Palestina, un popolo imprigionato
Top

Palestina, un popolo imprigionato

n occasione della Giornata Internazionale dei Prigionieri Palestinesi, le associazioni che si occupano dei loro diritti hanno fatto sapere che, se nel corso delle ultime cinque decadi le forze israeliane hanno detenuto più di 800.000 palestinesi

Palestina, un popolo imprigionato
Bombe israeliane contro i palestinesi di Gaza
Preroll

Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

5 Maggio 2023 - 19.44


ATF

Palestina, un popolo imprigionato. 

La Giornata Internazionale dei Prigionieri Palestinesi 

Dalla news letter dell’Ambasciata di Palestina in Italia.

In occasione della Giornata Internazionale dei Prigionieri Palestinesi, le associazioni che si occupano dei loro diritti hanno fatto sapere che, se nel corso delle ultime cinque decadi le forze di occupazione israeliane hanno detenuto più di 800.000 palestinesi, al momento sono circa 5.000 i cittadini della Palestina incarcerati in Israele. Tra di loro vi sono 31 donne e 160 minori, compresa una ragazza. Si tratta, per almeno 1.000 di questi casi, di detenzioni amministrative senza capo di accusa né processo, utilizzate anche per sei minorenni e due donne. 

La Commissione per gli Affari dei Prigionieri e degli Ex-Detenuti, la Società dei Prigionieri Palestinesi, l’Associazione Addameer per i Diritti Umani e il Sostegno ai Prigionieri, e il Centro d’Informazione Wadi Hilweh di Gerusalemme lo hanno scritto nel loro Rapporto congiunto, sottolineando che 23 degli attuali detenuti sono stati arrestati prima della firma degli Accordi di Oslo nel 1993. Il più anziano di loro, Mohammad Al- Tous, è in prigione dal 1985. Ve ne sono poi 11 rilasciati in uno scambio di prigionieri del 2011 e poi nuovamente arrestati nel 2014, tra cui spicca il nome di Nael Barghouti, considerato il prigioniero più longevo, con 43 anni dietro le sbarre di cui 34 consecutivi.
Altri 400 detenuti sono in prigione da oltre 20 anni, mentre in 554 stanno scontando più ergastoli come Abdullah Barghouti, condannato a ben 67 ergastoli. 

Non soddisfatte di distruggere la vita a tutte queste persone, le autorità di occupazione israeliane detengono anche i corpi di 12 palestinesi che la vita l’hanno già persa in prigione; come rischiano di perderla i 700 prigionieri malati e mal curati dalle autorità carcerarie, tra cui se ne contano 24 colpiti dal cancro come Walid Daqqa, in carcere da 37 anni. 

Per non dimenticare nessuno di questi prigionieri, diverse manifestazioni si sono tenute nella maggior parte delle città della Cisgiordania e di Gaza, durante le quali è stata richiesta la loro liberazione, a cominciare da quella di anziani, donne, minori e ammalati.

La storia di Khader Adnan

E’ in questo contesto che si colloca il dramma di un padre di 9 figli, Khader Adnan, morto il 2 maggio a 44 anni dopo 86 giorni di sciopero della fame per protestare contro la propria detenzione “amministrativa”, iniziata il 5 febbraio scorso. Non era la prima volta che Adnan veniva arrestato senza nemmeno un pretesto, era la dodicesima; né era la prima volta che sopportava uno sciopero della fame, era la sesta, rivelatasi fatale a causa della crudeltà delle forze di occupazione. 

Adnan si era laureato nel 2001 in Matematica applicata all’Economia presso l’Università di Birzeit. Aveva cercato di ottenere la specialistica, ma Israele, arrestandolo, glielo aveva impedito. Come gli aveva impedito, continuando ad arrestarlo nel tempo, di ottenere un lavoro nel suo campo di studi. Per questo Adnan aveva deciso di aprire un piccolo panificio nella sua città natale, Arraba. 

Leggi anche:  Gaza tradita, gli impegni mancati del G7

La sua unica colpa è quella di essere sempre stato vicino alle famiglie dei martiri e dei prigionieri palestinesi, che visitava spesso. La verità è che Adnan era molto popolare e per questo dava fastidio a Israele. 

E’ lui il primo prigioniero a morire durante uno sciopero individuale. Dal 1970 ne sono morti altri sei, ma tutti durante scioperi della fame collettivi. Con la morte di Adnan, i prigionieri palestinesi morti nelle carceri israeliane dal 1967 a oggi diventano 236, di cui 75 per negligenza medica. “L’occupazione israeliana e la sua amministrazione carceraria hanno compiuto un assassinio deliberato contro il prigioniero Khader Adnan, respingendo la sua richiesta di rilascio, trascurandolo dal punto di vista medico e tenendolo in cella nonostante la gravità delle sue condizioni di salute”, ha subito affermato il Primo Ministro palestinese Mohammad Shtayyeh; mentre il Ministero degli Esteri e degli Espatriati ha ricordato come Israele abbia già usato la detenzione amministrativa per imprigionare più di 52.000 palestinesi in questi 56 anni di occupazione illegale, e ha richiesto un’indagine internazionale sulla morte di Adnan. 

Non sorprende che lo stesso 2 maggio tutti i Territori Palestinesi Occupati abbiano osservato uno sciopero generale in segno di lutto e di protesta. Sorprende, perché non ci si può rassegnare a tanta ingiustizia, che il giorno dopo le forze di occupazione abbiano voluto dare dimostrazione del proprio disprezzo per i prigionieri palestinesi, andando a distruggere la casa di uno di loro, il diciannovenne Younes Hilan residente nel villaggio di Hajja, in Cisgiordania, detenuto dallo scorso mese di ottobre. 

La marcia dei coloni 

Ad aprile, migliaia di coloni israeliani, accompagnati da sette ministri del governo Netanyahu, hanno marciato in Cisgiordania verso l’avamposto di Evyatar – illegale per la stessa legge di Israele – a sostegno dell’ampliamento degli insediamenti nei Territori Palestinesi Occupati. 

L’esercito israeliano ha sgomberato con gas lacrimogeni e granate stordenti i palestinesi che giustamente protestavano contro la marcia nel vicino villaggio di Beita. La Mezzaluna Rossa ha fatto sapere che ben 191 di loro sono rimasti per questo feriti.
La questione degli insediamenti ebraici nei Territori Palestinesi è cruciale nell’ impedire la ripresa di un dialogo fra le parti, poiché vieta di fatto la creazione di un futuro Stato palestinese. Ricordiamo che anche l’Unione Europea, le Nazioni Unite e gli Stati Uniti hanno più volte stigmatizzato l’autorizzazione di nuove colonie ebraiche in Cisgiordania, senza tuttavia prendere alcuna misura concreta al riguardo. E’ così che le colonie continuano ad espandersi e i coloni continuano ad uccidere. Il corpo di Abdal Kareem Badee Al-Sheikh, di anni 21, ucciso da un colono lo scorso 10 marzo, è stato restituito alla famiglia solo il 4 maggio. 

Leggi anche:  L'esercito israeliano ha partecipato agli attacchi ai coloni di Cisgiordania

Riconoscere per discriminare 

Martedì 2 maggio Amnesty International ha affermato che le autorità israeliane stanno utilizzando la tecnologia di riconoscimento facciale per consolidare il proprio regime di Apartheid e proseguire con il dominio e l’oppressione dei palestinesi nei Territori Occupati.
In un Rapporto intitolato “Apartheid automatizzato: Come il riconoscimento facciale frammenta, segrega e controlla i palestinesi nei Territori Occupati”, Amnesty documenta che le autorità di occupazione stanno usando contro i palestinesi sofisticati strumenti di sorveglianza illegale basati sull’intelligenza artificiale, tra cui spicca il Red Wolf, l’ultimo sperimentato. 

L’organizzazione ha spiegato che le autorità israeliane utilizzano questo nuovo sistema di riconoscimento facciale per tracciare i palestinesi e automatizzare dure restrizioni alla loro libertà di movimento, aggiungendo che Red Wolf fa parte di una rete di sorveglianza in continua crescita, che aumenta il controllo del governo israeliano sui palestinesi. Red Wolf, ad esempio, è impiegato ai posti di blocco militari della città di Hebron, nella Cisgiordania occupata, dove scansiona i volti dei palestinesi e li aggiunge a vasti database di sorveglianza senza il loro consenso. 

Amnesty ha anche documentato come sia aumentato l’uso da parte di Israele della tecnologia di riconoscimento nella Gerusalemme Est Occupata, specialmente sulla scia delle proteste e nelle aree intorno agli insediamenti coloniali illegali. Sia a Hebron che a Gerusalemme Est, città letteralmente invase dai coloni, la tecnologia di riconoscimento facciale si avvale di una fitta rete di telecamere a circuito chiuso (Cctv) per tenere i palestinesi sotto costante osservazione. Secondo la nota organizzazione per i diritti umani, “l’Apartheid automatizzato mostra come questa sorveglianza sia parte di un deliberato tentativo da parte delle autorità israeliane di creare un ambiente ostile e coercitivo per i palestinesi, con l’obiettivo di minimizzare la loro presenza in aree strategiche”. Agnès Callamard, Segretaria Generale di Amnesty International, ha sottolineato come l’utilizzo di Red Wolf a Hebron “stia rafforzando le restrizioni draconiane alla libertà di movimento dei palestinesi, utilizzando dati biometrici acquisiti illegittimamente per monitorare e controllare i palestinesi in giro per la città”, aggiungendo che i residenti di questa città e di Gerusalemme Est “hanno raccontato come le onnipresenti telecamere di sorveglianza abbiano invaso la loro privacy, represso il loro attivismo ed eroso la loro vita sociale, lasciandoli costantemente esposti”. Così, “oltre alla costante minaccia di un’eccessiva forza fisica e di arresti arbitrari, i palestinesi devono ora affrontare il rischio di essere rintracciati da un algoritmo che impedisce loro di entrare nel proprio quartiere sulla base di informazioni archiviate in database discriminatori. Questa è l’ultima dimostrazione di come la tecnologia di riconoscimento facciale, se utilizzata per la sorveglianza, sia incompatibile con i diritti umani”.
Alla luce di questo Rapporto, frutto di una ricerca sul campo svolta nel 2022 che comprende testimonianze di militari israeliani raccolte dall’organizzazione non governativa Breaking the Silence, fondata nel 2004 da veterani delle forze israeliane, Amnesty ha invitato Israele a porre fine alla sorveglianza di massa dei palestinesi e a revocare le restrizioni arbitrarie imposte alla libertà di movimento dei palestinesi nei Territori Occupati, come passi necessari per lo smantellamento dell’Apartheid. 

Leggi anche:  Passover di guerra, le sette "piaghe" di Netanyahu

Aiuti europei 

A metà aprile, l’Unione Europea, la Francia e la Spagna hanno stanziato 26,3 milioni di euro per il pagamento degli assegni sociali a beneficio di 70.108 delle 106.596 famiglie palestinesi vulnerabili. Le restanti 36.488 famiglie saranno coperte dal bilancio del governo palestinese. Una dichiarazione dell’ufficio dell’Unione Europea a Gerusalemme ha affermato che l’UE, per sostenere il Ministero dello Sviluppo Sociale dell’Autorità Nazionale Palestinese, ha più che raddoppiato il suo consueto contributo finanziario, anche grazie agli 8 milioni stanziati dalla Francia e al milione e mezzo fornito dalla Spagna. 

“La protezione sociale rappresenta una priorità e un diritto umano fondamentale che dovrebbe essere mantenuto e protetto dai governi di tutto il mondo. In Palestina, i Partner Europei per lo Sviluppo hanno aiutato l’Autorità Nazionale a creare il proprio sistema di protezione sociale, che include un Programma di Trasferimento di Denaro a sostegno dei più poveri e dei più vulnerabili. Questo programma sta attualmente affrontando sfide senza precedenti a causa della prolungata crisi fiscale dell’Autorità Palestinese. Questo contributo, cofinanziato da Spagna e Francia, dimostra ancora una volta il nostro impegno comune a livello europeo nei confronti del popolo palestinese, affinché il pagamento delle indennità sociali attraverso questo Programma sia affidabile e puntuale”, ha affermato la Vice Rappresentante dell’UE in Palestina, Maria Velasco. 

 “In questi tempi difficili, la Francia è orgogliosa di sostenere il governo palestinese nel rispondere ai bisogni della sua popolazione attraverso assegni sociali per i più vulnerabili. Anche grazie al nostro contributo, molte famiglie palestinesi povere e vulnerabili riceveranno il sostegno necessario dal loro Ministero dello Sviluppo Sociale. Questo sostegno è fondamentale per aiutare a ridurre la povertà e mitigare la crisi socio-economica in Palestina”, ha dichiarato il Capo della Cooperazione francese a Gerusalemme, Guillaume Robert.
“Per molti anni, la Spagna ha fornito un sostegno affidabile al governo palestinese, su cui poter contare per la fornitura di servizi pubblici essenziali alla popolazione palestinese, garantendone la titolarità e contribuendo alla riduzione di una povertà multidimensionale. Quest’anno il nostro sostegno si è concentrato sulla risposta ai bisogni delle famiglie vulnerabili individuati come più urgenti dal Ministero dello Sviluppo Sociale, attraverso sussidi all’assistenza sociale”, ha aggiunto il Capo della Cooperazione spagnola in Palestina, Ventura Rodríguez García”.

E l’Italia? Non pervenuta. La presidente del Consiglio è troppo impegnata nell’accreditarsi agli occhi del governo più di destra che lo Stato d’Israele ha avuto nei suoi 75 anni di vita. 

Native

Articoli correlati