Dopo Kabul, Khartum: la nuova fuga dell'Occidente
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Dopo Kabul, Khartum: la nuova fuga dell'Occidente

Dopo Kabul, Khartum. La fuga dell’Occidente continua. Non importa cosa ci si lascia indietro: morti, orrori, devastazione.

Dopo Kabul, Khartum: la nuova fuga dell'Occidente
La fuga dal Sudan dove esercito regolare e milizie paramilitari si stanno combattendo
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

23 Aprile 2023 - 18.23


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Dopo Kabul, Khartum. La fuga dell’Occidente continua. Non importa cosa ci si lascia indietro: morti, orrori, devastazione. Si scappa dalle proprie responsabilità. Punto. E’ successo in Afghanistan, in Siria, e ora in Sudan.

L’Italia, come del resto stanno facendo altri paesi occidentali, sta organizzando l’evacuazione dei connazionali con velivoli militari che sono già a Gibuti. Ancora non è chiaro da quale aeroporto possano partire i cittadini stranieri: “Nessuno degli aeroporti funziona. Sono ancora sotto tiro”, ha dichiarato il presidente filippino Ferdinand Marcos che ha centinaia di cittadini intrappolati in Sudan. Lo stesso aeroporto di Karthum sembra essere sotto il controllo dei ribelli delle RFS.

Lavoriamo per garantire entro la nottata di poter far sì che tutti gli italiani che vogliono partire siano messi in sicurezza”. Lo ha detto il ministro degli Esteri Antonio Tajani a ‘Mezz’ora in più’ su Rai 3, parlando delle operazioni di evacuazione dei civili italiani dal Sudan.

Il responsabile della Farnesina ha sottolineato che ha parlato con entrambi i leader delle parti in guerra in Sudan ricevendo garanzie di sicurezza per gli italiani durante l’evacuazione, “e per questo li ho ringraziati”.”Entrambi si sono detti favorevoli a far passare il convoglio degli italiani per lasciare il Paese”, ha aggiunto.

Il ministro degli Esteri ha spiegato che ci sono 140 cittadini italiani che devono essere evacuati, il punto di incontro è l’ambasciata che è pienamente operativa e poi ci sono i militari che saranno coinvolti nelle operazioni di salvataggio.

“Noi contribuiremo anche all’evacuazione degli svizzeri e della nunziatura apostolica e di una ventina di cittadini europei. Circa 200 civili dovranno essere evacuati dai nostri militari”. “I nostri connazionali in Sudan – ha aggiunto – sono stati tutti contattati, anche durante la nottata, dall’Unità di crisi del ministero. Sono stati chiamati uno per uno: stanno tutti bene e raggiungeranno la nostra ambasciata. Di più non posso dirvi per ragioni di sicurezza”. 

Prima di queste dichiarazioni del ministro, l’Unità di crisi della Farnesina aveva trasmesso un messaggio agli italiani intrappolati nella capitale sudanese dai combattimenti fra esercito e paramilitari. “Cari connazionali, con il nostro Ministero della Difesa stiamo lavorando ad una finestra di opportunità per lasciare Khartum via aerea, che potrebbe avere luogo nella giornata di oggi, domenica 23 aprile. Il punto di raccolta sarà entro le ore 12.00 presso la residenza dell’Ambasciatore d’Italia”.

L’altra notte il personale dell’ambasciata americana di Karthum, e le rispettive famiglie, è stato evacuato mediante elicotteri. Nella giornata di ieri la stessa ambasciata aveva ritenuto troppo pericoloso affidare la partenza del proprio personale a colonne via terra. I paramilitari delle Rfs hanno dichiarato di essersi coordinati con gli americani per favorirne la partenza, che dovrebbe avvenire in mattinata con sei aerei.
Nella mattinata di domenica il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha dichiarato chel’evacuazione militare del personale dell’ambasciata statunitense in Sudan è stata completataed è tornato a chiedere la fine di una violenza “inconcepibile”. Biden ha ringraziato le truppe che hanno svolto la missione per mettere la sicuro personale americano in Sudan, mentre Washington ha chiuso a tempo indeterminato la missione statunitense a Khartoum. I membri dello staff sarebbero stati trasportati in aereo in una località segreta in Etiopia. Le truppe statunitensi hanno condotto l’operazione mentre i combattimenti in Sudan, che hanno causato più di 400 morti, mettono la nazione a rischio di collasso e potrebbero avere conseguenze ben oltre i suoi confini.

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La Francia ha avviato un’operazione per l’evacuazione dei suoi cittadini dal Sudan: lo ha reso noto il governo. L’esercito sudanese e il gruppo paramilitare delle forze di supporto rapido (Rsf) si sono accusati a vicenda di aver attaccato un convoglio di cittadini francesi, affermando entrambi che un francese è rimasto ferito. Il ministero degli Esteri francese, che in precedenza aveva dichiarato che stava evacuando personale diplomatico e cittadini, non ha commentato la notizia. Lo scrive la Reuters sul suo sito. 
 Stamattina i paramilitari sudanesi delle “Forze di supporto rapido sono state attaccate da aerei durante l’evacuazione di cittadini francesi dall’ambasciata del loro paese, passando per Bahri verso Omdurman”, in un’azione che, oltre a bloccare il trasferimento, “ha messo in pericolo la vita di cittadini francesi, uno dei quali è stato ferito”, sostengono le stesse Rsf su Facebook. “Le Forze di supporto rapido affermano che, in pieno coordinamento con il governo francese, il convoglio di evacuazione di cittadini francesi si è spostato questa mattina dai punti di raccolta all’ambasciata francese e ha attraversato” il quartiere di “Bahri fino a Omdurman”, la città gemella di Khartoum, viene aggiunto. “Questa flagrante violazione del diritto internazionale e umanitario e della tregua dichiarata è stata attestata da membri dell’ambasciata francese che hanno documentato l’incidente”, si sostiene nel testo. 
 “Di fronte a questo vile attacco, e per preservare l’incolumità dei cittadini francesi, le Forze di supporto rapido hanno dovuto riportare il convoglio al punto di partenza”. 

Fuga disperata

Negli ultimi giorni – secondo le stime dell’Unhcr – sarebbero tra le 10mila e le 20mila persone in fuga dal conflitto nella regione sudanese del Darfur per cercare rifugio nel vicino Ciad”.

E secondo le ong Mediterranea e Sos Mediterranée “con la crisi in Sudan aumenteranno le partenze dei profughi”. “Quello che sta accadendo aggrava una situazione di grande sofferenza per la popolazione civile e chiaramente spingerà le persone a spostarsi dal Paese”, spiegano dalla ong Mediterranea. “A prescindere da dove vengono i profughi siamo pronti a salvarli”, dicono da Sos Mediterranée.

Mediterranea punta il dito contro “il fallimento della politica dell’appoggio italiano, avvenuto con il precedente governo, delle milizie paramilitari del generale Mohamed Hamdan Dagalo, così come accade in Libia, al solo scopo di fermare le partenze delle persone. La politica di esternalizzazione delle frontiere non ha funzionato in Libia, non funzionerà in Tunisia e non funzionerà in Sudan”. Sos Mediterranée sottolinea che l’esodo in parte è già in iniziato e alcuni migranti sbarcati a Bari “provenivano dal Sudan”. 
 La genesi di una guerra civile

La ricostruisce per Rai News Antonella Alba: “E’ appena cominciata la seconda settimana dall’inizio di quella che si configura come una vera e propria guerra civile in Sudan. Dal 15 aprile il Paese africano nel cuore del Corno d’Africa fa i conti con due generali e i loro due eserciti che di fatto si stanno contendendo il potere a suon di colpi di artiglieria e perfino con combattimenti corpo a corpo.

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Gli scontri sono cominciati nella capitale Khartoum quando le Forze paramilitari del Supporto Rapido (Rsf) guidate dal generaleMohamed Hamdan Dagalo – detto Hemedti – hanno attaccato il quartier generale dell’esercito regolare capitanato dal generale Abdel Fattah al Burhan, numero uno del paese dopo il colpo di Stato del 2021.

Sia Burhan sia Hemedti sono stati uomini di fiducia dell’ex-presidente Omar al-Bashir destituito durante la rivoluzione sudanese nel 2019 dopo trent’anni di governo. Il presidente fu accusato di genocidio in merito all’annosa guerra civile nellaregione del Darfur (2003-2008), in cui l’esercito sudanese si rese protagonista di un massacro etnico contro le popolazioni non musulmane. I morti furono 300.000 mila.

Secondo molti analisti lo scontro ha rivelato l’incapacità del Sudan di intraprendere un percorso di transizione che – dopo il golpe militare – avrebbe dovuto portarlo verso un governo civile. Ora rischia una catastrofe umanitaria. La rivalità tra i due generali riguarda anche l’amicizia che entrambi vantano con Mosca e il contrasto tra Occidente e Russia per impedire a Mosca di insediare una base militare sul Mar Rosso.

Chi sono i due generali 

Nel 2019 durante la cosiddetta rivoluzione sudanese il generale Hemedti partecipò al rovesciamento del suo “padrino”, il presidente Omar al-Bashir. Quella mobilitazione popolare finirà nel sangue di una brutale repressione per la quale Hemedti viene accusato del massacro di 120 manifestanti in un solo giorno durante un sit-in.

Fondò poi il gruppo l’Rsf nel 2013, esercito di circa 100mila uomini composto principalmente dalla milizia araba dei Janjaweed (ovvero “demoni a cavallo”) che si macchiò le mani di sangue combattendo contro i ribelli del Darfur, bruciando villaggi, stuprando centinaia di donne e seppellendo gli uomini in fosse comuni.  

A furia di ordini e di crimini Dagalo è divenuto anche la persona più ricca del paese, prendendo con la forza il controllo della maggior parte delle miniere d’oro del Sudan, che rappresentano quasi la metà delle entrate del Paese, e anche facendo affari inviando i suoi combattenti a partecipare come mercenari in diversi conflitti recenti, come in Yemen e in Libia. 

Dopo il colpo di Stato del 2021 di cui i due generali furono il braccio e la mente, Abdelfatah al Burhan, 62 anni, è divenuto presidente del Consiglio sovrano di Transizione, l’organo esecutivo del Paese. 

Durante il primo di governo di Abdalla Hamdok poi dimissionario, nel periodo in cui Al-Burhan era a capo del Consiglio Sovrano, sono state apportate importanti riforme nel paese, come la messa al bando delle mutilazioni genitali femminili nel maggio del 2020, l’abolizione della pena di morte per omosessualità, apostasia, dell’obbligo del velo e della fustigazione pubblica nel luglio 2020.

Ma questo non è bastato, il Paese nel cuore del Corno d’Africa è poverissimo, dipende per 1/terzo dagli aiuti umanitari. La situazione è di nuovo precipitata nonostante la pressione e gli aiuti internazionali, il Sudan non è riuscito a liberarsi del potere militare e degli interessi ad esso legati che hanno portato agli scontri di queste ore”.

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Annota Pierre Haski, direttore di France Inter, nell’analisi pubblicata su Internazionale: “I morti si contano a centinaia, i feriti a migliaia. Gli operatori umanitari non riescono a lavorare, mentre il sistema sanitario è al collasso. La guerra che da una settimana oppone due fazioni delle forze armate del Sudan si è trasformata in un disastro umanitario le cui prime vittime, come sempre, sono i civili. 

I due uomini forti che si affrontano in questa battaglia per il potere incarnano due versioni della stessa oppressione nei confronti del popolo sudanese, un sistema che la rivoluzione del 2019 aveva cercato di superare pacificamente. Ma come è accaduto spesso nel corso della storia, questo movimento è stato dirottato da chi ritiene che il potere si conquisti solo con i fucili. 

Nel 2019, dopo trent’anni di dittatura islamista, i sudanesi si sono ribellati contro Omar al Bashir, accusato di genocidio dalla Corte penale internazionale. Ma la rivoluzione democratica è stata sabotata dai militari, in particolare dai due protagonisti della guerra attuale, il generale Abdel Fattah al Burhan, capo di stato maggiore, e il generale Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemetti, comandante di una milizia”. 

Narrative contrapposte
La società civile sudanese è ancora vivace, e fino a poco tempo fa si batteva per far rispettare un accordo di transizione verso un governo civile. Il problema è che i militari non hanno mai avuto intenzione di tornare nelle caserme. La loro sete di potere è troppo forte. 

Come spiegano gli autori di un libro recente sulla rivoluzione sudanese, i manifestanti che chiedevano una trasformazione totale della politica del paese si sono trovati a dover contrastare gli intrighi di un gruppo di generali che possono contare su importanti appoggi all’estero e che hanno forti interessi nell’economia del paese. Il titolo del libro è “democrazia incompiuta”. 

Né Al Buhran né Hemetti possono presentarsi come paladini della democrazia. I generali Al Burhan ed Hemetti costruiscono due narrative contrapposte per rivendicare il diritto a guidare il paese, ma resta il fatto che il primo è stato il pilastro della dittatura di Omar al Bashir fino a quando ha sentito cambiare il vento, mentre il secondo è responsabile dei massacri in Darfur e delle terribili violenze contro i manifestanti a Khartoum. Nessuno dei due, insomma, può presentarsi credibilmente come paladino della democrazia. 

Alcuni paesi della regione, come Gibuti o la stessa Unione africana, stanno tentando una mediazione e invitano al cessate il fuoco, finora senza successo. 

Soprattutto esistono altri attori che gettano benzina sul fuoco. Ognuno dei due generali ha i suoi sostenitori e la sua rete internazionale, dunque questa guerra rischia seriamente di diventare un ennesimo conflitto “per procura” a nome di interessi più vasti: l’Egitto da un lato, gli Emirati Arabi Uniti o il generale libico Khalifa Haftar dall’altro, per non parlare della milizia russa Wagner, mai lontana quando si apre un vuoto strategico da qualche parte in Africa”. 

Così il direttore di France Inter.

Dopo l’Afghanistan, il Sudan. La fuga  dell’Occidente continua. 

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