Irlanda del Nord: un insegnamento globale
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Irlanda del Nord: un insegnamento globale

L'intervista a John Crawley, un'anomala figura di volontario dell'IRA passato dai Marines prima di tornare in Irlanda a combattere contro gli inglesi.

Irlanda del Nord: un insegnamento globale
John Crawley
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2 Settembre 2022 - 16.29


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di Rock Reynolds

Mentre ai margini orientali dell’Europa infuria una guerra fratricida, l’Irlanda rischia di essere ancora una volta un laboratorio in cui sperimentare difficili convivenze tra fazioni religiose e gruppi di interesse, una fucina perversa di lotte intestine, scontri per il potere e alleanze di comodo più che di valore. Scossa da fermenti patriottici secolari, almeno da quando, nel 1649, Oliver Cromwell stabilì con la forza il giogo britannico sul suo territorio, l’isola è insorta per scrollarselo finalmente di dosso nella settimana di Pasqua del 1916, prima di approdare al trattato angloirlandese del 1921, con la divisione ufficiale tra la Repubblica di Irlanda e la cosiddetta Irlanda del Nord, sotto la giurisdizione britannica: una soluzione che ha dato vita a una sanguinosa guerra civile culminata con l’uccisione di Michael Collins, il leader militare che l’aveva voluta e ottenuta senza averne pieno mandato. Il resto lo conosciamo bene: poco meno di cinquant’anni di calma apparente, prima che gli slanci libertari della fine degli anni Sessanta riproponessero la questione in tutta la sua drammaticità, con altri trent’anni di scontri e violenze settarie culminati con la sottoscrizione degli “Accordi del Venerdì Santo” del 1998, la storica pace tra IRA e Gran Bretagna. Anche in questo caso, il mandato a trattare non era in bianco e le concessioni strappate agli inglesi e, soprattutto, quelle fatte agli odiati colonizzatori hanno lasciato l’amaro in bocca a buona parte dei volontari che, tra mille tribolazioni, erano sopravvissuti a un trentennio di violenze.

The Yank (Merrion Press), che speriamo possa presto vedere la luce in una traduzione italiana, raccoglie le riflessioni di John Crawley, un cittadino angloamericano che ha deciso di entrare nel corpo dei Marines con un unico obbiettivo: ottenere un elevato livello di addestramento militare per poter affrontare gli inglesi ad armi pari. Le sue analisi sulle ragioni del conflitto sono degne di un trattato politico e indicano quanto fragile sia la via del dialogo se le ragioni dei più deboli vengono barattate con denaro, privilegi e false promesse. Nella fase di incertezza politico-militare che l’Europa sta attraversando, si tratta di una lezione preziosa. Come le parole stesse di Crawley.

A che punto sta la lotta?

Un punto pessimo per chiunque si sia battuto per un’Irlanda unita. Allo stesso modo in cui i negoziati per il trattato angloirlandese del 1921 non sono iniziati che dopo la partizione dell’Irlanda a opera degli inglesi, nel 1920, i negoziati del Venerdì Santo sono iniziati solo dopo che la Gran Bretagna aveva stabilito i parametri dei loro esiti. La repubblica irlandese per la quale abbiamo combattuto non è mai stata sul tavolo dei negoziati. La strategia britannica consisteva nel far approdare i repubblicani al dialogo, ma nel lasciarne fuori l’ideologia repubblicana. Tutti i partiti nazionalisti favorevoli agli accordi, compreso lo Sinn Féin, sono stati spinti a sostenere e a far propria l’interpretazione britannica delle limitazioni democratiche dell’Irlanda, finendo per disconoscere l’unitarietà democratica dell’Irlanda stessa. L’Irlanda unita proposta dagli Accordi del Venerdì Santo mantiene intatta la dinamica settaria tra gli unionisti protestanti e i nazionalisti cattolici, offrendo un’unità territoriale in cambio della garanzia di una divisione civica continuativa e un posto duraturo in cui la Corona britannica possa rappresentare una fazione di minoranza che preferirebbe essere presidio post-coloniale piuttosto che cittadina di una repubblica irlandese. Non vedo prospettive di cambiamento nel futuro prossimo. Nel 1998, il primo ministro britannico Tony Blair disse che il suo governo non avrebbe mai spinto per un’unità irlandese e che nemmeno i più giovani al momento della firma degli accordi avrebbero visto un’Irlanda unita nel corso della loro vita. La Brexit ha decisamente destabilizzato la situazione, ma non al punto da spingere gli inglesi a ripensamenti sulla giurisdizione che esercitano sul nostro paese. La strategia inglese continuerà a essere quella che è stata dalla metà del XIX secolo, incoraggiando, manipolando e convincendo quanti più cittadini possibile a diventare complici nella divisione costituzionale e settaria del loro paese.

Cosa l’ha spinta alla lotta armata?

Non ho mai considerato i “Troubles” una guerra civile. Li ho sempre visti come l’ennesima fase della lotta plurisecolare tra Irlanda e Inghilterra per stabilire se la sovranità irlandese spetti agli irlandesi piuttosto che alla Corona. Ovviamente, un elemento di contrasto interno esiste, come in tutti i conflitti coloniali, dato che una percentuale della popolazione resta leale al vecchio ordine e non vuole l’indipendenza, come è successo con i lealisti nella rivoluzione americana o i Pied Noir in Algeria. Gli unionisti dell’Ulster sono i discendenti dei coloni protestanti inviati dall’Inghilterra e dalla Scozia quattrocento anni fa per espropriare terre in quella parte di Irlanda che aveva opposto la resistenza più strenua e prolungata alla conquista britannica. Si è trattato di un atto di pulizia etnica concepito per far sì che la provincia settentrionale dell’Irlanda non si ribellasse più e per trasformarla da faro di resistenza a bastione contro di essa. È stata la Corona, simbolo di sovranità britannica, a espropriare le terre dell’Irlanda ed ecco perché è così importante nell’iconografia unionista. Simboleggia i due pilastri del protestantesimo coloniale: confisca e supremazia settaria. La Gran Bretagna è intimamente uno stato settario e la dinamica settaria insita nella politica irlandese ne è la conseguenza. L’identificazione tra cittadinanza britannica e protestantesimo è un atto di legge, da quando l’Act of Settlement del 1701 ha fatto divieto a un cattolico di salire sul trono. Non sono entrato a far parte dell’IRA per vendicarmi di quanto combinato dagli inglesi, per esempio degli attentati di Dublino e di Monaghan del 1974, bensì perché intendevo oppormi alla loro campagna armata per il mantenimento di un’Irlanda divisa e per la negazione di un’Irlanda democratica unita. A ispirarmi sono stati ideali nobili e non spinte vendicative.

Lei sottolinea spesso la profonda disorganizzazione militare dell’IRA. Cosa le è parso particolarmente non adeguato alla guerra che combattevate?

Poco prima del mio diciottesimo compleanno, tornai in America dall’Irlanda per entrare nei Marines, diventando istruttore di un reparto di élite e restandovi quattro anni. Al mio ritorno in Irlanda, mi ritrovai a far parte di un’organizzazione fatta principalmente di volontari senza il minimo addestramento militare. E la stessa leadership ne era sprovvista. Non ce l’ho con loro per questo, però critico una minoranza ristretta quanto influente che non sembrava interessata a migliorare le nostre competenze tecnico-tattiche. Una volta, udii un membro del consiglio direttivo dell’IRA ripetere più volte che imparare a sparare sarebbe stato un gioco da ragazzi. Io gli spiegai che le cose non stavano esattamente così e che erano necessari vari accorgimenti e nozioni essenziali. Sono convintissimo che un membro della struttura di comando dell’IRA avesse un interesse personale a mantenere le cose su quello che finì per essere noto come un “livello accettabile di violenza”, onde evitare di provocare una reazione degli inglesi in grado di mettere a rischio la sua posizione di leader del movimento. Naturalmente, tale persona non lo avrebbe mai ammesso.

Ebbe mai la sensazione che tale disorganizzazione dipendesse da qualcuno che faceva il doppio gioco più che da mera incompetenza?

Difficile a dirsi. Alcune situazioni mi fecero pensare a un sabotaggio organizzativo. So che la maggior parte dei capi fece del proprio meglio con le scarse risorse a loro disposizione. Altri parevano offendersi ogni volta che si proponevano migliorie, come se la cosa implicasse la loro incompetenza. Il loro ego aveva la precedenza sulla loro efficienza in quanto comandanti militari.

In ogni guerra, il più forte denigra il nemico. Com’è stato per lei sentirsi definire un terrorista?

Il termine “terrorista” è un’ingiuria politica. Viene utilizzato come strumento di propaganda per far apparire criminale e irrazionale agli occhi del pubblico un guerrigliero o un’organizzazione della resistenza. Convengo che utilizzare dei civili come obbiettivo voluto sia un atto di terrorismo, ma l’IRA non l’ha mai fatto. Purtroppo, vittime civili non volute ci sono state in casi in cui attentati dinamitardi sono andati diversamente da come erano stati concepiti o gli avvertimenti non sono stati inoltrati nel modo corretto. Ma noi abbiamo sempre fatto il possibile per evitare vittime civili. Non avrei mai potuto sostenere un’organizzazione che prendesse di mira i civili. Non mi importava come ci etichettassero gli inglesi. Nei lunghi anni dell’impero britannico, avevano spesso chiamato terroristi i loro oppositori in armi e li avevano trattati come statisti quando gli aveva fatto comodo. 

Si sente più irlandese o Americano?

Mi sento totalmente irlandese. Nonostante io ammiri la costituzione americana e la sua forma di governo democratico, sono contrario a buona parte della politica estera americana. Soprattutto quando la priorità degli USA è difendere il capitalismo a spese della democrazia. Sono in disaccordo con la dottrina della superiorità americana o con l’idea che una nazione che conta il 4% della popolazione globale abbia il diritto automatico a ergersi a poliziotto del resto del mondo.

Perché la causa repubblicana non ha mai ottenuto il pieno appoggio della Repubblica d’Irlanda, che spesso l’ha apertamente osteggiata, schierandosi al fianco della Gran Bretagna?

Molti nazionalisti irlandesi, soprattutto quelli che ambiscono a posizioni di potere e influenza, non si fanno particolari scrupoli ad accettare certi dettami inglesi. Molti, se gli inglesi facessero pressioni forti, si accontenterebbero di una sovranità compromessa, di una forma di autonomia che certo non rappresenterebbe un’indipendenza completa. Nonostante il mito di un’Irlanda che nei secoli si è battuta strenuamente per la libertà, la realtà è che la cultura politica irlandese predominante si sforza da sempre di uniformarsi a condizioni e vincoli costituzionali britannici relativi al livello di autonomia che la Gran Bretagna è disposta a garantire all’Irlanda. Gli irlandesi propensi a tale approccio – che gli inglesi chiamano “moderati” – convincono l’elettorato che non c’è alternativa, se davvero si vuole la pace. Di fatto, sposano la teoria secondo la quale dobbiamo dimostrare agli inglesi che ci meritiamo l’autogoverno. E, quindi, che non metteremo mai i nostri interessi interni al di sopra degli interessi strategici della Gran Bretagna e non ci opporremo mai alle limitazioni alla nostra democrazia imposte dagli inglesi. È proprio sulla base di un blocco del progetto repubblicano che gli inglesi hanno consentito al Sud dell’Irlanda di sopravvivere in quanto entità politica a sé stante. Ciò è scritto nel trattato angloirlandese che ha legittimato l’Irlanda del Nord, un sistema politico instaurato perfidamente dagli inglesi ben prima che i negoziati si avviassero. I repubblicani irlandesi sono odiati e temuti dalla classe politica irlandese che ha tratto vantaggio dalla controrivoluzione a cui si deve il rovesciamento della repubblica unita d’Irlanda nel 1922. Quella gente teme che, cercando un nostro ripristino di tale repubblica, metta in pericolo i loro privilegi. 

Non mi pare particolarmente convinto degli Accordi del Venerdì Santo. Perché?

Sono critico perché quegli accordi si fondano sul principio secondo cui il modello di un’Irlanda unita è un concetto screditato. Gli Accordi del Venerdì Santo sono una trappola e un’illusione. Ci intrappolano in uno stato perenne di lealtà contese tra Gran Bretagna e Irlanda sotto l’illusione che tale divisione sia frutto di un comune accordo tra Londra e Dublino e che rappresenti l’unità nazionale. Annullano il concetto stesso di unità civica attraverso il superamento della spaccatura settaria, garantendo agli unionisti la cittadinanza britannica in una futura Irlanda unificata e non una condivisione di una cittadinanza paritetica con i loro compatrioti. Un’autentica repubblica riconosce e tollera la diversità, ma non dovrebbe mai abbracciare una divisione costituzionale tra i suoi cittadini. Unificare l’Irlanda non significa soltanto eliminare un confine geografico, bensì, soprattutto, mettere fine alle divisioni settarie utilizzate dall’Inghilterra per frammentarci e conquistarci. Un’Irlanda unita non è praticabile se tali divisioni settarie vengono riproposte nella cosiddetta “Nuova” Irlanda sposata da partiti come lo Sinn Féin.

Da ex-marine ed ex-volontario dell’IRA, che sensazioni le trasmettono questi tempi foschi di Guerra?

La guerra in Ucraina è una tragedia che rischia di scatenare conflitti in tutta l’Europa. Nonostante io condanni l’invasione russa, credo che l’espansione aggressiva della NATO verso i confini della Russia abbia svolto un ruolo significativo nello scoppio del conflitto. Non scuso ciò che i russi hanno fatto, ma so che, se truppe russe si fossero trovate sul confine tra Stati Uniti e Canada o Messico, gli USA non avrebbero avuto un istante di esitazione. Il mondo è in una situazione di pericolo di gran lunga superiore a quanto lo sia stato per lungo tempo. Un incidente in Ucraina o nella disputa tra Cina e Taiwan potrebbe suscitare un’escalation planetaria. La proliferazione degli armamenti nucleari è pericolosissima. E il riscaldamento globale è sempre più una minaccia. Abbiamo affrontato il Covid e potremmo trovarci di fronte a una grave crisi energetica e a un livello di inflazione in grado di scatenare una depressione economica globale. È venuto il momento di mettere da parte il populismo e di sperare che spuntino veri leader e statisti la cui priorità sia proteggere la salute e la sicurezza del nostro pianeta e non semplicemente aggiudicarsi le prossime elezioni.

Com’è possibile che lo Sinn Féin abbia promosso una campagna di delegittimazione nei confronti di quegli attivisti repubblicani che non hanno del tutto sposato gli Accordi del Venerdì Santo?

Qualsiasi repubblicano che si sia sacrificato o abbia sofferto nella lotta per la libertà irlandese si sente profondamente offeso quando ex-camerati interpretano qualsiasi critica dell’attuale direzione politica come una conseguenza di debolezza emotiva o immaturità politica. L’IRA ha finito per essere guidata da una cerchia autoreferenziale che da decenni mantiene le proprie posizioni nel movimento e che ritiene con arroganza che la lealtà al messaggero venga prima della lealtà al messaggio.

Può un governo nazionale non salvaguardare i diritti di una minoranza nel paese e continuare a ritenersi democratico?

Esistono diritti universali da rispettare. Talvolta, a causa di interferenze straniere o di altri fattori, non si è in grado di rivendicare tali diritti. Ma esistono comunque. L’obbiettivo principale della lotta irlandese repubblicana contro gli inglesi era ottenere una democrazia irlandese unita, in seno a una repubblica. I diritti delle minoranze vanno rispettati e protetti, ma non bisognerebbe mai abbracciare una divisione costituzionale. Per esempio, l’India, con una popolazione di poco meno di un miliardo e mezzo di persone, è la più grande repubblica del mondo. Eppure, la costituzione indiana riconosce il diritto dei suoi duemila gruppi etnici e delle sue quindici lingue ufficiali di portare avanti le loro identità culturali uniche, assicurando al tempo stesso la loro lealtà all’India.

L’Irlanda, con una popolazione pari a metà di quella di Londra, ha due tradizioni principali che ci viene detto che non potranno mai unirsi attraverso un parlamento nazionale perché siamo due nazioni. Gli unionisti dell’Ulster, eredi della tradizione dei colonizzatori, sono una comunità distinta ma non una nazione separata e non andrebbero trattati come tale. Come disse Wolfe Tone, il fondatore del movimento repubblicano irlandese nel XVIII secolo, «La forza dell’Inghilterra è la debolezza dell’Irlanda». Nulla ci indebolisce maggiormente delle divisioni settarie che l’Inghilterra ha promosso e alimentato in Irlanda e che intende continuare ad alimentare in una “Nuova” Irlanda “Unita” che non è nuova né unita, ma che si fonda su tutte le vecchie divisioni.

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