi disse con un tono che non prometteva condiscendenze.

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Spiegai che, come tanti giornalisti, lo volevo intervistare. Invece di rifiutare subito, mi propose: “Facciamo un affare: io ti do l’intervista ma tu mi fai incontrare il tuo Presidente, perché io gli possa spiegare tante cose e lui non vada nella mia patria senza conoscere a fondo la situazione”.
Per una richiesta così esplicita chiesi aiuto a Enzo Biagi, decano del nostro giornalismo, anche lui, in quell’occasione, inviato al seguito di Pertini. Antonio Maccanico, segretario generale del Quirinale a cui Enzo scelse di sottoporre il problema, decise, per evitare complicazioni diplomatiche, di incontrare personalmente, insieme a noi García Márquez e poi di riferire a Pertini. Il racconto di Gabo fu chiaro e inquietante, tanto che Pertini decise di aggiustare il tono dei discorsi preparati per la visita in Colombia.
Biagi, che avrebbe avuto in esclusiva il reportage, decise invece di aspettare che il filmato che avevo montato con alcune dichiarazioni dello scrittore colombiano arrivasse, due giorni dopo, in aereo in Italia e potesse essere mandato in onda in anteprima. L’articolo di Biagi uscì l’indomani. Una correttezza che, nel mondo dell’informazione, non usa più.
L’amicizia con Gabo è cresciuta nel tempo e in tanti incontri in Messico e a Cuba.

L’autore de L’amore ai tempi del colera o Il generale nel suo labirinto ha nutrito, infatti, sempre una tenerezza verso l’isola della Rivoluzione che conobbe come giovane reporter fin dal suo nascere politico e che pur non risparmiandole critiche quando era il caso, ha spesso protetto con la sua credibilità.
Gabo non ha fatto mai dichiarazioni ideologiche, come spesso ha fatto per esempio Vargas Llosa, comunista pentito, ma non si è tirato in dietro quando si è trattato, per esempio, di dar corpo, più di vent’anni fa alla nascita, a San Antonio de Los Baňos, della Scuola di cinema più importante del continente, un sogno realizzato con l’argentino Fernando Birri e i cubani Titon Gutierrez Alea e Julio Garcia Espinoza, suoi compagni al Centro sperimentale di cinematografia a Roma negli anni ’50.

García Márquez, negli anni ’90, quelli difficili per l’economia cubana dopo la fine del comunismo nell’Est europeo, è stato anche il sostegno pratico della Scuola, dove ancora adesso tiene corsi di sceneggiatura e scrittura creativa.
Ma il premio Nobel non ha avuto dubbi ad esporsi nemmeno quando, alla fine degli anni ’90, Fidel Castro, preoccupato per la proliferazione degli attentati terroristici organizzati in Florida e messi in atto a Cuba, gli chiese, conoscendo l’ammirazione che il presidente degli Stati Uniti Clinton aveva per lui, di portare un messaggio privato alla Casa Bianca. Il leader cubano cercava di segnalare quanto fosse pericoloso la condiscendenza del governo Usa nei riguardi di molti organizzatori di attentati.
Quella volta, però, lo scrittore non riuscì a vedere Clinton e dovette accontentarsi di consegnare il messaggio allo staff presidenziale della Casa Bianca.

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Il racconto di questa avventura fu l’occasione di una cronaca in prima persona dello stesso Gabo , che conosce molto bene le contraddizioni del mondo occidentale.

García Márquez, oggi ottantaquattrenne, ama l’asciuttezza e i toni bassi. Ricordo con vera nostalgia la sera in cui finii a cena a Trastevere con una formazione irripetibile: Gabo, Sergio Leone, Robert De Niro e Cassius Clay-Muhammad Alì. Pendevamo tutti dalle parole del campione, ma chi apprezzava di più il sussurro del suo racconto, ronco e a mezza voce, era proprio Márquez . “Parece un cura” (“Sembra un sacerdote”) commentava ammirato alle mogli e alle compagne, relegate, per una sera dagli uomini, nel tavolo accanto.
Quando accettò di scrivere il prologo al libro tratto dalla mia intervista di sedici ore con Fidel Castro, ci mise qualche mese per farlo e alle mie telefonate, per le pressioni che ricevevo da Leonardo Mondadori, una volta sbottò: “Ma ti rendi conto che soppeseranno ogni parola, ogni lettera, che scrivo su Fidel? E tu mi metti fretta? Non c’è spiegazione a questa intransigenza nei riguardi di Cuba, ma il mondo va così… Vaffanculo!”.

Dopo tre giorni Mercedes, sua moglie, mi annunciava l’invio del saggio che era caustico ed esplicito, secondo la sua abitudine. Citerò, per capirci, tre passaggi. Il primo afferma: “Fidel non ama i discorsi scritti perché eliminano il maggior stimolo della sua vita: l’emozione del rischio” poi prosegue: “Indipendentemente da dove, da come e con chi è, Fidel è li per vincere. Non c’è un cattivo perdente peggiore di lui” e infine “L’ho visto spesso arrivare a casa mia portandosi dietro le ultime briciole di un giorno smisurato”. Questo è il suo stile.

Quando nel 1992 pubblicò I dodici racconti raminghi, mi propose un altro baratto che io accettai. Dovevo realizzargli, in cambio della solita chiacchierata, un’intervista filmata con Maradona per una tv colombiana nella quale insegnava ad alcuni ragazzi a fare giornalismo d’inchiesta. Quel giorno, alle mie domande, però, rispondeva in modo quasi scocciato: “Ma l’hai letto il libro?… Questo c’è nel libro, non c’è bisogno di ripeterlo nell’intervista… Ma l’hai letto?”. Chiaramente, giocava. Si infervorò solamente ricordando che in un salotto buono del nuovo cinema romano, quando si era vantato: “Io sono stato allievo di Zavattini”, aveva ricevuto per risposta un inquietante: “Zavattini chi?”. Quell’intervista faticosa, quando ascoltai il registratore, si rivelò invece, una affascinante pagina per il Corriere della Sera.

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