Israele-Palestina, la balcanizzazione
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Israele-Palestina, la balcanizzazione

L'Autorità Palestinese sta cadendo a pezzi e, come corollario, i suoi servizi di sicurezza si stanno indebolendo. Di conseguenza, Hamas e la Jihad islamica stanno guadagnando influenza

Israele-Palestina, la balcanizzazione
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

12 Ottobre 2022 - 17.30


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Israele-Palestina, la balcanizzazione, un paradigma insanguinato e quella tragica verità.

Scrive Yossi Melman su Haaretz: “Nello  Yom Kippur del 1973, Israele fu sorpreso dagli attacchi egiziani e siriani nel Sinai e sulle alture del Golan perché era prigioniero di un paradigma che era stato adottato dai vertici militari, in particolare dall’intelligence militare, e felicemente abbracciato dal governo senza che nessuno lo contestasse. Questo paradigma, noto in ebraico come “il concetto”, sosteneva che l’Egitto era troppo debole militarmente per lanciare una guerra e che la Siria non avrebbe iniziato una guerra da sola. Anche oggi le istituzioni militari e politiche sono intrappolate in un paradigma sui palestinesi. E anche oggi il risultato è l’arroganza, il pensiero stagnante e la cecità diplomatica e militare. Il paradigma che Israele ha coltivato per diversi anni è che l’Autorità Palestinese non è un partner per la pace perché è debole, corrotta e nel mezzo di una transizione di leadership dalla generazione dei fondatori, Yasser Arafat e Mahmoud Abbas, alla generazione successiva. Due punti di partenza guidano il pensiero di Israele. Il primo è che gli interessi del popolo palestinese, almeno in Cisgiordania, sono di natura economica, quindi finché a più di 100.000 palestinesi sarà permesso di guadagnarsi da vivere in Israele e negli insediamenti, Israele non avrà bisogno di avviare un processo diplomatico. Il secondo è che, dato l’interesse dell’Autorità palestinese a rimanere al potere, i suoi servizi di sicurezza continueranno a lavorare come subappaltatori per gli sforzi antiterroristici delle Forze di Difesa israeliane e del servizio di sicurezza Shin Bet, cercando di impedire ad Hamas e alla Jihad islamica di rafforzarsi in Cisgiordania. Pertanto, il massimo che Israele può fare è gestire il conflitto.


Questa convinzione si sta rivelando sbagliata. Ogni attacco in Israele o in Cisgiordania, e ogni ingresso dell’IDF nelle città palestinesi che impiega una forza irragionevole e provoca altre vittime palestinesi, mina lo status quo che Israele santifica. Dall’inizio dell’anno, 24 israeliani – civili, soldati e agenti di polizia sia in Israele che in Cisgiordania – sono stati uccisi o feriti. Nello stesso periodo, 107 palestinesi sono stati uccisi in operazioni dell’Idf e dello Shin Bet, mentre migliaia sono stati arrestati, tra cui centinaia di persone detenute senza processo. L’establishment della difesa conferma che c’è stato un forte aumento del numero di attacchi contro gli israeliani rispetto all’anno scorso.


Tuttavia, gli israeliani continuano a pensare al passato, alla prima e alla seconda intifada, all’intifada dei lupi solitari e all’intifada dei coltelli, anche se il Paese è già immerso in un’ondata di terrore e violenza di tipo nuovo. L’Autorità Palestinese sta cadendo a pezzi e, come corollario, i suoi servizi di sicurezza si stanno indebolendo. Di conseguenza, Hamas e la Jihad islamica stanno guadagnando influenza e, soprattutto, stanno sorgendo nuove milizie armate – le armi sono disponibili in abbondanza e facili da ottenere – composte da giovani che non rispondono all’autorità di alcuna organizzazione o leadership. Si dice che in Israele si stia radicando un regime di apartheid, ed è vero. Ma il pericolo maggiore è che il conflitto porti a una balcanizzazione di Israele e dei palestinesi. Le guerre che hanno seguito la disgregazione della Jugoslavia sono nate dal fatto che comunità con background etnici, razziali, religiosi e nazionali diversi avevano formato un mosaico che non consentiva più la convivenza. Quelle guerre hanno comportato attriti incessanti che hanno portato a spargimenti di sangue, pulizia etnica, omicidi, stupri e alla violazione sistematica dei diritti umani e delle norme e dei valori umani fondamentali.
La stessa cosa potrebbe accadere in Cisgiordania e nelle città miste ebraico-arabe all’interno di Israele. Ma non è troppo tardi per evitarlo. Israele deve non solo riportare in discussione la soluzione dei due Stati, come ha fatto di recente il Primo Ministro Yair Lapid, ma anche compiere passi concreti per avviare un processo diplomatico che rafforzi l’Autorità Palestinese e ravvivi le speranze di raggiungere un accordo.

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Nella prima fase, tali passi potrebbero essere simbolici, come il trasferimento dei villaggi dell’Area C – il 60% della Cisgiordania attualmente sotto il pieno controllo israeliano – al controllo dell’Autorità palestinese, la ripresa degli incontri diplomatici e del dialogo tra gli inviati israeliani e palestinesi all’estero, o qualsiasi altro passo simbolico che implichi lo sventolare ufficialmente sia della bandiera palestinese che di quella israeliana in qualche evento. Questi passi, uniti alla riduzione delle operazioni notturne dell’Idf e dello Shin Bet, che non fanno altro che aumentare l’attrito – pur senza compromettere la necessità di sventare gli attacchi – aiuterebbero Israele a liberarsi dal paradigma del 2022”.

Così Melman.

Quel bilancio di sangue

Rimarca, sempre sul giornale progressista di Tel Aviv, Amos Harel: “[…]Ad oggi, oltre 100 palestinesi sono stati uccisi in incidenti con le forze dell’Idf e in tentativi di attacchi terroristici, il numero più alto dal 2015. Lo scorso fine settimana, quattro palestinesi sono stati uccisi: due adolescenti colpiti dai soldati durante gli scontri nei pressi di Qalqilyah e nell’area di Ramallah, e due giovani durante uno scambio di fuoco tra l’Idf e uomini armati durante un’operazione di arresto israeliana a Jenin. Un quinto palestinese, un ragazzo di 12 anni, colpito durante un raid delle Idf nel campo profughi di Jenin il 28 settembre, è morto per le ferite riportate lunedì.
L’Idf distingue ancora tre aree in Cisgiordania. A Jenin, l’Autorità Palestinese ha perso completamente il controllo. Israele opera all’interno e nei dintorni della città quasi ogni giorno, tra continui e intensi attriti con le squadre armate. A Nablus sono aumentati gli incidenti con armi da fuoco, ma l’Autorità palestinese sta cercando in qualche modo di imporre la propria autorità sulle organizzazioni indipendenti (a partire da quella che si fa chiamare Tana del Leone). L’AP ha mantenuto il controllo delle aree a sud di Nablus, “da Tapuah Junction verso sud”, e il numero di incidenti finora non è elevato. Gli ufficiali dello Stato Maggiore sostengono che le tensioni in Cisgiordania non richiedono un'”Operazione Scudo difensivo 2″ e che al massimo sarà necessario in futuro concentrare le attività nell’area di Jenin e forse di Nablus.
La portata dell’influenza di Hamas sugli eventi in Cisgiordania è ancora considerata bassa, nonostante il grande sforzo che la leadership dell’organizzazione nella Striscia di Gaza sta facendo per alimentare le fiamme. La stragrande maggioranza dei palestinesi che sono stati arrestati dal servizio di sicurezza Shin Bet in relazione a sparatorie ha dichiarato durante l’interrogatorio di non essere affiliato a nessuna organizzazione e che le loro azioni non sono state dettate dall’alto”. 
Quella tragica verità

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“Sarei entrato in un’organizzazione terroristica.”
–risposta di  Ehud Barak a Gideon Levy, giornalista del quotidiano Haaretz, quando chiese a Barak che cosa avrebbe fatto se fosse nato palestinese.

Esisti se terrorizzi

 In quella frase del militare più decorato nella storia d’Israele, diventato poi Primo ministro, c’è l’essenza di una tragedia irrisolvibile. Una tragedia che chiama in causa tutti. E quando intendo “tutti”, penso alla comunità internazionale, certo, ma anche a chi fa informazione. I palestinesi fanno notizia solo se terrorizzano, altrimenti non esistono. Semplicemente. O sono “shahid” (martiri) o entrano nel grande esercito dei dannati della terra dimenticati, sepolti nell’oblio. Chi scrive ha iniziato a seguire l’eterno conflitto in Terrasanta nel dicembre del 1987, allora lavoravo a Rinascita, quando ebbe inizio la prima Intifada, la “rivolta delle pietre”, una ribellione di popolo che impose la questione palestinese di nuovo al centro dei riflettori internazionali. D’allora sono passati 35 anni. Ho perso il conto delle volte, tante, in cui sono stato nei Territori, nella Palestina occupata. Ciò che mi è rimasto sempre impresso nella memoria, e nel cuore, è soprattutto l’inferno di Gaza. Ho visitato la Striscia prima e dopo l’inizio dell’embargo imposto da Israele, quindici anni fa e mai interrotto. Non potrò mai dimenticare, mai, lo sguardo di quei bambini a cui veniva rubata l’infanzia e, per molti, la vita. Lo sguardo di chi fin dal suo nascere ha conosciuto solo la violenza, gli attacchi israeliani, le case ridotte in un cumulo di macerie. Bambini che giocavano a scalare montagne di rifiuti, in strade sterrate con le fogne a cielo aperto. 

Degli errori e dei fallimenti delle fazioni palestinesi avrò scritto centinaia e centinaia di articoli, ultimi su Globalist. Non sono mai stato tenero con Hamas, Fatah, l’Autorità nazionale palestinese. Ma questo non ha mai cancellato la domanda che Gideon Levy, una delle icone del giornalismo israeliano, fece a Ehud Barak. Quella domanda me la sono posta tante volte, e la risposta è stata la stessa che il soldato più decorato nella storia d’Israele ebbe a dare. Chi entra in un campo profughi, nella Striscia o nella West Bank, si guarda intorno, raccoglie testimonianze, usa tutti i sensi umani, alla fine non può non può che giungere all’amara conclusione che l’interrogativo vero non è perché molti di quei ragazzi si sono fatti strumento di morte, ma perché non avrebbero dovuto farlo.

“Nulla di ciò che visto in Sudafrica può essere paragonato a Gaza dal punto di vista della miseria, dell’oppressione pianificata, della segregazione  e della discriminazione razziale…”.

E ancora: “Il campo di Jabalya è il posto più spaventoso che abbia mai visto. I bambini che affollano le viuzze non lastricate, hanno negli occhi una luce che contrasta con l’espressione di tristezza e sofferenza infinita stampa sui volti degli adulti. Non esiste una rete di fognatura, il fetore dà il voltastomaco, e ovunque si volga lo sguardo si vede una massa di persone vestite di stracci…”.  Edward Said Tra guerra e pace. Ritorno in Palestina-Israele (Feltrinelli)

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A riportarmi su questo tema, è un articolo di qualche tempo fa su Haaretz di Gideon Levy. Duro, ma vero. Perché dice quello che gli ipocriti di cui è piena la stampa mainstream, anche di casa nostra, non hanno il coraggio neanche di pensarlo, figuratevi di scriverlo.

“ La via del terrore è l’unica via aperta ai palestinesi per combattere per il loro futuro. La via del terrore è l’unico modo per loro di ricordare a Israele, agli stati arabi e al mondo la loro esistenza. Non hanno altra via. Israele ha insegnato loro questo. Se non usano la violenza, tutti si dimenticheranno di loro.

Questa non è una speculazione ipotetica, è stato dimostrato nella realtà, più e più volte. Quando sono tranquilli, l’interesse per la loro causa evapora e svanisce dall’agenda di Israele e del resto del mondo.

Guarda cosa succede a Gaza tra le raffiche di razzi. Chi ci presta attenzione? Chi se ne preoccupa? Tutti vogliono già dimenticare l’esistenza dei palestinesi. La gente è stanca di sentir parlare della sofferenza palestinese e il silenzio lo rende possibile. Solo quando le pallottole volano, i coltelli colpiscono e i razzi esplodono, la gente si ricorda che c’è un altro popolo con un problema terribile che deve essere risolto. La conclusione è dura e terrificante: Solo attraverso il terrorismo saranno ricordati, solo attraverso il terrorismo potranno ottenere qualcosa. Una cosa è certa: se mettono giù le armi, sono condannati a diventare i nativi americani del Medio Oriente – una minoranza dimenticata la cui causa è stata estinta per sempre.

Si può discutere sulla legittimità del terrore palestinese e sulla sua definizione: Chi uccide di più e chi è più brutale, Israele o loro. La violenza è sempre brutale e immorale: la violenza dei terroristi che sparano indiscriminatamente su passanti innocenti e la violenza in uniforme sancita dallo stato contro i palestinesi, compresi quelli innocenti, come una questione di routine. palestinesi sono stati relativamente tranquilli per mesi, mentre subivano la violenza e seppellivano i loro morti e perdevano le loro terre, le loro case e gli ultimi brandelli di dignità. E cosa hanno ottenuto in cambio? Un governo israeliano che dichiara che la questione del loro destino non sarà discussa nel prossimo futuro perché non è comodo per il governo nella sua composizione attuale.

Poi hanno ottenuto il vertice Sde Boker. Sei ministri degli esteri che dicono loro: Il vostro destino non ci interessa. Ci sono questioni più urgenti e interessi più importanti. Cosa pensavano lì, all’hotel Kedma? Che si sarebbero fatti fotografare, avrebbero sorriso e abbracciato e visitato la tomba del fondatore di Israele, il comandante che ha supervisionato la Nakba – “Qui è dove tutto è cominciato”, come ha detto Yair Lapid – e i palestinesi avrebbero applaudito? Che i palestinesi avrebbero visto come venivano lasciati sanguinanti sul ciglio della strada e sarebbero rimasti in silenzio? Che forse si sarebbero accontentati delle 

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