Libia-Sudan, l'alleanza dei signori della guerra: da Haftar a Dagalo tramite il gruppo Wagner
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Libia-Sudan, l'alleanza dei signori della guerra: da Haftar a Dagalo tramite il gruppo Wagner

Da mesi Khalifa Haftar aiutava le Forze di sostegno rapido (Rsf) del generale golpista sudanese Mohamed Hamdan Dagalo, alias Hemedti, alla battaglia contro l'esercito di Abdel Fattah al-Burhan

Libia-Sudan, l'alleanza dei signori della guerra: da Haftar a Dagalo tramite il gruppo Wagner
Mohamed Hamdan Dagalo capo delle forze paramilitari del Sudan
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

24 Aprile 2023 - 18.28


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A mettere insieme i tasselli di questa trama è l’Observer, in una inchiesta ripresa in Italia da Adnkronos.

“Da mesi Khalifa Haftar aiutava le Forze di sostegno rapido (Rsf) del generale golpista sudanese Mohamed Hamdan Dagalo, alias Hemedti, alla battaglia contro l’esercito di Abdel Fattah al-Burhan, presidente del Consiglio sovrano di transizione, esplosa il 15 aprile scorso in tutta la sua violenza.

Lo rivela il britannico The Observer, citando ex funzionari e comandanti militari in Sudan e nel Regno Unito, secondo cui il coinvolgimento del leader dell’est della Libia accrescerebbe il rischio di un conflitto di lunga durata, alimentato da interessi di attori esterni, come la Wagner, che rappresenta una sorta di anello di collegamento tra Haftar e Hemedti, entrambi sostenuti dai mercenari russi. Gli analisti parlano di “uno scenario da incubo”, con più attori e potenze regionali impegnati in una guerra per procura in Sudan, uno dei Paesi africani più grandi e cruciali per gli equilibri di quell’area. Secondo le fonti sentite dal settimanale britannico, Haftar avrebbe passato cruciali informazioni di intelligence a Hemedti, arrestato i suoi nemici, aumentato le forniture di carburante e probabilmente addestrato centinaia di combattenti paramilitari delle Rsf alla guerra urbana da febbraio.

L’Observer ricorda che i rapporti tra il leader della Cirenaica e il generale golpista sudanese risalgono a molto tempo prima della caduta di Omar al-Bashir, il presidente-dittatore destituito nell’aprile di quattro anni fa dopo mesi di proteste popolari. Ma il rapporto si è intensificato più di recente, con Hemedti che ha inviato mercenari in Libia a sostegno dell’Esercito nazionale libico (Lna) di Haftar. E i due, secondo le fonti, avrebbero collaborato in varie operazioni di contrabbando, con i comandanti di medio rango dei due ‘eserciti’ che hanno rafforzato i loro rapporti per gestire il transito di beni illeciti fra i due Paesi. 

Poi, nelle ultime settimane, in vista del conflitto che si preparava in Sudan, il generale libico avrebbe rafforzato i suoi sforzi a sostegno di Rsf, in un delicato gioco di equilibrismi, dal momento che né lui né i suoi sponsor internazionali – la Russia e gli Emirati – vogliono impegnarsi troppo apertamente per uno o per l’altro dei contendenti in una battaglia il cui esito è ampiamente incerto. Tra l’altro Haftar deve stare attento a non alienarsi il sostegno dell’altro ‘padrino’, l’Egitto, che è schierato con al-Burhan. Un comandante di una milizia inquadrata nell’Lna ha spiegato che i suoi uomini “sono pronti a sostenere Hemedti, ma stiamo ancora monitorando come evolve la situazione”. 

A riprova del legame tra il generale libico e il golpista sudanese, il giornale ricorda che solo pochi giorni prima che scoppiasse il conflitto a Khartoum Haftar aveva ordinato l’arresto di Musa Hilal, un comandante di una milizia sudanese rivale di Hemedti e le cui forze sarebbero responsabili di aver inflitto pesanti perdite ai mercenari di Wagner nella Repubblica centrafricana in un agguato nei pressi del confine sudanese nei mesi scorsi.

Non solo: uno dei figli di Haftar, Sadeeq, nei giorni scorsi era volato nella capitale sudanese per donare 2 milioni di dollari all’Al-Merrikh Club, una delle due principali squadre di calcio sudanesi, in difficoltà finanziarie, prima di essere ricevuto da Hemedti. E in quell’incontro, avrebbe avvertito il generale golpista che i suoi rivali stavano preparando un’azione contro di lui, hanno rivelato fonti di intelligence vicine all’Lna. E così, all’indomani della partenza del figlio di Haftar, Dagalo ha mosso le sue forze per prendere il controllo dell’aeroporto internazionale di Merowe, circa 300 chilometri a nord di Khartoum, e ha iniziato a dispiegare i suoi uomini in località chiave della capitale.

Il settimanale britannico ricorda poi che nei giorni scorsi il Wall Street Journal ha scritto che Haftar aveva inviato almeno una fornitura di armi a Hemedti, affermazione smentita dall’Lna, mentre la Cnn ha parlato di voli dalle basi aeree gestite dall’Lna organizzati dal gruppo Wagner, che ha una presenza sia in Libia che in Sudan. Una notizia smentita in prima persona dal fondatore del gruppo di mercenari russi, Yevgeny Prigozhin, nonostante testimoni abbiano riferito di aerei atterrati all’aeroporto di Al-Jawf, a Kufra, nel sud della Libia, che trasportavano armi poi inviate su convogli di camion verso il Sudan.

Jalel Harchaoui, esperto di Libia e associato al Royal United Services Institute, ha affermato che Haftar e i suoi sponsor valuteranno attentamente il sostegno alle Rsf: “Vogliono che Hemedti sopravviva, almeno… Il carburante ha più senso di armi o munizioni ed è la cosa più sicura che potrebbe ottenere dagli amici libici”. Alcuni esperti ricordano infatti che la maggior parte dei mercenari sudanesi che combattono per l’Lna sono ex rivali di Hemedti e anche questo potrebbe porre limiti agli aiuti offerti da Haftar.

Infine, secondo le fonti dell’Observer, i carichi di carburante vengono consegnati via camion dal porto di Bengasi, anche se altre fonti hanno suggerito che un’altra probabile origine potrebbe essere la raffineria Sarir, più a sud, che è stata recentemente requisita dall’Lna”.

La fuga continua

I voli di evacuazione sono continuati anche nelle prime ore di lunedì, con centinaia di persone che hanno lasciato il paese durante la notte a bordo di aerei militari.
Gli stranieri sono fuggiti dalla capitale Khartoum in un lungo convoglio delle Nazioni Unite, mentre milioni di residenti spaventati si sono rintanati nelle loro case, molti a corto di acqua e cibo.
In tutta la città, che conta cinque milioni di abitanti, l’esercito e le truppe paramilitari hanno combattuto feroci battaglie di strada dal 15 aprile, lasciandosi dietro carri armati carbonizzati, edifici sventrati e negozi saccheggiati.


Secondo i dati delle Nazioni Unite, più di 420 persone sono state uccise e migliaia ferite, tra i timori di un’agitazione più ampia e di un disastro umanitario in una delle nazioni più povere del mondo.
Le forze speciali statunitensi hanno avviato domenica una missione di salvataggio per circa 100 membri del personale dell’ambasciata e i loro parenti, intervenendo con elicotteri Chinook per trasportarli in una base militare a Gibuti.


Le forze statunitensi “rimarranno dispiegate a Gibuti per proteggere il personale degli Stati Uniti e altre persone fino a quando la situazione della sicurezza non richiederà più la loro presenza”, ha dichiarato domenica il presidente Joe Biden in una lettera al presidente della Camera. 

Per quanto riguarda l’Italia: è decollato l’ultimo aereo da Khartoum con a bordo l’ambasciatore e il personale militare verso Gibuti, a seguire un volo dedicato li porterà a Roma. “In raccordo con altri Paesi europei e alleati, un ponte aereo internazionale ha permesso di raggiungere la base militare di Gibuti, dove i connazionali saranno ospitati. Il rimpatrio avrà luogo lunedì sera con volo dell’Aeronautica Militare. Il ministro Tajani ha seguito direttamente la pianificazione e l’operazione di evacuazione in stretto contatto con il presidente del Consiglio e il ministro della Difesa”, si legge nella nota della Farnesina.
Via dal Paese africano anche i cittadini di Usa, Regno Unito, Francia, Germania, Belgio e Paesi Bassi.

“Con la crisi in Sudan aumenteranno le partenze dei profughi”, avvertono le Ong.

“Il Ciad orientale ospita già oltre 400mila rifugiati dal Sudan e i nuovi arrivi stanno mettendo ulteriormente a dura prova i servizi e le risorse pubbliche del Paese, già sollecitate oltre misura”. È l’allarme lanciato dall’Acnur, l’alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, secondo cui ci sono “milioni di persone in fuga nella regione” del Sudan. Negli ultimi giorni – secondo le stime dell’Acnur – sarebbero tra le 10mila e le 20mila persone in fuga dal conflitto nella regione sudanese del Darfur per cercare rifugio nel vicino Ciad”. 

Internet bloccato

E c’è blackout “quasi totale” di Internet nel Sudan scosso dai combattimenti. Lo ha riferito NetBlocks, un’organizzazione con sede a Londra che monitora l’accesso al web in tutto il mondo. “I dati di rete in tempo reale mostrano un collasso quasi totale della connettività Internet in Sudan, con la connettività nazionale ora al 2% dei livelli ordinari”.

Ma c’è chi resta

“Sapevamo che il momento era delicato, perché caratterizzato da forte crisi economica e da instabilità politica, ma che potesse verificarsi tutto questo non ce lo aspettavamo. Noi rimaniamo per garantire la continuità delle cure ai nostri pazienti”.

Così Franco Masini, primario a Parma fino al compimento dei 62 anni e da un decennio coordinatore medico del Centro Salam di cardiochirurgia di Emergency a Khartoum. Parla a La Stampa nel giorno in cui sette operatori dell’organizzazione fondata da Gino Strada sono stati evacuati su loro richiesta col convoglio organizzato dall’ambasciata italiana.

 “Sono giorni estremamente difficili e di grande tensione a Khartoum, ma abbiamo deciso di restare qui per gli 81 pazienti in cura nel nostro ospedale. Non possiamo abbandonarli perché rischierebbero la vita. Tuttora molti colleghi dello staff sudanese non possono tornare a casa per motivi di sicurezza e stanno dormendo in ospedale per dare continuità di cura a pazienti ricoverati”.

“Abbiamo problemi significativi nella gestione del personale. C’è chi è rimasto qui cinque o sei giorni senza muoversi e ci sono mutamenti veloci nella mappatura dei combattimenti in città. Una zona che magari è libera adesso fra due ore non lo è più, e viceversa. Alcune aree non sono raggiungibili, il centro città, Amala, Khartoum 2 Riad, Bakri al di là del fiume quasi mai si riescono a raggiungere. Attorno a noi ci permettono di operare”, spiega il medico.

“Non abbiamo ricoverato nessun ferito perché nessuno è venuto da noi. Devo anche dire che con l’Eid gli abitanti di Khartoum originari di altre città, raggiungono i parenti fuori. Questo avviene tutti gli anni, a maggior ragione in questa situazione. Una parte del Paese è nella morsa dei combattimenti, altre zone e altre città sono più tranquille”.

“Quanto sta accadendo – aggiunge – ci ha colto all’improvviso ed è il momento più difficile da quando Emergency opera in questo Paese, ovvero venti anni. Di sicuro, però, da questo ospedale, a meno di situazioni ad altissimo rischio, non andremo via”.

Un destino incrociato

Lo declina Paolo M.Alfieri su Avvenire:
Separati ormai da dodici anni, eppure ancora accomunati da un destino incrociato. Per oltre due decenni, tra il 1983 e il 2005, tra Sudan e Sud Sudan, allora un Paese “unito”, erano solo combattimenti, attentati e mancanza di fiducia. Sancita nel 2011 la secessione tramite un referendum, il Sud pareva avviato verso un futuro di prosperità, grazie ai proventi del petrolio, ma tra il presidente Salva Kiir e il suo vice Riek Machar ben presto scoppiò un conflitto da 400mila morti. Quattro anni fa, la rivolta di piazza appoggiata dall’esercito che destituì in Sudan l’uomo forte Omar el-Bashir allo stesso modo sembrava l’inizio di un futuro diverso, di una transizione possibile, per quanto inizialmente lastricata di armi, verso un futuro democratico. Anche in Sudan, invece, quel futuro diverso non si è ancora realizzato e un conflitto tra il leader golpista, generale al-Burhan, e il suo vice, Mohamed Hamdan Dagalo, anche noto come Hemetti, sta anzi portando il Paese verso la guerra aperta, con già diverse centinaia di morti.


In un’Africa tornata ad essere territorio di conquista, e dove alle vecchie potenze si uniscono nuovi (più o meno espliciti) “padroni”, il destino incrociato di Khartoum e Juba e delle loro risorse è uno spartiacque importante. Papa Francesco si è speso molto per il Paese più giovane del mondo e il viaggio apostolico del febbraio scorso ne è la prova. In Sud Sudan un percorso verso la pace è stato tracciato, anche con il sostegno della Comunità di Sant’Egidio, ma per le strade del Paese chiunque è impegnato sul terreno va sottolineando che l’insicurezza e la mancanza di fiducia tra i due fronti restano il principale ostacolo, mentre resta massiccia la circolazione di armi. Ancora il mese scorso la rimozione di tre ministri (uno in capo all’opposizione e moglie del vicepresidente Machar) da parte del presidente Salva Kiir ha accresciuto le tensioni, già alte dopo l’annuncio del prolungamento del periodo di transizione (e quindi del rinvio delle elezioni) fino al 2025. In Sudan a far scoppiare gli scontri a è stato il tentativo del generale al-Burhan di smobilitare le milizie delle Forze di supporto rapido, 100mila uomini ben armati e che rispondono di fatto solo al suo vice, Hemedti, trafficante numero uno dell’oro sudanese e forse uomo più ricco (e quindi con più potere del Paese).

Anche solo per la loro posizione, Sudan e Sud Sudan sono territorio chiave del quadrante che da un lato fa da cerniera tra Africa occidentale e Africa orientale e che, dall’altro, lega la stessa Africa al Mar Rosso e ai Paesi del Golfo, che negli ultimi anni hanno alimentato la loro influenza nella zona. Il destino delle popolazioni locali resta di fatto in bilico e poco conta che prima le armi sparassero tra nord e sud e che ora invece i conflitti siano tutti “interni”. La guerra è rimasta sempre la guerra e per sudanesi e sud sudanesi drammaticamente nulla sembra essere cambiato”.

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