Il gesuita russo: "Il putinismo è quello che concentra le ricchezze nelle mani delle élites"
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Il gesuita russo: "Il putinismo è quello che concentra le ricchezze nelle mani delle élites"

Su La Civiltà Cattolica un profondo saggio di padre Vladimir Pachkov che esplora le frontiere del putinismo

Il gesuita russo: "Il putinismo è quello che concentra le ricchezze nelle mani delle élites"
Putin e il putimismo
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Riccardo Cristiano Modifica articolo

3 Marzo 2022 - 16.09


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Il ventennio putiniano dove sta portando la Russia? Dopo un così lungo periodo di tempo, il tempo di Vladimir Putin e della Russia guidata da lui, va capito, valutato. E’ quello che fa con accuratezza e visione La Civiltà Cattolica con un profondo saggio di padre Vladimir Pachkov, partendo da una incontrovertibile positività riscontrabile fino all’inizio dell’odierno conflitto: “Infatti, nonostante i forti monopoli statali, la Russia ha in buona sostanza un sistema economico di tipo capitalista e può operare in modo molto più efficiente rispetto al suo predecessore, l’Urss”. Qui emerge il però: la tecnocrazia, innovazioni tecniche e la digitalizzazione amministrativa, non hanno sottratto il Paese ad un’economia estrattiva (di risorse naturali).

L’autore ricorda la tesi che fanno di quella russa una classica economia da paese di via di sviluppo e quella (duginiana) di modello antitetico al modello liberale, l’autocrazia conservatrice e populista che Dugin collega alla sua Quarta Teoria Politica. Ma Vladimir Pachkov ricordato questo ci porta nel “puntinismo reale”, quello che c’è: “ L’economia petrolifera della Russia offre alle élite al potere una possibilità di arricchirsi maggiore rispetto allo sviluppo economico più lento che si potrebbe realizzare con riforme di lungo periodo. Invece di sostenere la diversificazione e lo sviluppo del settore industriale e terziario, il «putinismo» concentra la ricchezza nelle mani di poche persone. Invece di favorire l’ascesa di una classe media e di una imprenditorialità autonoma e al passo con i tempi, si promuovono quelle persone che sono al servizio dello Stato e da esso dipendono. Sembra che funzionari competenti che mostrino anche capacità di iniziativa non siano necessari all’economia basata sullo sfruttamento petrolifero. E ci sono casi in cui amministratori locali vengono licenziati non quando le loro regioni non mostrano crescita economica, ma quando alle elezioni non votano per il presidente o per il partito di governo”. 

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Il passaggio a un’economia post-petrolifera ovviamente mette a rischio la durabilità del sistema-Putin e la concorrenza geopolitica rende difficile pensare a “un cambiamento di rotta significativo nel breve periodo”. Ma le difficoltà derivano anche dall’eredità che ha ricevuto Putin, un’economia boccheggiante che ha rimesso in piedi grazie a validi collaboratori, come “l’allora ministro delle Finanze Aleksej Kudrin”: “ La crescita economica annua dal 2010 al 2019 ha raggiunto solo il 2%. Come negli anni Novanta, la fuga di capitali ha raggiunto di nuovo cifre notevoli: dal 2014 al 2018, 320 miliardi di dollari sono stati portati fuori dal Paese. Era necessario trovare un altro modello, e sono state fatte riforme di vasta portata, ma non così coraggiose come la situazione richiedeva”. 

Il 2014, cioè la crisi Ucraina, ha ovviamente peggiorato le cose. E’ diventato più difficile attrarre aziende e così i redditi nel 2020 sono divenuti più bassi rispetto al 2014, complice il crollo del prezzo del petrolio. Le sanzioni invece hanno influito poco, stima l’articolo e i dati del Fondo Monetario Internazionale lo confermano. 

“Due dei maggiori problemi che aggravano ulteriormente la condizione economica russa sono la disuguaglianza e la povertà. Nel 2018, il 3% dei russi più ricchi possedeva l’87% dell’intera ricchezza. Il numero di miliardari in un anno (dal 2018 al 2019) è salito da 78 a 110, e quello dei milionari da 172.000 a 246.000. Per contro, il 21% dei russi vive nella povertà. La più grande preoccupazione delle persone russe non è la politica, ma l’economia: il 72% è preoccupato per l’aumento dei prezzi, il 52% per l’aumento della povertà e il 48% per la disoccupazione”. Ovviamente la pandemia ha rafforzato la tendenza e il governo è risultato dipendente quasi completamente dalle materie prime. L’aumento vertiginoso dei costi delle materie prime nel 2021 può aver determinato addirittura un surplus, unica fonte per spesa sanitaria e sociale. Ma la trasformazione tecnologica dell’economia globale porterà certamente a una minore richiesta di combustibili fossili. Di qui la considerazione che apre la seconda parte del saggio: “È giunto il momento di scegliere tra geopolitica ed economia”, che comincia con questa indicazione decisiva: “ In molti sostengono che è arrivato il momento di spendere più soldi in progetti sociali, ma questo non risolverà il problema della bassa produttività e, di conseguenza, dei redditi bassi. Servono, invece, innovazione e investimenti privati, soprattutto esteri. Ma, come sappiamo, per ottenere tutto ciò andrebbe risolto il conflitto politico con l’Occidente, che invece il conflitto con l’Ucraina ha radicalizzato. La dura realtà è che la Russia è un Paese economicamente debole e non avrebbe potuto permettersi una politica conflittuale. Non si tratta di stabilire «chi ha ragione o di chi è la colpa»: la politica è l’arte del possibile e non dei desideri. I cittadini russi sono stanchi di questa politica, che non è in grado di – ma nemmeno vuole – creare condizioni per una vita normale, e che antepone i sogni geopolitici della classe dirigente al benessere dei cittadini comuni”. 

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Si passa così al problema costante della politica russa: l’autorità del governo. Il primo Putin, quello dei primi due mandati, ha ha posto fine al dominio criminale nascosto dietro “libertà” e “democrazia” nel segno della “stabilità”, archiviare la frammentazione sociale nel nome della riconciliazione: “In realtà, la nuova stabilità è stata ottenuta non attraverso la riconciliazione, ma attraverso la smobilitazione e la pacificazione. La società ha in parte volontariamente ceduto i suoi diritti allo Stato, in parte se li è semplicemente visti portare via. Ma nei primi 10 anni di Putin, lo Stato si è concentrato sul consolidamento interno e non ha interferito negli affari della società”. 

E’ stata la stagione che ha portato all’allargamento dei ceti medi, della crescita. Ma la crisi economica del 2008, la crisi Ucraina e la pandemia hanno infranto il sogno. Ora la popolazione è stanca della retorica dei nemici esterni. Il governo sta perdendo influenza ideologica sull’opinione pubblica. Ecco perché l’attuale crisi con l’Occidente può porre fine al “sistema Putin”, scrive Pachkov. 

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“La società russa è moderna ed è entrata nella «fase post-eroica», in cui non tutti sono pronti «a morire per la Patria e per Putin». Al contrario, non solo la guerra in sé, ma le conseguenze economiche della guerra – soprattutto se di lunga durata – potranno portare a un malcontento che molto probabilmente si trasformerà in una protesta dai connotati fortemente politici. E tale protesta sarà non solo nelle grandi città, o limitata ai cittadini politicamente atti- vi, ma coinvolgerà masse di popolazione, pensionati e lavoratori di provincia, cioè coloro che finora sono stati forti sostenitori della politica del governo. Anche se è pressoché impensabile che le proteste possano portare a cambiamenti politici, il mito del «modello Putin» ne uscirà quasi certamente ridimensionato”. Perché la grande potenza militare non è diventata una grande potenza economica. Il rischio che si prospetta dunque è quello di una problematica stagnazione economica. 

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