Israele: le punizioni collettive contro il popolo palestinese non hanno fine
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Israele: le punizioni collettive contro il popolo palestinese non hanno fine

In Israele c'è un disegno di legge che renderebbe facile togliere la cittadinanza a chi ha commesso attacchi terroristici. Ma distinguendo tra ebrei e arabi.

Israele: le punizioni collettive contro il popolo palestinese non hanno fine
Ben Gvir l'ultra-nazionalista israeliano
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1 Febbraio 2023 - 19.15


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Israele, le punizioni collettive non hanno fine.

Di cosa si tratti lo chiarisce molto bene un editoriale di Haaretz:

“Un disegno di legge che prevede di privare della cittadinanza gli israeliani che hanno commesso un atto di terrorismo e poi hanno ricevuto denaro dall’Autorità Palestinese ha superato la prima delle tre votazioni della Knesset lunedì scorso con un enorme margine di 89-8. Si tratta di un altro passo avanti nel processo di smantellamento dello status civico già traballante dei palestinesi cittadini di Israele. Dopo la legge sulla cittadinanza e l’ingresso in Israele, che impedisce ai cittadini palestinesi di vivere in Israele con i loro coniugi non israeliani, e la legge sullo Stato-nazione, che li ha dichiarati cittadini di seconda classe, ora abbiamo un disegno di legge che renderebbe facile togliere la cittadinanza a chi ha commesso attacchi terroristici.


Il vero scopo del disegno di legge – che pone un’altra significativa crepa nello status dei cittadini palestinesi di Israele – è rivelato dalla discriminazione che sancisce tra terroristi ebrei e arabi. Ci sono anche israeliani ebrei incarcerati in Israele per aver commesso attacchi terroristici. Eppure la loro cittadinanza non è in dubbio, solo perché sono ebrei.


Nessun membro della Knesset che ha votato a favore di questa legge si sognerebbe di revocare la cittadinanza al terrorista ebreo condannato Jack Tytell, agli assassini dell’adolescente Mohammed Abu Khdeir, a coloro che hanno bruciato viva la famiglia Dawabsheh nel villaggio cisgiordano di Duma o a Yigal Amir, che ha assassinato il Primo Ministro Yitzhak Rabin. Una tale disparità di trattamento delle persone che hanno commesso atti di terrore significa che c’è un gruppo la cui cittadinanza è stabile e sicura, e un altro la cui cittadinanza è temporanea, condizionata e costantemente sotto esame. E se non ci sono dubbi, il lavoro di revoca della cittadinanza inizia con le persone che hanno commesso crimini gravi, ma non finirà lì. Si diffonderà e creerà ulteriori pretesti per la revoca, perché si basa sull’idea che i cittadini palestinesi di Israele non siano realmente cittadini, ma sudditi; che siano cittadini per grazia piuttosto che per diritto. Ciò che è particolarmente inquietante è che i membri dell’opposizione della Knesset, in particolare quelli del cosiddetto centro-sinistra, hanno appoggiato la legge. Questo dimostra quanto sia radicata l’idea della supremazia ebraica anche lì. Se i blocchi politici che dovrebbero fungere da alternativa al governo di Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich non sono nemmeno in grado di opporsi a una legge che è di fatto un attacco alla cittadinanza dei cittadini palestinesi di Israele, come potranno mai formare una partnership politica con questa comunità? Il disegno di legge smentisce l’idea stessa di cittadinanza, secondo cui le persone devono necessariamente appartenere a un Paese o a un altro. La cittadinanza è un diritto fondamentale di per sé e una condizione per la realizzazione della maggior parte degli altri diritti umani fondamentali. Di conseguenza, non dovrebbe dipendere dalle azioni di una persona o dal fatto che sia un buon cittadino rispettoso della legge. Non si perde la cittadinanza nemmeno quando si commettono gravi crimini, nemmeno quando si commettono atrocità. Questa proposta di legge deve essere accantonata, così come qualsiasi altra proposta volta a minare ulteriormente lo status civico dei cittadini palestinesi di Israele”.

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Così Haaretz.

Un popolo cancellato

Ayman Odeh, avvocato, nato ad Haifa, leader del Partito comunista d’Israele, parlamentare alla Knesset della Joint, è  uno degli esponenti di punta degli arabi israeliani (il 20,9% su una popolazione, secondo il recentissimo aggiornamento dell’Ufficio Centrale di statistica di  8.907.000  (il 74% ebrei). In quel dibattito che ha rappresentato l’inizio del non ritorno, luglio 2018,  Odeh era intervenuto alla Knesset sventolando una bandiera nera: “Questa è una legge crudele.

Oggi dovrò dire ai miei figli, e a tutti i figli delle città arabo-palestinesi del Paese, che lo Stato d’Israele ha dichiarato che non ci vuole più qui, che d’ora in avanti diventiamo cittadini di seconda classe”. “A colpi di maggioranza, Israele ha perso la sua anima originaria – afferma Odeh – Quella legge che segna un punto di non ritorno, sancisce la realizzazione di una idea di Stato, di popolo, di comunità, che si fonda sull’appartenenza etnica, sull’affermazione di una diversità che crea gerarchia, che al massimo può contemplare la tolleranza ma mai una piena inclusione”. Resta il fatto, ribattiamo, che i sostenitori della legge affermano che l’identità ebraica era a fondamento dello Stato d’Israele sin dalla sua nascita. Se è così, perché la rivolta? “Se fosse un fatto logico, conseguenziale – risponde senza esitazioni Odeh –  non si capirebbero le critiche e l’opposizione a questa legge che sono venute non solo da settori importanti, non solo intellettuali, della società ebraica israeliana ma anche dalle componenti più liberali della Diaspora ebraica. Quella legge è uno strappo ideologico voluto dalla destra oltranzista che oggi governa Israele. Ogni norma di quella legge risponde a una visione messianica d’Israele, del suo popolo eletto, di uno Stato che viene ridefinito a partire da questa visione fondamentalista.

Un ‘pregio’, però, questa legge ce l’ha: quello della chiarezza. I sostenitori di questa legge rifondativa dello Stato d’Israele hanno dato una legittimazione istituzionale alla politica degli insediamenti, considerando la colonizzazione come parte fondante dell’identità nazionale d’Israele. Fino ad oggi, la destra delle ruspe, aveva giustificato il muro in Cisgiordania, l’annessione di fatto di parte dei territori della West Bank, territori che due risoluzioni delle Nazioni Unite definiscono e considerano ‘occupati’, come un problema di sicurezza, di lotta al terrorismo palestinese. Insomma, provavano a dare al mondo di questa politica di occupazione, una versione difensiva. Ora non è più così. La legge voluta dalle destre altro non è che la ‘costituzionalizzazione’ del disegno di Eretz Israel, e nella Sacra Terra d’Israele chi non è Ebreo può essere al massimo tollerato, ma se scegliesse di andarsene nessuno si strapperebbe le vesti. Di una cosa, sono assolutamente convinto: una democrazia compiuta, solida, è quella che include e non emargina o addirittura cancella l’identità di un 20% della popolazione. Democrazia non è dittatura della maggioranza ma garanzia dei diritti delle minoranze. Minoranze che vanno riconosciute per ciò che sono, vale a dire comunità, e non come sommatoria di singoli cittadini”. Una distinzione che chiama in causa l’atteggiamento di quella parte dell’Israele sionista che pur criticando fortemente la legge in questione, sostiene che in discussione non è l’identità ebraica dello Stato ma la torsione fondamentalista data dalle destre.

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“Conosco queste posizioni – annota Odeh – posso comprenderne le motivazioni politiche e anche i presupposti culturali, ma non posso giustificarle. Perché l’orizzonte evocato da queste forze è quello della tolleranza. Certo, qualcuno potrebbe dire: meglio essere tollerati che venire considerati quinta colonna interna dei Palestinesi, collusi con i ‘terroristi’. Ma noi arabi israeliani non vogliamo essere tollerati, ma considerati cittadini ‘Israele a tutti gli effetti, né più né meno degli ebrei israeliani. E’ questa la sfida che lanciamo. Ma che fino ad oggi si è scontrata contro un muro di ostilità o d’incomprensione che, con l’esclusione del Meretz (sinistra laica e pacifista, ndr), ha visto tutte le forze d’ispirazione sionista, nelle diverse declinazioni, alla Knesset fare quadrato contro una proposta di legge che come parlamentari della Joint List avevamo presentato qualche settimana prima l’approvazione della legge su Israele, Stato-nazione ebraica.

La proposta di legge che avevamo presentato in Parlamento era centrata su un principio, su un articolo fondamentale: lo Stato d’Israele è lo Stato degli Israeliani! Ebbene, con un voto a larga maggioranza, trasversale, che ha riguardato anche le forze di centro e i Laburisti, non solo non si è messa ai voti quella proposta ma addirittura si è impedita la discussione. Non c’era niente di estremista nella nostra proposta, nessun intento provocatorio. Non si parlava degli insediamenti né si faceva riferimento, anche indiretto, alla pace con i Palestinesi. Si affermava un principio che dovrebbe essere basilare in uno Stato democratico: una comune appartenenza di ogni suo cittadino, indipendentemente dalla sua appartenenza etnica o religiosa”. Quanto all’infuocato dibattito parlamentare israeliano, in quel frangente, il consulente legale della Knesset Eyal Yinon aveva chiarito in un comunicato che “sia sul piano teorico che su quello specifico è difficile non vedere una simile proposta di legge come un tentativo di negare l’esistenza di Israele come Stato del popolo ebraico, e quindi, in base all’articolo 75(e) del regolamento, la commissione di controllo della Knesset ha la potestà di impedirne la presentazione.

Yinon ha sottolineato che la legge “comprende una serie di articoli che intendono modificare il carattere di Israele da Stato-Nazione del popolo ebraico a Stato in cui c’è uno status per ebrei ed arabi riguardo alla nazionalità.” Il consigliere giuridico ha anche detto che la legge sembra intesa per modificare principi basilari –cancellando per esempio essenzialmente la “Legge del Ritorno” (che sancisce il diritto di ogni ebreo di immigrare in Israele), e stabilendo invece che l’ottenimento della cittadinanza israeliana sia basato sull’appartenenza personale ad una famiglia di un altro cittadino dello Stato.” Inoltre, scrive Yinon, la legge nega il principio secondo cui i simboli dello Stato riflettono la rinascita nazionale del popolo ebraico, oltre al rifiuto dell’ebraico come lingua principale dello Stato.

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Della comunità arabo-israeliana, Ahmed Tibi, è una delle figure storiche, da sempre nel mirino della destra oltranzista israeliana per le sue posizioni radicali. Per colui che fu anche consigliere personale di Yasser Arafat, oltre che vice presidente della Knesset, la legge dello Stato-nazione indica la via dell’apartheid.  “Ha un elemento di ‘supremazia ebraica – spiega Tibi –  e la creazione di due classi separate di cittadini, una che gode di pieni diritti e una che ne è esclusa  – e anche nel secondo gruppo vi è uno sforzo per creare diverse categorie”. 

 Preoccupazione condivisa anche da Amir Fuchs, ricercatore dell’“Israeli democracy insitute”. “Il problema è che questa legge cambia l’equilibrio tra Israele come democrazia e Israele come Stato ebraico ed è molto chiaro che il legislatore non ha incluso il principio di uguaglianza tra i fondamentali come era scritto nella Dichiarazione di Indipendenza”. Tibi rifiuta la differenziazione fatta dai sostenitori della legge sulla nazionalità tra diritti collettivi, di cui godono gli ebrei, e diritti individuali, che sono dati a tutti gli altri. I diritti individuali, compresi quelli culturali e politici, derivano dall’appartenenza a una collettività, come la grande minoranza araba in Israele, sostiene deciso.  Una considerazione, quest’ultima, che trova il consenso di uno dei più autorevoli scienziati della politica israeliani, il professor Shlomo Avineri, che in un editoriale su Haaretz ha espresso la stessa posizione: “Non si possono separare i diritti dei singoli cittadini dalla loro coscienza sulla loro identità, cultura, tradizione, lingua, religione e memoria storica”.  Gli arabi stanno protestando contro i tentativi per ridimensionare il loro status, dice ancora Tibi, in uno scenario di settant’anni di discriminazione ufficiale. Un disegno in continuità mirato a quanti Tibi definisce “cittadini indigeni”. Il messaggio è netto, chiaro, brutale: sei tollerato e dovresti accontentarti delle nuove strade e delle cliniche che creiamo per te di volta in volta. 


La minoranza araba che vive e lavora in Israele si è sempre sentita discriminata e trattata come “cittadini di serie B”. Adesso, concordano analisti indipendenti a Tel Aviv, si sentiranno cittadini neanche di serie C o D o S o Z, semplicemente non si sentiranno più dei cittadini. E quindi il rischio delle tensioni è un rischio moltiplicato. “Noi arabi israeliani rivendichiamo con orgoglio la nostra identità – sottolinea ancora Odeh –  conosciamo la Storia, ma non brandiamo identità e Storia come armi per creare divisioni nella società israeliana.

Di questa società, piaccia o no ai signori Netanyahu, Ben-Gvir, Smotrich e agli altri esponenti della destra razzista al governo –  noi ci sentiamo parte. Una parte che rivendica con orgoglio le proprie radici culturali, linguistiche. Ed è per questo, che tra le norme contenute nella legge, una di quelle che più hanno ferito gli arabi israeliani, è stato il declassamento della lingua araba, non più considerata come seconda lingua d’insegnamento.” Conoscere la propria lingua, far sì che sia parte di un corso di studi, rafforza una comunità nazionale, la fa sentire, in ogni sua componente, più partecipe. Così invece si umilia una sua parte”.

Una umiliazione istituzionalizzata.

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