"Governo e stato in mano agli ebrei": così Israele si scopre fondamentalista
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"Governo e stato in mano agli ebrei": così Israele si scopre fondamentalista

Una etnocrazia aggressiva. Che discrimina i propri cittadini a seconda dell’appartenenza etnica e religiosa. E’ Israele. 

"Governo e stato in mano agli ebrei": così Israele si scopre fondamentalista
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

9 Dicembre 2021 - 16.47


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Una etnocrazia aggressiva. Che discrimina i propri cittadini a seconda dell’appartenenza etnica e religiosa. E’ Israele. 

A darne conto è un articolo di Haaretz:

“Circa 1.500 persone si sono riunite in piazza Habima a Tel Aviv martedì sera per protestare contro la partnership della coalizione di governo con la Lista Araba Unita, sotto lo slogan ‘Un governo ebraico per uno stato ebraico’.

Parlando alla folla, il parlamentare del Likud Amir Ohana ha tuonato: ‘Com’è bello vedervi insorgere contro il più grande furto di democrazia nella storia di Israele. Si sono uniti al sistema giudiziario e ai media [per] far cadere un primo ministro in carica. L’hanno fatto offuscando in modo massiccio Netanyahu. Il loro credo è nero e le loro bandiere sono nere”, ha aggiunto.

Il collega parlamentare del Likud Eli Cohen, che ha anche parlato alla manifestazione, ha detto che Israele è ‘in pericolo di diventare uno stato di tutti i suoi cittadini. In tutti i paesi arabi stanno lavorando per mettere fuori legge i Fratelli Musulmani – e qui determinano cosa succede nel governo Bennett’.

Alcuni dei manifestanti hanno chiamato il parlamentare Mansour Abbas di Ra’am un terrorista, incluso il suo collega alla Knesset Itamar Ben-Gvir di Sionismo Religioso. Il legislatore di estrema destra ha detto che ‘qui vogliamo uno stato ebraico e democratico, vogliamo un governo senza terroristi, vogliamo un governo di destra a tutti gli effetti’. .Il rabbino Yehoshua Shapira, il capo dell’hesder yeshiva di Ramat Gan ha detto alla protesta: ‘Oggi il popolo ebraico non ha un governo – abbiamo uno stato ebraico e un governo di tutti i suoi cittadini, un governo che usa i non ebrei per forzare la sua volontà su di no’.

La professoressa Talia Einhorn, che ha partecipato alla manifestazione, ha sentenziato: ‘Il popolo d’Israele merita un sistema di giustizia che non incastri le persone. Le questioni che vengono fuori nel Caso 4000 devono essere molto inquietanti per chiunque per cui la legge è importante’, ha aggiunto, riferendosi ai presunti favori normativi ai media in cambio di una copertura favorevole del caso contro l’ex primo ministro Benjamin Netanyahu.

Lo stesso Netanyahu ha postato una clip sabato sera invitando i sostenitori di destra a partecipare alla manifestazione, ma non ha detto che ci sarebbe stato.

Un altro manifestante, che si è identificato come Ofir di Yavne, ha detto: ‘Siamo venuti per rafforzare lo stato. Gli odiatori di Israele sono nella coalizione, e persone una volta considerate di destra stanno collaborando con loro. Stanno abbandonando ogni caratteristica ebraica del paese’”.

Fin qui il racconto del quotidiano progressista di Tel Aviv.

La “Questione israeliana”.

E’  metapolitica. Perché investe la psicologia di una nazione, e pone un problema ancor oggi irrisolto: quello dell’identità. Individuale e collettiva. Che affonda in una memoria secolare, intrecciando religione, storia, politica. La questione israeliana come questione identitaria. Che ha avuto un passaggio storico il 19 luglio 2018 alla Knesset. 

Un punto di non ritorno. La costituzionalizzazione di una “etnocrazia”. Gideon Levy, firma storica di Haaretz, censore critico, e per questo odiato, della destra ultranazionalista al potere, racconta così l’approvazione da parte della Knesset il 19 luglio 2018 della legge fondamentale attraverso la quale Israele si riconosce “Stato nazionale del popolo ebraico”.

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Il parlamento israeliano, la Knesset, ha approvato una delle leggi più importanti della sua storia, oltre che quella più conforme alla realtà. La legge sullo stato-nazione (che definisce Israele come la patria storica del popolo ebraico, incoraggia la creazione di comunità riservate agli ebrei, declassa l’arabo da lingua ufficiale a lingua a statuto speciale) mette fine al generico nazionalismo di Israele e presenta il sionismo per quello che è. La legge mette fine anche alla farsa di uno stato israeliano “ebraico e democratico”, una combinazione che non è mai esistita e non sarebbe mai potuta esistere per l’intrinseca contraddizione tra questi due valori, impossibili da conciliare se non con l’inganno…  Se lo Stato è ebraico non può essere democratico, perché non esiste uguaglianza. Se è democratico, non può essere ebraico, poiché una democrazia non garantisce privilegi sulla base dell’origine etnica. Quindi la Knesset ha deciso: Israele è ebraica. Israele dichiara di essere lo stato nazione del popolo ebraico, non uno stato formato dai suoi cittadini, non uno stato di due popoli che convivono al suo interno, e ha quindi smesso di essere una democrazia egualitaria, non soltanto in pratica ma anche in teoria. È per questo che questa legge è così importante”. 

Così Levy. 

Identità ebraica e sistema democratico: erano i due pilastri su cui si reggeva l’utopia sionista, quella dei padri della patria. Settant’anni dopo la fondazione dello Stato d’Israele, l’uno, l’identità ebraica assolutizzata e costituzionalizzata, ha finito per minare l’altro: l’idea di una democrazia inclusiva.

Nei circoli intellettuali progressisti è da tempo aperto un dibattito sullo Stato bi-nazionale. Così si era espresso, in una intervista concessa a chi scrive da Zeev Sternhell, il più autorevole storico israeliano, recentemente scomparso.

“ Integrazione o apartheid: tertium non datur – ebbe a dire Sternhell-.  Certo, sul piano dei principi resta la soluzione ‘a due Stati”, e qui c’è la responsabilità storica della comunità internazionale, non solo degli Stati Uniti e dell’Europa ma anche dei Paesi arabi, nel non aver forzato su questo punto quando ne era il tempo. Oggi, di fronte alla realtà degli insediamenti nella West Bank, ad una presenza di oltre 400mila israeliani-coloni, a me pare francamente improbabile, per non dire impossibile, realizzare questa soluzione. Ma a Gerusalemme come nella West Bank, non devono esistere due leggi e due misure, una per i cittadini ebrei e l’altra, penalizzante, per i palestinesi. Ritengo peraltro che la prospettiva di uno Stato binazionale democratico possa essere un terreno d’incontro, di iniziativa comune, tra quanti, nei due campi, credono ancora nel dialogo e nella convivenza. Mi lasci aggiungere che credere in uno Stato binazionale non significa che le comunità che ne fanno parte rinuncino alla propria identità. Integrazione non è sinonimo di omologazione, di azzeramento delle diversità. Io penso che siano nel giusto i Palestinesi a voler essere persone libere e di aspirare al benessere soprattutto per i giovani. Ecco, io credo che, nelle condizioni date, questa aspirazione sia più praticabile in uno Stato binazionale”.

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Un punto di vista che Aiman Odeh, leader della Lista Araba Unita,  non condivide. E lo motiva così: So lo spirito, positivo, con cui Yehoshua e altri come lui, hanno avanzato questa idea. Ma la ritengo, al tempo stesso, impraticabile e ingiusta. Impraticabile perché in un Paese governato da forze che discriminano anche all’interno dell’attuale popolazione israeliana, parlare di Stato binazionale, anche se con diritti politici circoscritti peri i Palestinesi della West Bank, è considerata una provocazione ancora peggiore dell’invocare uno staterello palestinese. Chi ha rifondato lo Stato assolutizzando la sua identità ebraica, non concepisce una binazionalità. Impraticabile e ingiusta, perché i Palestinesi si sentono, a ragione, un popolo con una propria storia, con una identità nazionale su cui fondare una loro entità statuale. A fianco e non contro Israele”.

Identità e memoria: un nesso inscindibile. 

In proposito, David Grossman ebbe a dire di essere d’accordo “con quanto detto da Abraham Yehoshua sulla memoria: le persone, le società, i paesi molto spesso sono ferme nella memoria, ricordano troppo e questo significa perdere il contatto con la realtà vera ed essere invece in rapporto con la proiezione delle nostre paure, dei nostri stereotipi e pregiudizi. Dobbiamo affrontare la memoria e i ricordi con sospetto e cautela”. Forse, afferma lo scrittore, “possiamo andare oltre, possiamo dire che siamo cresciuti e lasciarcele indietro queste storie”. 

“Memoria – rimarca ancora Grossman in una intervista concessa a Daniel Reichel per Pagine Ebraiche (febbraio 2020) –  è il modo in cui creiamo la nostra identità . Siamo quello che ricordiamo ma siamo anche ciò che dimentichiamo. A volte diventiamo dipendenti dalla memoria che non ci permette di dimenticare cose che provocano il nostro essere bloccati in determinate circostanze. Siamo vittime dei nostri stessi ricordi, non siamo capaci di rielaborarli…”. 

Un tema che ritorna in una interessante riflessione sviluppata per Haaretz da Ofer Dagan  co-direttore esecutivo di Sikkuy, che promuove l’uguaglianza e la partnership tra cittadini arabi ed ebrei in Israele e Ron Gerlitz  direttore esecutivo di aChord – Social Psychology for Social Change

Il primo problema di base che si vede spesso negli spazi condivisi e nelle organizzazioni comuni è l’aspettativa, spesso non dichiarata, che gli arabi debbano scegliere tra la loro identità civile come israeliani e la loro identità nazionale come palestinesi – e lasciare quest’ultima alla porta, o almeno minimizzarla, quando entrano negli spazi condivisi. Questa aspettativa diventa evidente quando le tensioni nazionali raggiungono il picco o quando la società araba protesta contro qualcosa. La risposta da parte ebraica include generalmente delusione e rabbia quando i cittadini arabi danno voce alla loro identificazione con la bandiera palestinese o esprimono solidarietà con i loro compagni palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Ne siamo stati testimoni durante le proteste per la cosiddetta legge sullo stato nazionale e durante ogni ciclo di violenza tra Israele e Gaza. Il secondo problema fondamentale è l’aspettativa che i partner arabi debbano accettare senza riserve il quadro politico esistente. Cioè, ci si aspetta che accettino la definizione di Israele come stato ebraico e democratico. Vale la pena ricordare che gli ebrei che entrano nello “spazio condiviso”, sia in senso organizzativo che in effettivi posti di lavoro misti, lo fanno in circostanze in cui i loro diritti collettivi come società e nazionalità sono sanciti e protetti dallo stato e dalle sue istituzioni. Nel frattempo, queste stesse istituzioni – alcune delle quali promettono (ma non sempre garantiscono) uguali diritti ai cittadini arabi come individui – sono premesse per la negazione e l’esclusione delle identità collettive e nazionali degli arabi. In una tale realtà, aspettarsi che i cittadini arabi adottino di buon grado la situazione istituzionale esistente come condizione del partenariato replica semplicemente l’ineguaglianza politica all’interno di quel partenariato. Il terzo problema fondamentale è ignorare o rifiutare di impegnarsi con l’aspetto più centrale e urgente del conflitto israelo-palestinese: l’occupazione israeliana della Cisgiordania e l’assedio di Gaza. Ignorare la dimensione più evidente dell’oppressione palestinese restringe gravemente la possibilità di un discorso legittimo per i cittadini arabi negli spazi condivisi. Impedisce seriamente la creazione di veri partenariati ebreo-arabi e la capacità di tali partenariati di promuovere una società condivisa per ebrei e arabi in Israele. Non esiste un percorso verso una società condivisa che sia congruente con la negazione dei diritti del popolo, della nazionalità, a cui i cittadini arabi appartengono. 

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Non ci aspettiamo che aziende high-tech, catene di supermercati, ospedali o altri luoghi di lavoro con dipendenti sia ebrei che arabi conducano laboratori di dialogo sull’occupazione o formulino una politica organizzativa su di essa. Né ci aspettiamo che ogni partnership arabo-ebraica affronti direttamente la questione dell’occupazione. Ciò che è cruciale, tuttavia, è assicurare che, in tutti questi luoghi, sia legittimo discutere di questioni che riguardano il conflitto israelo-palestinese e legittimo esprimere opinioni contrarie all’occupazione. Non dobbiamo temere la mancanza di consenso che spesso si annette a questo tema. Dobbiamo capire che l’assenza di consenso farà parte del tessuto della nostra società condivisa finché il conflitto israelo-palestinese continuerà ad essere irrisolto. 

Gli eventi inquietanti dello scorso maggio sono stati un doloroso promemoria del fatto che la frattura più profonda e pericolosa nella società israeliana è quella nazionale, tra cittadini ebrei e arabi. Altrove nel mondo tali scismi hanno portato alla guerra civile e a molte morti, lasciando interi paesi e società in rovina. Il lavoro di costruzione di una società condivisa è tra i compiti più cruciali e fatidici che la società israeliana deve affrontare. Aspiriamo a costruire una società condivisa che sia sostenibile e capace di affrontare con successo la realtà del conflitto nazionale e persino di fare progressi verso la sua risoluzione. Ciò richiede che sia costruita equamente intorno al riconoscimento reciproco delle identità e dei diritti di entrambi i popoli che vivono qui. 

Una cosa è certa: la questione identitaria non è risolvibile con un cambio di governo e di leadership politica. E ha ragione Lucio Caracciolo, direttore di Limes, quando annota: Israele è nato per risolvere la questione ebraica. Il tempo dirà. Prima viene la questione israeliana. Da trattare con strategica pazienza”.

Ma la pazienza, per quanto grande, non può essere infinita. Soprattutto quando a metterla alla prova è una destra che vorrebbe liberarsi del “fardello” degli arabi israeliani (oltre il 20% della popolazione d’Israele) in nome della “purezza ebraica”.

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