Iran: una guerra mortale contro i poveri con i boia di stato
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Iran: una guerra mortale contro i poveri con i boia di stato

Dall’inizio del 2023 le autorità iraniane hanno messo a morte, sempre a seguito di processi iniqui, almeno 173 prigionieri per reati di droga, quasi il triplo rispetto al numero del 2022.

Iran: una guerra mortale contro i poveri con i boia di stato
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

3 Giugno 2023 - 17.29


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Iran, una guerra mortale contro i poveri. Con i boia di Stato.

Il Rapporto di Amnesty International

 “Dall’inizio del 2023 le autorità iraniane hanno messo a morte, sempre a seguito di processi iniqui, almeno 173 prigionieri per reati di droga, quasi il triplo rispetto al numero del 2022.

Lo ha denunciato Amnesty International, evidenziando che le esecuzioni per reati di droga nei primi cinque mesi del 2023 hanno rappresentato due terzi del totale delle impiccagioni e hanno riguardato per lo più persone provenienti da ambienti marginalizzati ed economicamente svantaggiati. I prigionieri dell’etnia baluci, perseguitata e impoverita, costituiscono circa il 20 per cento dei condannati a morte, mentre rappresentano solo il cinque per cento della popolazione dell’Iran.

“La vergognosa velocità con cui le autorità iraniane eseguono condanne a morte per reati di droga, in violazione del diritto internazionale, mostra la loro mancanza di umanità e il loro profondo disprezzo per il diritto alla vita. La comunità internazionale deve assicurare che la cooperazione nelle iniziative contro il traffico di droga non contribuisca, direttamente o indirettamente, all’arbitraria privazione della vita e ad altre violazioni dei diritti umani in Iran”, ha dichiarato Diana Eltahawy, vicedirettrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord.

“Gli stati e gli organismi intergovernativi devono condannare le autorità iraniane, nel modo più assoluto, per queste esecuzioni arbitrarie, chiedere una moratoria ufficiale su tutte le esecuzioni, inviare propri rappresentanti a visitare i condannati a morte e richiedere di assistere ai processi per reati capitali. Data la crisi d’impunità per queste esecuzioni arbitrarie e di massa, devono anche cercare modi efficaci per l’accertamento giudiziario delle responsabilità”, ha proseguito Eltahawy.

Nel 2023 sono aumentate significativamente anche le esecuzioni nel loro complesso: finora, almeno 282, quasi il doppio del numero delle esecuzioni registrate all’inizio di giugno del 2022. Se questo allarmante andamento dovesse proseguire, alla fine dell’anno le esecuzioni potrebbero essere quasi un migliaio.

Una guerra mortale contro i poveri

La pena di morte colpisce prevalentemente le persone povere e vulnerabili, spesso non consce dei propri diritti e non in grado di coprire i costi di una difesa indipendente. Le famiglie dei prigionieri messi a morte patiscono le gravi conseguenze economiche derivanti dalla perdita dei percettori di debito e s’indebitano pesantemente per pagare le spese legali.

Un parente di una prigioniera nel braccio della morte, unica percettrice di reddito della famiglia prima dell’arresto, ha raccontato ad Amnesty International:

“Non ha mai incontrato l’avvocato nominato dal tribunale. Lui ha ingannato la famiglia, promettendo che la condanna a morte sarebbe stata annullata in cambio di una parcella esorbitante. Hanno venduto tutto quello che possedevano, persino il gregge. Lui ha preso i soldi ed è scomparso, lasciando la famiglia in un mare di debiti”.

Queste sono le parole del figlio adolescente di un prigioniero messo a morte per reati di droga:

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“Dovrei preoccuparmi per gli esami, come gli altri, invece di andare a lavorare. Il mio salario non basta alla mia famiglia a causa di tutti i debiti che abbiamo. Non ho neanche il denaro sufficiente per iscrivermi a scuola il prossimo anno. Se mio padre non fosse stato messo a morte, ora potrei pensare al mio futuro e non a come rimediare denaro per la mia famiglia”.

Le esecuzioni per reati di droga sono precedute da indagini approssimative da parte del reparto anti-narcotici della polizia e di altri organismi di sicurezza. I processi si svolgono di fronte ai tribunali rivoluzionari e risultano sistematicamente irregolari: ai detenuti viene negato il diritto a un processo equo, non c’è accesso alla rappresentanza legale e le “confessioni” estorte con la tortura sono usate come prove per emettere la condanna a morte.

Un prigioniero nel braccio della morte ha detto ad Amnesty International: “I giudici del tribunale rivoluzionario chiedono se la droga è tua, che tu risponda sì o no non fa alcuna differenza. Il giudice del mio processo mi ha detto di stare calmo quando ho risposto che la droga non era mia. Ha pronunciato la condanna a morte e mi ha ordinato di firmare un documento di accettazione. Non ha neanche consentito al mio avvocato di prendere la parola”.

Un’ondata ben più ampia di esecuzioni

Dal Rapporto di Amnesty International: “Le autorità iraniane hanno messo a morte prigionieri per altri atti che, in base al diritto internazionale, non dovrebbero mai comportare la pena capitale.

Nei primi cinque mesi del 2023 cinque uomini sono state impiccate in relazione alle proteste, uno per “adulterio” dopo che aveva avuto una relazione sessuale consensuale con una donna sposata e altri due per attività sui social media che sono costate loro le accuse di “apostasia” e “offesa al profeta dell’Islam”.

Le forze di sicurezza aggravano l’angoscia delle famiglie dei prigionieri stroncando violentemente, con proiettili veri e gas lacrimogeni, le proteste pacifiche di fronte alle prigioni dove sono previste le esecuzioni dei loro cari.

Amnesty International si oppone alla pena di morte in tutti i casi e senza eccezioni, a prescindere dalla natura o dalla circostanza del reato, dalla colpevolezza, dall’innocenza o da altre caratteristiche dell’imputato o dal metodo usato dallo stato per eseguire una condanna a morte. La pena di morte viola il diritto alla vita ed è l’estrema pena crudele, inumana e degradante.

Nel 2022 l’Iran è risultato al secondo posto nel mondo per numero di esecuzioni, dopo la Cina”.

A fianco di Niloofar e Elaheh

Così Parisa Nazari per La Stampa: “A chi mi chiede a che punto sia la notte in Iran porto l’esempio di Niloofar Hamedi e Elaheh Mohammadi, le due giornaliste rinchiuse in carcere dalla fine di settembre per aver raccontato sui rispettivi giornali la storia di Mahsa Amini, portandola di fatto all’attenzione del mondo. Per capire il significato politico del caso, di cui mi occupo sin dall’inizio cercando di sensibilizzare l’opinione pubblica italiana, basti pensare che è finito alcuni mesi fa nelle comunicazioni ufficiali dell’intelligence di Teheran come emblema della minaccia incombente sul Paese. Le due donne, entrambe poco più che trentenni, sono accusate, secondo quanto ricostruito da Reporter senza frontiere, di “collaborazione con governi ostili, cospirazione e collusione contro la sicurezza nazionale e propaganda anti establishment”. La pena prevista è l’ergastolo ma, sostiene sempre Rsf, se gli inquirenti confermassero il reato di “spionaggio” rischierebbero l’impiccagione. 

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Niloofar e Elaheh sono donne, sono attiviste, sono giornaliste, sono la parte della società che poco alla volta ha tolto la terra sotto i piedi del regime: sono la sua spina nel fianco. Mi diceva nei giorni scorsi Riccardo Noury di Amnesty International che la Repubblica Islamica d’Iran è l’unico Paese in cui se devi citare dieci militanti vivi trovi dieci donne. E’ una lotta che parte da lontano, che scava, carsica, sotto la routine quotidiana, ma che negli ultimi anni i social network hanno portato a galla. 

A quasi un anno dall’inizio della rivoluzione la repressione si è fatta incalzante. Dietro al messaggio spaventoso delle cariche in strada c’è quello, neppure troppo sotteso, agli organi d’informazione, ai giornalisti, a chi, raccontando, impedisce l’isolamento internazionale e dunque la condanna al silenzio del popolo iraniano. Niloufar, prigioniera a Evin, è imputata anche per aver scattato e pubblicato su “Sharq” la foto di Mahsa Amini morta in ospedale, un’immagine diffusa in realtà dalla famiglia. Mentre Elaheh, rinchiusa nel penitenziario di Qarchak, paga per la cronaca su “Hammihan” del funerale di Mahsa a Saqqez, nel Kurdistan occidentale, laddove risuonò per la prima volta lo slogan “Donna, vita, libertà”. Accuse che sono simboli, marcatori, come i colpi sparati dalla polizia agli occhi di chi protesta. 

Il bersaglio è donna ma non è solo donna. Le donne iraniane in prima linea sin dal principio coinvolgono anche perché sono giovani, belle, coraggiose. Eppure sarebbe un grave errore dimenticare gli uomini che le affiancano, quelli più a rischio, quelli le cui sentenze capitali vengono eseguite davvero. Dieci ragazzi sono stati impiccati dall’inizio delle proteste dopo presunte confessioni estorte con la tortura e un altro, Mohammad Ghobadloo, aspetta nel braccio della morte l’esecuzione annunciata come imminente. Mohammad è un ragazzo di soli 22 anni e soffre di disturbo bipolare. 

La situazione è pesante, l’attenzione del mondo è calata, le manifestazioni non ci sono quasi più e d’altra parte sarebbe stato difficile tenere le barricate in strada per nove mesi. Ma la protesta resiste, ha cambiato natura. Tanto per cominciare non si vede in giro neppure l’ombra di una contro-manifestazione, segno che ormai è impossibile per gli ayatollah trascinare in piazza le truppe cammellate minacciando ritorsioni: la società non li segue più al punto che durante l’ultimo corteo filogovernativo il quotidiano di Stato “Rooyesh Mellat” è stato costretto a ritoccare le immagini con Photoshop per camuffare la scarsa partecipazione. La geopolitica della nuova alleanza anti-occidentale con Mosca e l’ex nemica Riad gonfia la retorica ma non riesce a coprire le voci che cominciano a levarsi anche dentro alla maggioranza. E poi le donne, ancora loro, la spina nel fianco, l’icona del rifiuto. Anche se la prima udienza contro Niloofar Hamedi e Elaheh Mohammadi si è conclusa senza difesa, senza testimoni, al buio, anche se sono molto in ansia so che camminiamo. Due mesi fa un ufficiale della sicurezza nazionale ha ammesso che ci sono ormai milioni di donne senza velo in Iran e che non è possibile arrestarle tutte: uno squarcio nel buio, il regime non ha alcuna possibilità di vincere contro le sue donne e contro gli uomini che le sostengono. Non si vedono più i cortei di ottobre, novembre e dicembre ma il NO è germogliato, si è fatto corposo, è quotidiano. E non c’è bavaglio che tenga: “Donna, vita, libertà”.

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Fuoco sui manifestanti

Le forze di sicurezza iraniane hanno ferito diverse persone aprendo il fuoco su manifestanti che protestavano per la morte di uno studente poco dopo la sua liberazione. Lo riferiscono gruppi di difesa dei diritti umani. Le manifestazioni hanno avuto luogo giovedì sera ad Abdanan nella provincia occidentale di Ilam, a maggioranza curda. Lo hanno dichiarato tra gli altri il gruppo Hengaw con sede in Norvegia e la Rete dei diritti dell’uomo del Kurdistan con sede in Francia.

Le persone erano scese in piazza per esprimere la propria rabbia dopo la morte di Bamshad Soleimankhani, 21 anni, appena qualche giorno dopo il suo rilascio. Immagini di Hengaw mostrano persone che sfilano in strada mentre si possono sentire i rumori degli spari e vedere alcune persone ferite dai colpi. Non è stato possibile accertare la veridicità delle immagini.

Hengaw ha dichiarato che 25 persone sono rimaste ferite. Soleimankhani, secondo notizie raccolte dalle organizzazioni, aveva la bava alla bocca all’uscita dal carcere ed è stato trasportato in ospedale dove i medici gli hanno riscontrato fratture multiple e bruciature di sigarette. Non è stato chiarito con precisione per quali motivi e quando lo studente fosse stato arrestato.

La mattanza continua. 

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