Il mio 8 marzo pensando alla rivoluzione delle donne iraniane e alle israeliane stuprate dagli uomini di Hamas
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Il mio 8 marzo pensando alla rivoluzione delle donne iraniane e alle israeliane stuprate dagli uomini di Hamas

Le iraniane sono sole, anche l’8 marzo. Eppure l’8 marzo non ricorda solo la tragedia delle operaie cella Cotton bruciate in un incendio nel 1908.

Il mio 8 marzo pensando alla rivoluzione delle donne iraniane e alle israeliane stuprate dagli uomini di Hamas
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Giuliana Sgrena Modifica articolo

8 Marzo 2024 - 11.40


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Le iraniane sono sole, anche l’8 marzo. Eppure l’8 marzo non ricorda solo la tragedia delle operaie cella Cotton bruciate in un incendio nel 1908. In anni più recenti, 8 marzo del 1979, Khomeini ha introdotto l’obbligo del velo per le donne iraniane. 

Per le donne iraniane non si tratta solo di una ritualità priva di contenuti. Dal settembre del 2022, dopo l’uccisione di Masha Amini perché non portava il velo in modo appropriato, le donne sfidano il regime degli ayatollah togliendosi il ciador. Perché il velo non è solo un pezzo di stoffa ma il simbolo dell’oppressione della donna e non solo. «Dopo quasi mezzo secolo gli iraniani hanno capito che non si tratta solo di un fazzoletto ma di una umiliazione reiterata generazione dopo generazione, l’hijab è l’emblema di tutte le violazioni dei diritti umani perpetrate dal governo della Repubblica islamica ai danni delle donne e del popolo intero», così sosteneva un ragazzo che partecipava a una delle manifestazioni guidate dalle donne. Un anno dopo Masha Amini è morta Amita Geravand, sedicenne picchiata a morte in metropolitana perché non portava il velo. Non sono le uniche vittime di un regime che ha sempre fatto dell’oppressione della donna una propria bandiera ideologica. Nonostante le condanne, compresa quella della premio Nobel per la pace Narges Mohammad, la lotta continua, naturalmente con forme diverse come scioperi e boicottando le recenti elezioni. La rivoluzione delle donne iraniane è contro la teocrazia, contro il regime degli ayatollah che nega alle donne la libertà. 

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Questa lotta, in una data per certi versi abusata, non è ricordata e sostenuta negli appelli alle mobilitazioni di movimenti femministi come Non una di meno, o da giornali che dedicano inserti a questa ricorrenza – spaziando tra condizioni delle donne in varie parti del mondo – come il Manifesto.  Non si tratta di una «dimenticanza» ma della difesa del velo come segno di identità e non come simbolo dell’oppressione della donna.

Non c’è dubbio che in questo momento la priorità sia Gaza e la richiesta del cessate il fuoco, per questo dovremmo scendere in piazza tutti i giorni, prima ancora dei diritti delle donne viene il diritto di un popolo a vivere, cosa verrà dopo saranno i palestinesi a deciderlo. Anche se, come mi hanno sempre ribadito le femministe algerine che hanno combattuto per l’indipendenza del loro paese dal colonialismo francese, non si possono rimandare i diritti delle donne al dopo la liberazione perché, come la loro esperienza insegna, sarà più difficile.

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Penso anche che l’8 marzo si dovrebbero citare le violenze sessuali sia quelle commesse da Hamas contro le israeliane come quelle degli israeliani contro le donne palestinesi prigioniere, che ci sono anche se non se ne parla. L’insensibilità di fronte a questi fatti non penso sia dovuto alla fine del femminismo, come sostenuto da Lucetta Scaraffia sulla Stampa, ma perché, in questi casi, lo stupro è considerato un crimine di guerra per umiliare il nemico prima ancora che un’umiliazione per la donna, derubricando così la violenza sessuale a un’arma di guerra.

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