Guerra di Gaza, l'assenza di una strategia politica mascherata dalla forza militare
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Guerra di Gaza, l'assenza di una strategia politica mascherata dalla forza militare

Entrare a Gaza non è un gioco, come stanno a dimostrare i violenti combattimenti in corso da giorni, ma è ancor più complicato uscirne.

Guerra di Gaza, l'assenza di una strategia politica mascherata dalla forza militare
Militare israeliano
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

2 Novembre 2023 - 14.22


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Entrare a Gaza non è un gioco, come stanno a dimostrare i violenti combattimenti in corso da giorni, ma è ancor più complicato uscirne. 

Gli scenari del dopoguerra

A indicarne la problematicità, su Haaretz, è Akiva Eldal. 

Annota Eldal: “nsieme alla profonda incursione delle Forze di Difesa Israeliane nella Striscia di Gaza, crescono le domande sulla strategia di uscita dalla Striscia, un’area che soffre di violenza, povertà e sovraffollamento. La leadership politica e l’esercito prevedono che l’incursione di terra continuerà per molti mesi. E poi?

Dio solo lo sa. In effetti, dopo il disastro impostoci dai nazisti (come il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha definito Hamas), forse Dio si è addormentato ancora una volta nel vegliare sul popolo eletto. 

Non c’è bisogno di disturbare l’Onnipotente. Esistono strategie di uscita da questa guerra maledetta. E forse anche dalla prossima guerra. Tuttavia, al momento della stampa, il piano preparato dal dipartimento di pianificazione politica del Ministero degli Esteri non è stato portato in discussione dalla leadership politica. Forse il motivo per cui è stato ignorato è che il documento richiede un cambiamento di base nel paradigma “nessun partner” (per la pace).

Circa due settimane fa, le migliori menti del dipartimento hanno concluso una discussione professionale sulla strategia di uscita e hanno presentato le loro raccomandazioni al Ministro degli Esteri Eli Cohen. Secondo il sito web del Ministero degli Esteri, il ruolo del dipartimento è quello di “effettuare una valutazione completa della situazione strategica, esaminare il suo significato per Israele, descrivere i possibili scenari e formulare alternative per una politica auspicabile”. 

Di seguito una sintesi del piano così come è venuto a conoscenza di Haaretz: opposizione a un’occupazione prolungata di Gaza e sostegno a passi intermedi, tra cui l’invio di una forza multinazionale per aiutare l’Autorità Palestinese a governare nella Striscia; istituzione di un gruppo di contatto sotto la guida americana per sostenere il piano.

Dopo aver esaminato otto o nove opzioni per il giorno successivo alla rimozione del governo di Hamas, il dipartimento raccomanda di abbandonare la politica di separazione della Cisgiordania da Gaza e di lavorare per un graduale trasferimento del governo all’Autorità Palestinese come rappresentante legittimo e facente funzioni dell’intera popolazione palestinese nei territori. Per garantire una PA stabile e funzionante, Israele deve prepararsi a un coinvolgimento attivo nell’era successiva al presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas. 

In altre parole, gestire/ridurre il conflitto è obsoleto. La dottrina della separazione è superata e l’ignoranza della questione palestinese è finita.

Ma non solo. Il dipartimento individua nell’attuale crisi un’opportunità per tornare al grande piano di normalizzazione delle relazioni dei paesi della regione con Israele, con un’ancora saudita-statunitense, dando maggiore importanza alla componente palestinese. Per evitare fraintendimenti sul significato delle parole “componente palestinese”, il documento raccomanda specificamente di tornare al piano dei due Stati come ancoraggio per la stabilità e una soluzione futura. 

Gli esperti del dipartimento ritengono che tutte le entità regionali che hanno a che fare con Israele, soprattutto gli Stati Uniti, vedano il loro piano come un’opzione preferibile o, in ogni caso, come il minore dei mali. Gli esperti ritengono che queste entità non aspetteranno a lungo che Israele intraprenda la sua strategia di uscita. Gli interessi regionali e globali li costringeranno a fare pressione su Israele affinché adotti i principi del piano.

Le pressioni sono iniziate prima che l’inchiostro si asciugasse sulla versione finale del documento. Il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha concluso il suo toccante discorso in Israele con le parole “Israele sarà uno stato sicuro, protetto, ebraico e democratico. Che Dio protegga tutti coloro che lavorano per la pace”. L’uomo soprannominato dal nostro collega Amir Tibon “il leader sionista più importante del mondo” sa che l’occupazione di milioni di palestinesi è un atto che non è né ebraico né democratico, e quindi nemmeno sionista.

In un paese normale, impantanato in una profonda crisi strategica, il ministro degli Esteri si affretterebbe a invitare gli autori del documento a presentarlo al gabinetto di guerra. Ma il ministro degli Esteri Eli Cohen è impegnato a coltivare le relazioni con i partiti di estrema destra in Europa e a umiliare i funzionari americani.

In assenza di un ampio contesto diplomatico, nessuna entità palestinese, araba o internazionale riempirà il vuoto governativo che si creerà a Gaza. Catastroficamente, la leadership militare sta cercando di combattere a Gaza una terribile guerra d’altri tempi, quella durata 18 anni sul suolo del Libano meridionale. 

In ogni caso, ignorare la valutazione della situazione del Ministero degli Esteri e le sue raccomandazioni è come ignorare la valutazione dell’intelligence militare dell’Idf su una minaccia alla sicurezza e le conclusioni che ne derivano. Ignorarla sarebbe anche per la considerazione della commissione d’inchiesta che indagherà sulla guerra di Gaza del 2023”.

L’assenza di una strategia politica mascherata con la forza

Lucio Caracciolo, direttore di Limes, la più autorevole rivista italiana di geopolitica, e uno dei pochi analisti di politica internazionale che sa di cosa parla e non si è ridotto a caricatura buona per i sempre più insopportabili talkshow televisivi. 

Chi scrive lo ha intervistato non molti giorni fa, per l’Unità. Di seguito alcune parti che permettono di comprendere la portata degli eventi e la difficile exit strategy.

Il 7 ottobre 2023, l’ “11 Settembre d’Israele”, rappresenta davvero uno spartiacque definitivo tra un prima e il dopo per il conflitto israelo-palestinese e il Medio Oriente?
Direi di sì. Ricordiamo il primo spartiacque che è stato il 2005, cioè la cessione della Striscia di Gaza da parte di Sharon ai palestinesi pensando che sarebbe stata l’Autorità nazionale palestinese a governare, d’accordo con Israele, Gaza. In questa ottica, e con tali propositi, sarebbe stato anche un modo per dire al mondo: vedete Israele sa anche aprire ai palestinesi. In realtà davano indietro un qualcosa di ingestibile, come sapeva bene l’Egitto quando, nei colloqui con Begin che portarono alla pace di Camp David tra Israele ed Egitto, Sadat si guardò bene di accollarsi la Striscia di Gaza e i suoi abitanti. Il disegno d’Israele era chiaro da tempo: restituiamo Gaza e nel frattempo congeliamo a tempo indeterminato la questione palestinese, continuiamo a costruire insediamento, anneghiamo nei soldi l’Anp così la teniamo buona, e il problema era risolto…

Invece, professor Caracciolo?
Quello che forse non avevano ben colto era anzitutto che tu non puoi tenere a tempo indeterminato una popolazione in gabbia. Oltre due milioni di persone strette in uno spazio angusto, in quelle condizioni, indipendentemente da qualsiasi credo politico, religioso, ideologico, alla fine quel progetto di contenimento non funziona. Salta. Esplode. In secondo luogo Israele si è troppo affidata alla cosiddetta “manutenzione”….

Vale a dire?
In parole povere, diamo loro lo stretto necessario per sopravvivere senza rompere troppo. Se, come è successo, la rabbia tracima, battono cassa e tirano un po’ di missili, gli mandiamo giù l’ira di dio senza entrare a Gaza e in una settimana o due la questione si risolve. Tutto questo è durato dal 2005-2006 fino al 7 ottobre scorso. La questione vera è capire perché il 7 ottobre è successo quel che è successo.

Quali spiegazioni sono possibili?
Una spiegazione terra-terra, ma con elementi di verità, è che a un certo punto a forza di tirare il meccanismo non funziona più. Seconda lettura, è che qualche meccanismo interno ad Hamas ed esterno – l’Iran o qualche altro attore – ha deciso che bisognava dare un segnale, fra gli altri, a Israeliani e Sauditi che non si avvicinassero troppo e non formalizzassero, perché di questo si tratta e niente di più, una intesa sotterranea, che tutti sanno esistere già da un bel po’ di tempo, tra Israele e il Regno saudita, isolando di più l’Iran.

Quanto c’è dei mesi tumultuosi, di rivolta interna che ha spaccato in due il Paese, alla base, o comunque come elemento non secondario, della clamorosa dèbacle del 7 ottobre?
È una domanda più che giusta che però presuppone il fatto che in realtà, al di là delle divisioni interne ad Hamas, tra quelli che volevano far fuori Israele e quelli che volevano contrattare una sorta di convivenza belligerante ma senza farsi del male in modo definitivo, se pensi che il tuo nemico, Israele, sia entrato in una crisi definitiva, allora probabilmente ad avere la meglio è la fazione che dice: ora o mai più, proviamo a far fuori Israele, o meglio aiutiamo Israele a farsi fuori, perché non è che Hamas può battere Israele, ma Israele può battere Israele. A quel punto qualcuno, interno ed esterno, potrebbe essersi ingolosito e aver pensato che attirando Israele nella trappola di Gaza, alla fine i palestinesi avrebbero messo in crisi Israele. Israele è in una crisi molto seria, lo vediamo da molti segnali anche sul fronte delle forze armate e dell’intelligence. Ricordiamo l’atteggiamento di molti capi militari, e non parliamo di quelli dell’intelligence, durante i mesi, che non sono mai finiti, di contestazione a Netanyahu, anche il fatto che molti riservisti non si sono presentati. Dopo il 7 ottobre c’è stato un adunarsi attorno alla bandiera che però non ha certamente suturato queste ferite. Non dimentichiamo che coloro che in questo momento comandano la guerra contro Hamas in Israele, sono signori che sanno che nel 99% dei casi andranno in pensione il giorno dopo. E questo non aiuta molto nella battaglia.

Sul terreno la situazione evolve di ora in ora. L’invasione di Gaza sembra questione di giorni se non di ore. Qual è la strategia militare d’ Israele?
Una guerra a tre fasi. La prima, in atto dall’8 Ottobre, è spianare con i bombardamenti aerei la Striscia. Più o meno il 35-40% degli edifici di Gaza sono già stati colpiti, ci si augura anche qualche infrastruttura di Hamas. La seconda fase, prevede incursioni, accompagnate da una battaglia in tutte le dimensioni: cyber, spazio, mare.. Gli israeliani entreranno per forza a Gaza, ma non sarà un’operazione di massa. Sarà un’operazione mirata, almeno nelle intenzioni. Mirata, ad esempio, a distruggere i missili, che in prospettiva rappresentano il problema principale per Israele. Arrestare o eliminare alcuni dei capetti, perché i capi che contano se ne sono già andati, di Hamas. Si faranno operazioni di commando rafforzato. Però uno parte con queste idee, ma poi dipenderà da come reagiranno gli altri. Questo sul fronte di Gaza. Ma non va dimenticato che esiste anche il fronte nord, Hezbollah, e anche la Cisgiordania. E poi c’è terza fase, tutt’altro che chiara…

In che senso?
Una volta chi si è entrati, come se ne esce? Gli israeliani sostengono che una volta ripulita Gaza non vogliono più averci a che fare. Il problema, e che problema, è rappresentato da oltre 2 milioni di persone che non possono sparire nel nulla, anche se magari qualcuno può pensare o sperare, che possano finire in Egitto o in Giordania. Tra l’altro l’Egitto e la Giordania sono molto preoccupati dalla possibilità di una “invasione” pacifica di profughi da Gaza e dalla Cisgiordania.

Nel fragore dei combattimenti, la diplomazia internazionale riscopre d’incanto la soluzione “a due Stati”. Ma non è troppo tardi?
Questo riscoprire, in qualche caso sincero, in qualche caso disperato, in qualche altro una presa in giro, è semplicemente la riprova che non c’è la soluzione, sennò l’avremmo già trovata. La questione palestinese può essere gestita ma non può essere risolta. Il problema è che abbiamo portato la gestione, fatta secondo me molto male, al limite del gestibile, e adesso le forze estreme, sia in campo palestinese, che però vale quello che vale cioè molto poco, sia in campo israeliano, che vale invece quasi tutto, ne approfittano per tentare l’impossibile. Da parte israeliana, le ultra destre, i coloni e coloro che li supportano nel governo, sono convinti che sia una buona occasione per chiudere definitivamente la partita con i palestinesi e magari per creare finalmente quel confine orientale d’Israele, che poi sarebbe la Valle del Giordano, e quindi formalizzare un dato di fatto. In campo palestinese non abbiamo riscontri elettorali, perché lì elezioni non si fanno da molto tempo. La mia sensazione è che, almeno in Cisgiordania ma forse un po’ anche a Gaza, una buona parte dei palestinesi, avendo capito che un loro Stato non l’avranno mai, preferirebbero diventare cittadini israeliani con tutti i vantaggi e i diritti che malgrado tutto hanno gli arabi israeliani. Ma questa è una non soluzione perché è evidente che l’”Israstina”, come la chiamava Gheddafi, non piace neanche un po’ allo Stato ebraico.

Il 7 ottobre segna anche la fine di ciò che restava dell’Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen?
No, perché era già morta. Ed è tenuta in vita, in maniera assolutamente artificiale dai soldi nostri, europei, americani, israeliani. Con qualche successo, va detto, perché la vita in Cisgiordania, pur con tutte le persecuzioni, i maltrattamenti e anche le uccisioni, è incomparabilmente migliore a quello che è la vita dei palestinesi a Gaza, lo è sempre stato e lo sarà sempre di più.

La narrazione per cui Hamas è il burattino del “burattinaio” iraniano, che agisce a comando, non è semplicistica?
Certamente lo è. Ha il vantaggio, proprio perché semplicistica, di essere attraente. Le cose sono molto più complicate. In Medio Oriente la realtà non corrisponde mai all’apparenza. Credo che ci siano dei livelli di intese sotterranee, finanziate soprattutto dai paesi del Golfo e in parte anche da altri, tra le forze palestinesi che vanno tenute buone, “addomesticate”, e gli israeliani che devono essere calmati nelle loro intenzioni definitive, sostanzialmente avere la Terrasanta completamente libera da palestinesi. Tutto questo è entrato in crisi ed è quello che mi preoccupa. Io francamente non vedo un’alternativa alla ricostruzione di un tessuto in cui tutti gli attori, le grandi potenze, a cominciare dagli Stati Uniti, globali e regionali, debbano trovare, magari facendosi la faccia feroce, un equilibrio che permetta di ripristinare una qualche forma di convivenza, passando però, questa volta, per una guerra che sarà sanguinosa, lo è già, che darà a questa ipotetica convivenza un volto diverso.

A settembre si è celebrato il trentennale degli Accordi di Oslo-Washington. Con gli occhi dell’oggi, era un fallimento annunciato?
No, perché ognuno intendeva qualcos’altro mentre firmava quegli accordi. Ma alla fine, che fossero Israeliani o Palestinesi, convergevano nella convinzione che una soluzione definitiva e accettabile per entrambe le parti, non fosse possibile. Mentre era non solo accettabile ma necessaria una qualche forma di intesa che permettesse di disinnescare la bomba, magari ottenere anche un bel po’ di quattrini e continuare poi a negoziare a tempo indeterminato qualcosa che non può essere negoziato, cioè la pace tra i due Stati.

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