Israele, è nato il governo haredi: un punto di non ritorno
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Israele, è nato il governo haredi: un punto di non ritorno

Quello appena insediatosi non è “solo” un governo di destra. Di questi tempi ci può stare, lo sappiamo bene noi in Italia. Quello che è nato in Israele è il governo haredi. Un governo segnato dall’impronta fondamentalista ed etnocratica

Israele, è nato il governo haredi: un punto di non ritorno
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

29 Dicembre 2022 - 18.06


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Non è un incidente di percorso. E’ un punto di non ritorno. Il compimento di una mutazione che va ben oltre la sfera della politica. Il sesto governo a guida Netanyahu, il primo ministro più longevo nella storia d’Israele, non è il proseguimento dei cinque precedenti. Quello appena insediatosi non è “solo” un governo di destra. Di questi tempi ci può stare, lo sappiamo bene noi in Italia. Quello che è nato in Israele è il governo haredi. Un governo segnato dall’impronta fondamentalista ed etnocratica propria della componente più oltranzista del Paese, quella ispirata da un messianesimo religioso che non ammette altro da sé. Il governo dell’anarchia nera.

L’anarchia “nera”

Scrive Yossi Klein su Haaretz: “Più della metà dei membri della nuova coalizione di governo differiscono tra loro per le pratiche religiose, ma sono simili per l’estremo ultranazionalismo. Non esistono più “politici religiosi moderati”. Per la maggior parte di loro, uno Stato governato dalla legge ebraica è l’opzione preferita.
La lenta ma costante acquisizione da parte dei religiosi dell’esercito e del sistema educativo è motivo di preoccupazione che si trasforma in paura che lascia il posto all’odio. E sono proprio gli ultraortodossi ad aver percorso la strada più lunga dalla moderazione all’estremismo sionista haredi. Gli Haredim non sono i peggiori, ma sono i più odiati. I sondaggi mostrano che gli israeliani odiano gli Haredim. Il sito web di ricerca dati in lingua ebraica Hamadad, che indaga e riferisce sulla politica, la società, l’identità e la cultura israeliana, descrive come “preoccupato” l’atteggiamento di circa l’80% degli ebrei laici nei confronti del “contenuto ebraico” nelle scuole pubbliche non religiose. Una percentuale simile di laici è preoccupata per i finanziamenti statali alle scuole Haredi che non insegnano matematica, scienze e inglese.
Gli ebrei laici sono preoccupati di ciò che accadrà a loro, non agli Haredim. Si preoccupano di ciò che accadrà loro quando, tra 30 anni, un israeliano su tre sarà un ebreo haredi. Allora, dopo una breve ma aspra battaglia, i laici ammetteranno la sconfitta. I numeri sono contro di loro. In una democrazia in cui l’unica regola è “la maggioranza decide”, non è possibile un altro risultato. Gli ebrei laici arriveranno a questa breve e aspra battaglia pieni di un odio radicato nella paura. La paura che gli Haredim abbiano ciò che loro non hanno: sostegno politico, finanziamenti statali e la capacità di mobilitare le masse e controllarle. Li spaventa pensare che i sionisti haredi di varie sfumature non si accontentino di un controllo limitato. Perché dovrebbero accontentarsi solo dei portafogli degli alloggi, delle finanze, dei servizi religiosi e della sanità? Vorranno di più, e potete immaginare a spese di chi. Faranno leva sui loro enormi numeri per ottenere una fonte fluente di posti di lavoro, indennità e stanziamenti governativi. Oggi esiste un muro tra ebrei haredi e laici. Senza di esso, queste forze diseguali si scontrerebbero. Basta guardare a ciò che sta accadendo a Beit Shemesh. Gli ebrei laici temono che questa separazione diventi porosa. Temono che Bnei Brak invada Tel Aviv. Questa paura è comprensibile. Basta guardare le enormi proteste e le processioni funebri degli Haredi. È facile immaginare una folla enorme e determinata che da Bnei Brak si dirige verso ovest, scende (e sale) per Jabotinsky Street a Ramat Gan fino a Tel Aviv, passando per il complesso difensivo di Kirya e per le vie Ibn Gabirol e Ben-Yehuda, sommergendo tutto ciò che la ostacola.
Un’onda aliena che si abbatte su Tel Aviv. Ma aspettate: Gli Haredim sono stranieri? Sì, anche dopo aver vissuto accanto a noi per tanti anni, sono ancora stranieri. Ci nutriamo solo di film, notizie e pregiudizi; non sappiamo molto di loro. Hanno scelto l’alienazione, temendo che la vicinanza potesse invogliare alla defezione. Non ci sono incontri organizzati tra gruppi di adolescenti haredi e laici. In ogni caso la loro capacità di compromesso è limitata. Con loro, non esiste il concetto di “andare a metà strada” o “incontrarsi nel mezzo”. Il risultato è la disconnessione, la paura e l’odio. Odiamo e ci vergogniamo. I sondaggi non hanno misurato la quantità di vergogna che il nostro odio comporta. Com’è potuto accadere che persone illuminate e progressiste come noi stiano utilizzando gli stessi strumenti che le persone hanno utilizzato in passato per odiarci – generalizzazioni, stereotipi, pregiudizi? Noi, tra tutti, rivolgiamo a loro le stesse accuse che un tempo venivano rivolte ai nostri antenati: estorsione, sciacallaggio, separatismo. La risposta è che non odiamo gli haredim come individui. Ogni laico conosce qualche haredim che non è sfruttatore, chiuso o bugiardo, che non si preoccupa se la metropolitana leggera funziona di Shabbat, che vuole solo essere lasciato in pace. Non odiamo lui, ma le persone che parlano in suo nome, e anche i rabbini e i giornalisti di corte. Odiamo l’avidità del presidente del partito Shas Arye Dery, l’estremismo sionista haredi del deputato di United Torah Judaism Moshe Gafni e la spocchia del presidente del partito del Sionismo Religioso Bezalel Smotrich, che è certo che Dio gli abbia messo in mano una spada per sistemare le cose qui. Rientrano in tutti gli stereotipi Haredi: parassiti estorsori e sfruttatori.
Sono uno specchio della nostra credulità, che riflette la nostra sciocca convinzione che l’abbinamento delle parole “ebreo” e “democratico” protegga i nostri diritti di individui. Hanno riconosciuto l’assurdità di questo binomio. Volete “democratico”? ci hanno chiesto con una strizzatina d’occhio. Allora prendetelo, perché no? In ogni caso, la abrogheremo. Dopo tutto, ci avete dato gli strumenti per farlo. A differenza nostra, loro sanno esattamente il tipo di Stato che vogliono. Sanno cosa pensano debba accadere ai palestinesi, agli ebrei secolari e alle loro vacche sacre. Si sono trasformati da moderati in estremisti sionisti Haredi, perché questa è la strada sicura per ottenere finanziamenti governativi. Sono il sogno di ogni antisemita”. Così Klein.
Il monito di Grossman

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Da un articolo del grande scrittore israeliano pubblicato in Italia da la Repubblica: “[…]Durante le trattative per formare il nuovo governo, continuava a girarmi in testa un versetto del libro di Isaia: «Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro». In sottofondo, come una tortura cinese, sento costantemente Moshe Gafni che proclama: «Metà della popolazione studierà la Torah e metà servirà nell’esercito». E ogni volta il mio cervello brucia, questa volta, in parte, per ragioni del tutto personali.

Le trattative, che ricordavano molto da vicino un assalto alla diligenza, guizzavano di fronte ai nostri occhi in rapidi fotogrammi, sprazzi di una logica aliena e provocatoria: «La clausola di annullamento», «la legge di discriminazione», «Smotrich avrà l’ultima parola sulle costruzioni  in Cisgiordania», «Ben-Gvir potrà costituire una milizia privata in Cisgiordania», «il criminale recidivo Dery potrà…». In un battito di ciglia, con frenesia crescente, con la destrezza di mano del truffatore che fa il gioco delle tre carte per strada

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Sappiamo che in questo esatto momento qualcuno ci sta raggirando, che qualcuno si sta mettendo in tasca non solo i nostri soldi, ma anche il nostro futuro e quello dei nostri figli, l’esistenza che volevamo creare qui, uno Stato dove, nonostante tutti i suoi limiti e i suoi punti ciechi, la possibilità di diventare un Paese civile ed egualitario, un Paese con la forza per assorbire contraddizioni e divergenze, un Paese che un giorno potrà riuscire a liberarsi della maledetta occupazione, ogni tanto trapela. Un Paese che possa essere ebraico e credente e laico, una potenza tecnologicamente avanzata e tradizionale e democratica, e anche una casa accogliente per le sue minoranze. Uno Stato israeliano dove la molteplicità di dialetti sociali e umani non crei necessariamente paure, minacce reciproche e razzismo, ma conduca al contrario a una fertilizzazione reciproca e a una fioritura.

Ora, dopo che la polvere si è posata, dopo che le dimensioni della catastrofe sono diventate evidenti, Benjamin Netanyahu può anche raccontarsi che seminando il caos ha raggiunto i suoi obiettivi – distruggere il sistema legale, la polizia, l’istruzione e tutto ciò che odori anche vagamente di «sinistra» – e che quindi ora potrà riportare indietro le lancette, cancellare o almeno attenuare la folle e disonesta visione del mondo che lui stesso ha creato e tornare a guidarci in modo appropriato, legale, razionale. Tornare a essere un adulto responsabile in un Paese ben governato.

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Ma potrebbe scoprire che dal punto in cui ci ha portati non esiste possibilità di ritorno. Sarà impossibile eliminare o anche semplicemente addomesticare il caos che ha creato. I suoi anni di caos hanno già inciso qualcosa di tangibile e spaventoso nella realtà, nell’anima delle persone che li hanno vissuti. Sono qui. Il caos è qui, con tutta la sua forza di risucchio. Gli odi interni sono qui. Il disprezzo reciproco è qui, così come la violenza crudele nelle nostre strade, sulle nostre autostrade, nelle nostre scuole e nei nostri ospedali. Anche coloro che chiamano bene il male e male il bene sono già qui. Pure l’occupazione, con ogni evidenza, non finirà in un futuro prossimo; è già più forte di tutte le forze oggi attive nell’arena politica. Quello che è cominciato ed è stato affinato con grande efficacia laggiù ora si sta infiltrando quaggiù. Le fauci spalancate dell’anarchia  – conclude Grossman – mostrano le zanne alla più fragile democrazia del Medio Oriente”.

Il titolo dell’articolo di David Grossman è: “Con il ritorno di Netanyahu Israele precipita verso l’anarchia”.

Il titolo, si sa, non sono responsabilità dell’autore. E’ una sintesi redazionale o, nel caso di articoli particolarmente importanti, e questo certamente lo è, della direzione. Con tutto il rispetto per il direttore Molinari, ci pare che il grido d’allarme lanciato dal grande scrittore israeliano sia un po’ più profondo e drammatico.  Israele non “precipita verso l’anarchia”. Semmai verso una guerra civile o, comunque, verso un punto di non ritorno. Cosa che Globalist ha raccontato con il contributo delle firme più autorevoli del giornalismo progressista israeliano. Non si tratta di “anarchia”. Si tratta di fascismo. E questo non è un rischio. E’, purtroppo, una certezza. 

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