Il nemico del mio nemico può essere mio amico. Il vecchio assunto applicato all’eterno conflitto israelo-palestinese aiuta a comprendere alcune scelte strategiche operate, in diverse fasi della sua storia, da Israele. Così fu agli albori della Prima intifada, una rivolta di popolo in Palestina. Allora il ministro della Difesa era Yitzhak Rabin. Allora, il nemico d’Israele era l’Olp e il suo capo storico: Yasser Arafat.
In funzione anti-Olp, l’allora governo israeliano – Netanyahu non era ancora il “re d’Israele – decise di chiudere tutte e due gli occhi nei confronti di Hamas. Nessun arresto, nessun pugno di ferro. In carcere, se ancora in vita, finivano capi e combattenti di Fatah. Hamas era stata spiazzata dalla “rivolta delle pietre”, non la sentiva sua, non ne esprimeva la leadership. Contrastava, in nome della purezza islamista, il laico Fatah. Qualche anno dopo, Rabin, divenuto Primo ministro, ebbe il coraggio politico e l’onestà intellettuale, di criticare quella scelta, scegliendo di imboccare la strada della “pace dei coraggiosi” con il Nemico diventato partner di quel processo negoziale.
Per questa scelta, Rabin fu oggetto di una violenta campagna della destra, guidata da Netanyahu, che l’accusò di essere una minaccia esistenziale per lo Stato ebraico, di aver stretto la mano al Terrorista Arafat. Una campagna di incitamento all’odio che finì con l’assassinio di Rabin da parte di un giovane zelota: Yigal Amir. Che se oggi fosse in libertà, siederebbe alla Knesset tra i parlamentari di Smotrich e Ben-Gvir.
Anche Netanyahu ha applicato per tanto tempo quel vecchio assunto. Per non negoziare una pace giusta, duratura, tra pari; una pace fondata sulla soluzione a due Stati, “Bibi” aveva bisogno del nemico perfetto, con cui non avrebbe mai dovuto negoziare: Hamas. Da qui la decisione di far giungere ad Hamas i petrodollari del Qatar. Il 7 ottobre 2023 ha cambiato lo scenario. Ma non l’assunto. Tant’è che ora per indebolire Hamas, oltre a spianare Gaza, Netanyahu e la sua banda hanno deciso di finanziare e armare una milizia palestinese che si richiama ai dettami dell’Isis. Ma questo conta poco se quei miliziani con al-Baghdadi nel cuore servono a creare il caos armato nel campo palestinese.
Una milizia palestinese a Gaza non è una soluzione
Così un editoriale di Haaretz: “È cosa risaputa che il governo del Primo ministro Benjamin Netanyahu operi in modo poco trasparente e si rifiuti sistematicamente di rispondere alle domande dei media. Spesso il pubblico israeliano si è dovuto accontentare del silenzio e delle smentite, che non sono meno esplicative delle dichiarazioni ufficiali.
Giovedì, l’Ufficio del Primo ministro (Pmo) si è rifiutato di rispondere all’accusa del deputato Avigdor Lieberman, secondo cui “Israele sta fornendo fucili d’assalto e armi leggere alle famiglie criminali di Gaza su istruzioni di Netanyahu”.
Invece di smentire o confermare, il Pmo ha risposto: “Israele sta lavorando per sconfiggere Hamas in vari modi su raccomandazione dell’intera leadership dell’establishment della difesa”.
Non è solo il Pmo a utilizzare la tattica del silenzio e della negazione. La scorsa settimana, Haaretz ha rivelato l’esistenza di una milizia palestinese armata che opera indisturbata nel sud della Striscia di Gaza sotto la guida di un uomo di nome Yasser Abu Shabab.
Interpellato in merito, il portavoce delle Forze di Difesa Israeliane ha rifiutato di rispondere. Giovedì, Haaretz ha riportato ulteriori informazioni sulle attività della milizia, tra cui la costruzione di campi per sfollati gazawi nelle aree sotto il suo controllo. Questa volta, il portavoce dell’Idf ha inviato le domande dei media al servizio di sicurezza Shin Bet, che non ha risposto.
Dall’inizio della guerra di Gaza, Netanyahu si è rifiutato di discutere un’alternativa al dominio di Hamas, permettendo all’Autorità Palestinese di ristabilirsi nella Striscia o dispiegando truppe dai paesi arabi moderati.
Invece di discutere seriamente della ricostruzione e del futuro dell’enclave, Netanyahu sta portando avanti una visione messianica che prevede crimini contro l’umanità sotto forma di pulizia etnica e trasferimento di popolazione. Si tratta di un piano che impantanerebbe l’Idf nelle sabbie mobili di Gaza, metterebbe a rischio la vita di soldati e ostaggi, perpetrerebbe crimini di guerra contro la popolazione civile di Gaza, causerebbe danni all’economia e porrebbe l’Idf al centro di un isolamento diplomatico.
Nel frattempo, sembra che Idf e Shin Bet abbiano ricevuto istruzioni di armare le bande locali o, quantomeno, di permettere loro di operare sotto l’egida dell’esercito come una sorta di controforza a Hamas.
L’esperienza insegna che l’impiego di uomini armati che non rappresentano la popolazione locale come proxy dell’Idf è fonte di problemi. Questi miliziani saranno visti come collaboratori e dovranno quindi usare la forza per reprimere la popolazione. Potrebbero addirittura rivolgere le loro armi contro l’IDF.
Incoraggiare le bande, come è stato fatto con l’iniziativa israelo-americana di aiuti umanitari che ha provocato la morte di 61 civili, è un altro tentativo di fomentare il caos a Gaza sotto forma di divide et impera, che impedisce al contempo di discutere sul futuro di Gaza, dove i gazawi avrebbero l’opportunità di scegliere la propria leadership e di ricostruire le proprie vite.
Qualsiasi tentativo di imporre un futuro dopo la guerra in modo unilaterale sarà un disastro sia per i palestinesi che per gli israeliani”.
Una “ballata” dolente
È quella del rapper-scrittore Tamar Nafer. Che sempre su Haaretz “ritma” così: “
Ho provato in molti modi diversi a formulare il paragrafo iniziale di questo articolo, ma senza successo. Con delicatezza, con un’aggiunta politicamente corretta. Tuttavia, non sono riuscito a trovare parole che esprimessero con chiarezza il sentimento che mi attanaglia da più di un anno e mezzo: ho paura degli ebrei.
Non solo della destra messianica, non solo del governo o dei soldati, ma di tutti loro. Ho paura degli ebrei israeliani.
Nelle prime settimane dopo il 7 ottobre 2023, facevano paura perché erano spaventati. Ora fanno paura perché sembra che abbiano finalmente preso una decisione: hanno accettato e adottato la loro superiorità senza conflitti interni, senza esitazioni.
Immagina una donna gentile su un aereo, con accanto un uomo peloso e barbuto che indossa abiti tradizionali islamici. Questo fatto è sufficiente a far concludere a molti israeliani che si tratti di un evento spaventoso.
È evidente che questa donna non ha nulla da temere: è stata sottoposta a controlli elettronici, a perquisizioni corporali e ispezionata dalla testa alle ciabatte. Se osa anche solo alzare la voce, è finito. La sua paura, e quella di tutti coloro che pensano che questa situazione sia spaventosa, si basa solo su stereotipi.
Tuttavia, il nuovo ebreo che ci spaventa è armato. Se ha paura, è autorizzato a sparare e si scopre che gode del sostegno sia della destra che della sinistra.
Di solito c’è una differenza tra paura e pericolo; d’altronde, non tutti i sentimenti rispecchiano la realtà, ma un ebreo non presta più attenzione a questa distinzione. Certamente non oggi. I suoi recinti sono stati violati, i suoi kibbutzim sono stati invasi, circa 1.200 sono stati assassinati e uccisi, più di 200 sono stati presi in ostaggio: quindi gli è permesso vendicarsi, forse è addirittura “obbligato a vendicarsi”, ed è perfettamente chiaro che gli è permesso avere paura.
Nel suo caso, la paura può essere una licenza per uccidere. Quindi, sì, fa paura. Non in modo emotivamente ansioso, ma in modo concreto.
E che dire della nostra paura? Noi palestinesi, i cui genitori e nonni sono stati espulsi, le cui terre sono state occupate e sono rimaste nelle mani dell’occupante, che sono stati assassinati negli ultimi 75 anni, non dovremmo avere paura? Assolutamente no. Dovremmo alzarci, scrollarci di dosso la polvere, saltare sui cadaveri e ringraziare gli ebrei di non essere stati vittime di qualcuno di più spaventoso, di qualche dittatore arabo.
Gli ebrei sanno meglio di noi cosa ci spaventa. Sono autorizzati a discutere tra loro sul valore delle vite dei palestinesi, se si tratta di un massacro o meno, se è un passatempo o un obbligo professionale e di chi è la colpa, se è del governo o dell’esercito.
Inoltre, gli ebrei diagnosticano il nostro dolore meglio di noi, calibrandolo: quanto è lecito soffrire, di chi è lecito avere paura, a che volume urlare, se mai. Inoltre, supervisionano le nostre parole: cosa ci è permesso dire, cosa ci è vietato dire, cosa è appropriato e cosa no.
Chiunque voglia sopravvivere qui deve condire le proprie parole con ciò che gli ebrei vogliono sentire. Deve dire, come la cantante araba israeliana Valerie Hamaty, che ha paura di parlare in arabo per strada e che si spaventa quando sente parlare in arabo. Solo così c’è la possibilità di ricevere qualche briciola.
Incredibile! Hai paura degli arabi proprio come noi (anche se tu non sarai mai come noi, arabo). Guarda un po’, sono gli stessi arabi ad avere paura degli arabi”.
Così stanno le cose. Tutti contro tutti. In Terrasanta domina la paura. Anticamera dell’odio.
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