Migranti, dopo Catania Firenze: giudici coraggiosi contro la disumanità del governo securista
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Migranti, dopo Catania Firenze: giudici coraggiosi contro la disumanità del governo securista

La Tunisia non è un Paese sicuro: non rispetta democrazia, stato di diritto, separazione dei poteri, diritti umani. Dopo il tribunale di Catania, è quello di Firenze ad assestare un colpo ancor più duro a uno dei pilastri della politica sull’immigrazione

Migranti, dopo Catania Firenze: giudici coraggiosi contro la disumanità del governo securista
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

4 Ottobre 2023 - 13.35


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Dopo Catania, Firenze. Giudici contro. Contro un securitarismo illegale oltre che disumano. 

C’è un giudice anche a Firenze

Scrive Giuseppe Salvaggiulo per La Stampa: “La Tunisia non è un Paese sicuro: non rispetta democrazia, stato di diritto, separazione dei poteri, diritti umani. Dopo il tribunale di Catania, è quello di Firenze ad assestare un colpo ancor più duro a uno dei pilastri della politica sull’immigrazione del governo Meloni. Non solo, disapplicando il decreto emanato dopo la strage di Cutro, annulla l’espulsione di un migrante tunisino a cui il Viminale aveva negato lo status di rifugiato. Ma smonta in generale l’appeasement con l’autocrate Saied. 

La vicenda fiorentina nasce da un provvedimento della commissione prefettizia che aveva negato a un tunisino la protezione internazionale richiesta dopo l’approdo in Italia. Considerando la Tunisia un «Paese sicuro», il Viminale può infatti rifiutare le domande di asilo senza una specifica motivazione ed espellere il migrante con «procedura accelerata», senza attendere la pronuncia definitiva della Cassazione. 

La lista dei «Paesi sicuri» viene stilata e aggiornata periodicamente dal governo. La prima risale al 2019. Il governo Meloni l’ha aggiornata e ampliata a marzo, pochi giorni dopo la strage di Cutro. 

Tra i «Paesi sicuri» c’è la Tunisia. Il più strategico nell’emergenza immigrazione, sia per gli sbarchi che per i rimpatri. Tanto che la premier Giorgia Meloni ha sostenuto un Memorandum con finanziamenti per centinaia di milioni di euro. E pochi giorni fa il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha incontrato a Palermo il collega tunisino. 

Ma la Tunisia è ancora un Paese sicuro, come sostiene il governo? No, sostiene il tribunale di Firenze, accogliendo il ricorso del richiedente asilo contro il Viminale e sospendendone pertanto l’espulsione. Il migrante tunisino non si era dichiarato vittima di particolari persecuzioni, ma aveva posto una questione generale: «La grave crisi socioeconomica, sanitaria, idrica e alimentare, nonché l’involuzione autoritaria e la crisi politica in atto sono tali da rendere obsoleta la valutazione di sicurezza compiuta a marzo dal governo italiano». 

Il tribunale di Firenze, da sempre tra i più avanzati in materia di immigrazione, si è posto innanzitutto una questione di competenza. Può un giudice sindacare la valutazione di sicurezza di un Paese fatta dal governo? Risposta: non solo può, «ma deve». Perché è vero che l’Ue consente (non obbliga) di stilare liste di «Paesi sicuri» con regole semplificate e procedure accelerate, ma «il sacrificio dei diritti dei richiedenti asilo non esonera il giudice dal generale obbligo di verifica e motivazione in ordine ai profili di sicurezza del Paese, sia con riferimento al rischio determinato da ragioni peculiari del singolo richiedente, sia in ordine alla sussistenza si violenza indiscriminata prodotto da un conflitto armato interno o internazionale». 

Dunque, la lista non può essere arbitraria o fondata su convenienze politiche, ma deve essere stilata «all’esito di una procedura amministrativa e fondata su informazioni raccolte da fonti qualificate (come Onu e Consiglio d’Europa), e costantemente aggiornate». Ferma la «separazione dei poteri» e senza invadere la sfera politica, al giudice spetta «una garanzia di legalità supplementare» in ossequio a norme internazionali e costituzionali, che prevalgono sui decreti del governo. 

I giudici, quindi, vivisezionano gli atti del governo. «La Tunisia è investita da una grave crisi democratica, con una significativa concentrazione di tutti i poteri in capo al presidente Saied», riconosce la Farnesina. Che però non la considera «sufficiente per escludere il Paese dalla lista di quelli sicuri». Pur riconoscendo che «Saied ha adottato nei mesi scorsi un decreto con cui ha unilateralmente destituito 57 giudici», non trae la conseguenza di «una limitazione dell’indipendenza dei magistrati». 

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Secondo il tribunale, che cita organismi e media internazionali (da Amnesty International al New York Times) la valutazione del governo è anacronistica, alla luce dei «recentissimi e gravi sviluppi». I giudici cacciati da Saied non sono mai stati reintegrati. Due sono stati coinvolti «negli arresti di massa» di febbraio, dunque un mese prima del decreto del governo Meloni. E lo stesso Saied ha affermato – dichiarazione che alla luce delle recenti polemiche italiane suona sinistra – che «qualunque magistrato avesse osato esonerare dalle loro responsabilità gruppi criminali sarebbe stato considerato loro complice». 

Quanto alle elezioni del 2022, valorizzate dal governo Meloni come democratiche anche se ha votato il 9% degli elettori, i giudici fiorentini ricordano che Saied «ha sostituito gli osservatori internazionali con persone di fiducia». E poche settimane fa «la Tunisia ha vietato l’ingresso di una delegazione del Parlamento Europeo». Infine, «ulteriore rilevantissimo profilo», l’Onu ha denunciato «condizioni terribili» cui vengono costretti gli stranieri che chiedono asilo in Tunisia. Si tratta di uno dei motivi di «preoccupazione» che hanno indotto l’Ue a frenare il memorandum voluto dalla premier Meloni. 

Dunque il tribunale disapplica il decreto del governo, e riconosce al migrante «il diritto a permanere sul territorio nazionale». Il decreto ha efficacia solo sul caso concreto, ma le argomentazioni sono generali e destinate a sollevare nuove polemiche. Il governo potrà fare ricorso”.

Il j’accuse dell’arcivescovo

Il memorandum con la Tunisia, lo scontro con la Germania, l’operato della giudice Iolanda Apostolico, le accuse tra partiti in campagna elettorale. Poi un messaggio di circostanza e un atto di accusa fortissimo. C’è tutto questo nel giorno del decennale del naufragio di Lampedusa, quando 368 migranti morirono a pochi metri dalle coste dell’isola siciliana. Un anniversario per cui la premier Giorgia Meloni ha pensato bene di inviare una nota di qualche riga. “Profonda commozione”, “troppe tragedie si sono ripetute”, “nostro dovere porre fine alla strage”, “orrendo business“, “impegno incessante del governo nel nome delle vittime”: parole di circostanza, di lontananza. Di assenza, almeno secondo l’arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice, che ha firmato un intervento durissimo contro l’esecutivo, accusandolo per l’appunto di essere assente in una giornata che rappresenta uno spartiacque nella complessa vicenda di chi perde la vita nel Mediterraneo per raggiungere l’Europa.

Già il titolo dello scritto del monsignore è emblematico del tono usato: “A cuore aperto, sul Mare nostro che si vuole sempre più sbarrare”. Dopo aver ricordato che il dolore non dipende dal ricordo di quei morti, ma dal fatto che nulla è stato fatto per evitare le successive 25mila vittime, Lorefice parla del Mediterraneo come di un mare “che si è fatto muro anziché ponte tra le sponde, che si è fatto cimitero di vite anziché incontro tra le vite”. Un dolore che scaturisce in rabbia “per lo scenario che si apre davanti a noi: è per ciò che sembra destinato ad accadere ancora nei prossimi dieci giorni, dieci mesi, dieci anni”. Poi l’attacco alla politica, mai così duro. Testuale: “Oggi, a Lampedusa, sono assenti i rappresentati del Governo, gli stessi che meno di due settimane fa sono andati lì a snocciolare abusati ed esausti decaloghi di buone intenzioni, in breve tempo tradotti in misure – ha continuato l’arcivescovo di Palermo – che continuano a barricarci in un mondo sempre più piccolo e miope dal quale gli altri devono essere tenuti fuori, allontananti, respinti. In una parola, per molti di loro: semplicemente condannati a morte“.

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E ancora: “I rappresentanti del governo, anziché essere a Lampedusa a occuparsi del destino di migliaia di persone in mare e dall’altra parte del mare – ha rimarcato Lorefice – preferiscono occuparsi di una persona sola: un giudice di Catania che ha fatto il suo lavoro secondo la legge e secondo coscienza, considerando illegittime quelle previsioni del Decreto Cutro che violano sia le norme europee sia innanzitutto la nostra Costituzione”. A seguire il ricordo di don Pino Puglisi, “che se fosse stato ancora oggi tra noi lui sarebbe adesso proprio lì, sul molo di Lampedusa”. Infine l’esortazione: “Come farebbe Don Pino, tutti noi dobbiamo sentirci oggi chiamati su quel molo, ancora una volta non per vuote celebrazioni di strazianti anniversari, ma per assumere un impegno che è di ordine umano ed etico, prima ancora che sociale e politico”. Perché “i migranti vanno accolti, protetti o accompagnati, promossi e integrati’, come ci ha appena esortato Papa Francesco a Marsiglia”.

Per non dimenticare

Annota Matteo de Bellis, ricercatore di Amnesty International su migrazione e asilo. “Erano circa 500, uomini, donne e bambini ammassati su un peschereccio in avaria a pochi metri dalla terraferma e dalla salvezza. In maggioranza eritrei, avevano intrapreso una pericolosa traversata del Mediterraneo per fuggire dalla Libia. In una notte senza luna, qualcuno a bordo accese una torcia improvvisata, per richiamare attenzione. Le fiamme si propagarono subito sul ponte, a causa della presenza di benzina. Per evitarle, i passeggeri nel panico si spostarono sull’altro lato dell’imbarcazione, che si capovolse.

Il 3 ottobre 2013, di fronte all’isola di Lampedusa morirono almeno 368 persone.

Quando arrivarono, i soccorritori trovarono davanti a loro un mare di corpi. Le immagini delle bare, molte delle quali di piccole dimensioni e di colore bianco, allineate all’interno dell’aeroporto di Lampedusa, scioccarono il mondo e scossero la coscienza dell’Europa. In una delle bare c’erano una donna e suo figlio, appena nato, ancora uniti dal cordone ombelicale.

Solo otto giorni dopo, tra la Libia e Lampedusa, si rovesciò un’altra imbarcazione. A bordo erano in maggior parte rifugiati siriani, molti dei quali medici in fuga dal conflitto insieme alle loro famiglie. Delle 268 vittime del naufragio, 60 erano bambini. Quella tragedia divenne nota come “il naufragio dei bambini”. Col cuore a pezzi, alcuni dei genitori sopravvissuti hanno continuato a cercare i loro figli per anni.

Oltre al dolore, c’era anche la consapevolezza che quelle morti avrebbero potuto essere evitate. Le autorità italiane avevano impedito a una nave di aiutare le persone in difficoltà per non farle approdare in Italia. I ritardi nei soccorsi contribuirono alla morte di così tante persone.

L’annegamento di oltre 600 persone in pochi giorni nel Mediterraneo centrale avrebbe dovuto far provare vergogna all’Europa e spingere gli stati membri ad agire per impedire ulteriori perdite di vite umane. L’Italia avviò l’operazione “Mare nostrum”, che tuttavia durò solo un anno. Poi, l’Unione europea decise di dedicarsi prevalentemente a fornire assistenza alla cosiddetta Guardia costiera libica nell’intercettamento di migranti e richiedenti partiti dalla Libia per, una volta riportati a terra, sottoporli a detenzioni arbitrarie, torture e stupri.

Dieci anni dopo, la risposta dell’Unione europea a chi prende il mare per cercare salvezza è ancora la stessa: mancanza di azione, apatia, ostilità.

In assenza di una missione navale diretta dagli stati e finalizzata al salvataggio di vite umane nel Mediterraneo, le iniziative volontarie di ricerca e soccorso in mare sono continuamente ostacolate dai governi. Non c’è accordo su dove le persone sopravvissute debbano approdare e su come condividere le responsabilità per la loro assistenza tra gli stati membri dell’Unione europea. Non c’è alcun serio tentativo di creare percorsi legali e sicuri.

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Nelle settimane scorse a Lampedusa sono arrivate alcune migliaia di persone, causando il temporaneo sovraffollamento della piccola struttura di assistenza operativa sull’isola. Anche se gli arrivi, nel 2023, sono aumentati, si tratta di numeri gestibili. Sono l’assenza di una missione navale proattiva di ricerca e soccorso – che consentirebbe di distribuire gli approdi in più porti – e la mancanza di investimenti nel sistema d’accoglienza a creare situazioni del genere.

Stando così le cose, il rischio di ulteriori tragedie resta molto alto. Quest’anno nel Mediterraneo centrale hanno perso la vita almeno 2093 persone. Secondo l’Organizzazione internazionale delle migrazioni, negli ultimi dieci anni lungo la stessa rotta i morti sono stati almeno 22.341.

Nel febbraio 2023 un’imbarcazione si è arenata su una secca e si è capovolta davanti alla spiaggia di Cutro: sono morte almeno 94 persone. Le indagini sulle cause del naufragio sono in corso ma le autorità sapevano che l’imbarcazione era in pericolo col mare mosso e non inviarono guardiacoste per soccorrere le persone a bordo.

A giugno, un peschereccio visibilmente sovraffollato con a bordo circa 750 persone è rimasto privo di soccorsi per 15 ore prima di capovolgersi al largo della costa di Pylos, in Grecia. I morti sono stati oltre 600, tra cui molti bambini. Molti di loro venivano dalla Siria, dal Pakistan e dall’Egitto: fuggivano per salvarsi la vita o raggiungere le loro famiglie in Europa. Nonostante la smentita delle autorità greche, le testimonianze dei sopravvissuti sono state concordi nel denunciare che una barca della Guardia costiera greca aveva legato una corda al peschereccio e aveva iniziato a trainarlo, causandone l’ondeggiamento e poi il capovolgimento.

In queste e altre situazioni le persone avrebbero potuto essere salvate, se solo le autorità avessero agito in linea coi loro obblighi in materia di ricerca e soccorso in mare e col dovere di proteggere la vita e la dignità delle persone e se solo i governi europei avessero messo percorsi legali e sicuri a disposizione di persone in fuga da situazioni disperate, che dunque avrebbero potuto viaggiare in modo sicuro anziché a bordo di imbarcazioni sovraffollate e pericolose.

Nonostante gli impegni a smantellare le operazioni dei trafficanti, i leader e le leader europei non attuano mai l’unico provvedimento che potrebbe mettere fuori gioco le reti criminali: un numero adeguato di visti, compresi i visti umanitari per le persone in fuga da guerre e persecuzioni e dunque bisognose di protezione internazionale.

Vari vertici europei hanno promesso “partenariato” e “sviluppo”, in particolare verso gli stati africani. Ma in realtà gli aiuti finanziari sono destinati sempre di più ai programmi di controllo delle frontiere. Tutto ciò rafforza la dipendenza dell’Europa da regimi autoritari più che risolvere le profonde ineguaglianze che spingono le persone a cercare salvezza e opportunità lontano dai luoghi in cui sono nate.

Sappiamo bene che quando c’è la volontà politica – come nel caso delle persone in fuga dall’Ucraina – l’Europa è in grado di affrontare enormi sfide umanitarie e dare assistenza a milioni di persone in modo umano.

I fantasmi delle tragedie del passato sono ancora lì, a ricordarci le conseguenze delle politiche di esclusione egoiste, inumane e razziste. Ma, se non ci gireremo dall’altra parte, le soluzioni sono alla nostra portata”.

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