Erdogan rischia grosso alle presidenziali ma è pronto a tutto pur di restare al potere
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Erdogan rischia grosso alle presidenziali ma è pronto a tutto pur di restare al potere

14 maggio 2023. Stavolta il “sultano” rischia grosso. Perché la rielezione a presidente della Turchia di Recep Tayyp Erdogan è probabile ma non certa

Erdogan rischia grosso alle presidenziali  ma è pronto a tutto pur di restare al potere
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11 Aprile 2023 - 18.51


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14 maggio 2023. Stavolta il “sultano” rischia grosso. Perché la rielezione a presidente della Turchia di Recep Tayyp Erdogan è probabile ma non certa. E questa è già una notizia. Crisi economica, terremoto, e una opposizione meno frantumata che in passato. Per Erdogan quella della rielezione è una strada in salita e irta di ostacoli. 

Il sultano in bilico

Di grande interesse è il report di AsiaNews: “Per allargare l’alleanza e allontanare l’ipotesi di una sconfitta alle elezioni presidenziali del 14 maggio, anche in considerazione della ritrovata alleanza dei partiti di opposizione che puntano anche al voto dei curdi, Recep Tayyip Erdogan imbarca l’ala (radicale) islamica. In questi ultimi giorni, due nuove formazioni politiche si sono alleate alla coalizione governativa, il New Welfare Party (Yrp) e l’Huda-Par. Un matrimonio di interessi per l’Alleanza popolare che rischia però di affossare i diritti di donne e minoranze (oltre ai rifugiati siriani) e sposta sempre più a destra l’asse di un futuro esecutivo guidato dall’Akp. 

Analisti ed esperti concordano nel ritenere che le elezioni presidenziali e legislative in programma fra poche settimane si presentano come le più incerte e combattute degli ultimi 20 anni, in cui ha dominato il Partito della Giustizia e dello Sviluppo e il suo leader Erdogan. Da qui la scelta del “sultano” di inglobare anche alleati un tempo scomodi, a conferma di un panico crescente negli ambienti governativi per la presenza di una opposizione sempre più unita e con un seguito nel Paese. 

Corteggiare due formazioni politiche che, a stento, superano l’1% dei consensi alle urne non è segno di grande salute, anche se risulta in linea con la progressiva radicalizzazione delle politiche di Erdogan, improntate a colpi di nazionalismo e islam. Fatih Erbakan, leader Yrp, ha rinnovato nel 2018 il partito fondato dal padre nel 1983 conservandone la linea religiosa e anti-laica che aveva già ispirato il movimento Milli Gurus, ben radicato nella diaspora soprattutto in Europa grazie a una rete capillare di scuole e moschee. Di recente, un membro del gruppo giovanile ha sollevato aspre polemiche augurandosi una introduzione “a breve” della sharia in Turchia.

Il sostegno dei movimenti estremisti ha, come ovvio, un prezzo: i due schieramenti hanno presentato almeno 30 richieste, fra le quali emerge la cancellazione della legge 6248 del 2012 che contrasta e punisce la violenza contro donne e bambini. Una posizione folle, secondo l’avvocato Gokcecicek Ayata interpellata da al-Monitor, in una nazione in cui ogni giorno vengono uccise almeno tre donne per violenze che si consumano fra le pareti domestiche.

Una condizione definita “linea rossa” persino da una parte dell’Akp, partito che nel luglio 2021 – dietro esplicito sostegno del suo leader Erdogan – ha sancito il ritiro del Paese dalla Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza di genere e domestica. Un’altra richiesta non negoziabile per il leader del New Welfare Party è la chiusura di tutte le associazioni e gruppi che difendono i diritti LGBTQ+ o si battono per la parità in società. “Il nostro presidente – spiega una nota di partito – è estremamente meticoloso al riguardo”.

Dilek Bulut, attivista di un movimento femminista di sinistra, afferma che qualsiasi discussione di modifiche della legge 6284 renderebbe le donne più vulnerabili agli abusi e alle vessazioni. “In un ambiente in cui violenza e discriminazione – afferma – contro le donne sono in aumento e diventano ogni giorno più brutali, quanti hanno annullato la Convenzione di Istanbul stanno ora svelando i loro veri volti rendendo la legge 6284 un argomento di negoziazione”. 

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I tre sfidanti

Si tratta del leader dell’Alleanza della nazione Kemal Kilicdaroglu, del presidente del Partito della patria Muharrem Ince e del rappresentante dell’Alleanza Ata Sinan Ogan.

Così li tratteggia Agenzia Nova: Kilicdaroglu ha 74 anni (sei in più di Erdogan) ed è il presidente del Partito repubblicano (Chp), storica formazione politica creata dal fondatore della Repubblica turca, Mustafa Kemal Ataturk. È originario di Ballica, una remota zona montuosa nella provincia orientale di Tunceli, area caratterizzata dalla presenza degli aleviti, una minoranza sciita di cui anche il candidato presidente fa parte. Quarto di sette figli, Kilicdaroglu è cresciuto in una famiglia povera, ma nonostante ciò è riuscito a intraprendere la carriera universitaria, laureandosi in economia presso l’Accademia di scienze economiche e commerciali di Ankara. Prima di entrare in politica, venendo eletto come deputato del Chp nel 2002, è stato un funzionario statale, ricoprendo ruoli dirigenziali nei ministeri delle Finanze, delle Entrate e della Previdenza sociale. Nel 2010 è diventato presidente del partito repubblicano e ha condotto numerose battaglie contro il Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) di Erdogan, denunciandone soprattutto la corruzione.

All’interno del partito, Kilicdaroglu è stato spesso criticato, soprattutto perché ritenuto responsabile delle varie sconfitte elettorali subite alle elezioni del 2011, del 2014 e del 2015. Tuttavia, nel 2017 è riuscito a raggiungere una maggiore popolarità grazie alla “Marcia della Giustizia”, una protesta contro le misure autoritarie adottate da Erdogan nel periodo successivo al tentato colpo di stato dell’anno precedente, che ha visto sfilare numerosi manifestanti lungo i circa 450 chilometri che separano Istanbul dalla capitale Ankara. Il successo della marcia non ha portato comunque alla candidatura di Kilicdaroglu alle presidenziali del 2018, alle quali il Chp fu rappresentato da Muharrem Ince, che perse contro Erdogan ottenendo il 30,67 per cento dei voti. Kilicdaroglu non è considerato un candidato carismatico, come ha sottolineato il direttore dell’istituto di statistica turco MetroPoll, Ozer Sencar in un’intervista al sito web “Al Monitor”, tuttavia finora è stato in grado di tenere unita la coalizione che lo sostiene, costituita tanto da partiti nazionalisti, come il Partito buono di Meral Aksener, quanto da partiti di stampo islamista, come il Partito della felicità (Sp) di Temel Karamollaoglu.

Muharrem Ince si presenta per la seconda volta come candidato presidente contro Erdogan ma stavolta con il Partito della patria, fondato da lui stesso a maggio 2021. Ince rappresentava la componente più laica del Chp, dal quale si è allontanato dopo una militanza di quasi vent’anni proprio in seguito alla sconfitta elettorale del 2018. Ince è nato nel 1964 a Elmalik, città che affaccia sul mare di Marmara a meno di 100 chilometri da Istanbul. È laureato in fisica e chimica all’università di Bursa e fa l’insegnante. La sua età relativamente bassa lo rende uno dei candidati più popolari tra i giovani, grazie anche a una solida presenza sui social network come Twitter, Tik Tok e Instagram, dove conta due milioni di follower, 500 mila in più di Kilicdaroglu. Ince potrebbe “accorciare la distanza nei sondaggi tra Kilicdaroglu e Erdogan”, secondo Ulas Tol, direttore del centro di ricerca statistico turco Team, intervistato dal sito turco “Turkey recap”. Secondo Tol, Ince rischia di disperdere il voto contro Erdogan poiché raccoglie il malcontento dei cittadini turchi nei confronti dell’intero panorama politico.

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Sinan Ogan è il candidato meno noto tra i tre che sfideranno Erdogan. Attualmente è il rappresentante dell’Alleanza Ata, nata agli inizi di marzo per supportare la sua candidatura presidenziale. Ogan è nato a Igdir, una città al confine con l’Armenia, da una famiglia di origini azere, ed è laureato in Scienze economiche e amministrative presso l’Università di Marmara, dove ha ricoperto anche il ruolo di assistente di ricerca presso l’Istituto di studi turchi. È un ricercatore nell’ambito degli studi strategici e parla sia l’inglese che il russo e ha anche un dottorato in scienze politiche ottenuto all’Istituto di relazioni internazionali di Mosca. La sua attività politica è cominciata nel Partito nazionalista (Mhp), attualmente alleato dell’Akp, con il quale è stato eletto deputato nel 2011. I rapporti con l’Mhp sono stati travagliati, tanto che Ogan è stato espulso dal movimento per ben due volte nel 2015 e nel 2017, per aver criticato il suo leader Devlet Bahceli. Attualmente è sostenuto da un’alleanza di tre partiti nazionalisti, tra cui anche il Partito della vittoria (Zp) di Umit Ozdag, noto per le sue battaglie xenofobe.

Secondo un sondaggio condotto nel mese di marzo dell’istituto di statistica turco Metropoll, Erdogan sarebbe indietro di 2,5 punti nei sondaggi rispetto a Kilicdaroglu, anche se la candidatura di Ince potrebbe rimescolare le carte. L’Akp di Erdogan sarebbe ancora in netto vantaggio in caso di elezioni parlamentari, da quanto emerge dagli studi statistici fatta dal sito di analisi di dati elettorali Politpro, che attesta l’Akp al 33,3 per cento e il Chp di Kilicdaroglu al 27,4 per cento. I dati riportati sul sito sono il risultato di un calcolo della media ponderata dell’esito dei sondaggi fatti da tre istituti di statistica turchi negli ultimi tre mesi, Saros, ArtiBir e Yoneylem.

I candidati presidenziali sono retti da coalizioni di partiti, rappresentate dall’Alleanza del popolo che sostiene Erdogan, costituita dall’Akp, dal Movimento nazionalista, dal Partito della grande unità e dal Nuovo partito del benessere e dall’Alleanza della nazione che fa capo a Kilicdaroglu, formata dal Chp, dal Buon partito, dal Partito della Felicità, dal Partito del Futuro, dal Partito democratico e dal Partito della democrazia e del progresso. In base ai dati complessivi dei due blocchi contrapposti, l’alleanza guidata da Kilicdaroglu sarebbe in vantaggio del 42,2 per cento, contro il 40,6 per cento della coalizione guidata da Erdogan, come riportato dai sondaggi pubblicati da “Euronews” e basati sul raffronto di diversi istituti statistici turchi.

I candidati presidenziali sono retti da coalizioni di partiti, rappresentate dall’Alleanza del popolo che sostiene Erdogan, costituita dall’Akp, dal Movimento nazionalista (Mhp), dal Partito della grande unità (Bbp) e dal Nuovo partito del benessere (Yrp) e dall’Alleanza della nazione che fa capo a Kilicdaroglu, formata dal Chp, dal Buon partito (Iyi), dal Partito della Felicità (Sp), dal Partito del Futuro (Gp), dal Partito democratico (Dp) e dal Partito della democrazia e del progresso (Deva). In base ai dati complessivi dei due blocchi contrapposti, l’alleanza guidata da Kilicdaroglu sarebbe in vantaggio del 42,2 per cento, contro il 40,6 per cento della coalizione guidata da Erdogan, come riportato dai sondaggi pubblicati da “Euronews” e basati sul raffronto di diversi istituti statistici turchi. La situazione politica turca però potrebbe cambiare nei prossimi giorni e non sono esclusi colpi di scane anche grazie alle ultime “carte elettorali” che il presidente in carica potrebbe giocarsi a pochi giorni dal voto”.

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Pugno di ferro

Annota Futura D’Aprile in una documentata analisi  per Valigia Blu. “Secondo i sondaggi – scrive tra l’altro D’Aprile –  Erdoğan resta il leader con il più alto livelli di gradimento, ma il consenso verso la sua figura e quella del suo partito ha subito un calo significativo a causa della crisi economica e dell’inflazione, pur avendo recuperato recentemente qualche punto con riforma delle pensioni. Ufficialmente la svalutazione della lira è ferma al 65%, ma il dato ufficiale è stato ancora una volta contestato dall’Inflation Research Group – istituto di ricercatori indipendenti – secondo cui l’inflazione sarebbe al 137%. Alla base della crisi economica e della svalutazione della moneta locale vi sono le politiche messe in campo dalla Banca centrale, che dietro pressioni di Erdoğan ha deciso di non alzare i tassi di interesse per gonfiare il PIL e favorire le esportazioni verso il mercato estero, finendo però con il danneggiare le fasce medio-basse della popolazione. Il costo della vita è infatti aumentato, mentre il potere di acquisto ha continuato a scendere, condannando sempre più persone all’indigenza. 

Censura di media e repressione dei manifestanti

Raccontare quanto profonda sia la crisi economica, però, non è possibile. «Chi ci prova rischia di essere accusato di colpo di Stato economico e di diffusione di false informazioni», spiega Mümtaz Murat Kök del Media and Law Studies Association, (Mlsa) un’organizzazione che dal 2018 monitora i processi contro la stampa. L’inasprirsi della crisi economica è andata di pari passo con l’aumento della repressione dei media, come dimostrano i dati raccolti dell’associazione. Tra settembre 2021 e luglio 2022, 210 giornalisti finiti sotto processo con l’accusa di terrorismo per i loro articoli e per i loro post personali pubblicati sui social. Sessantasette di loro sono stati già condannati, mentre molti altri preferiscono autocensurarsi o rispettare le regole imposte dai loro editori, in larga maggioranza alle dipendenze più o meno indirettamente del governo, come ha dimostrato un’inchiesta della Reuters.

 Il controllo governativo non si limita alla libertà di stampa. Anche il diritto a manifestare, sancito dall’articolo 34 della Costituzione, è stato fortemente limitato grazie all’approvazione di una serie di leggi sull’ordine pubblico, come la n.2911. Sempre nel periodo di settembre 2021-luglio 2022, riporta l’Mlsa, ben 800 persone sono finite sotto processo per aver preso parte a manifestazioni pacifiche nel paese. Tra queste vi sono gli studenti dell’Università Boğaziçi, che si sono opposti alla nomina governativa del loro rettore, e le Madri del Sabato, che dal 1995 si riuniscono per chiedere giustizia per i parenti “scomparsi” mentre erano in custodia di polizia. Reprimere con così tanta forza il dissenso pubblico è però segno di debolezza. «Hanno paura di non riuscire a controllare i cittadini, per questo mostrano tolleranza zero verso chi manifesta e criminalizzano ogni forma di dissenso», conclude Kök”. Così D’Aprile.

Ma il pugno di ferro, la repressione sistematica, il controllo pressoché totale dei media, il rilancio del disegno imperiale neo-ottomano, in chiave islamo-nazionalista   stavolta potrebbero non bastare. Il sultano trema. E ancor più la Turchia che scommette sul rinnovamento. Perché  Erdogan farà di tutto, e di peggio,  pur di restare in sella. Questa sì che una certezza. Inquietante. 

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