Taiwan, vaccini, carbone: la Muraglia cinese al G20 di Roma
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Taiwan, vaccini, carbone: la Muraglia cinese al G20 di Roma

Nonostante l’acclamata abilità diplomatica di Draghi, e la sua abile pazienza nel mediare sui grandi temi che investono il futuro stesso del pianeta e la vita di miliardi di persone, la Cina è lontana.

Xi Jingping
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

31 Ottobre 2021 - 13.27


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Taiwan, carbone, vaccini: la Muraglia cinese e il G20 di Roma.

Le previsioni della vigilia del summit sono state confermate nella loro sostanza. Nonostante l’acclamata abilità diplomatica di Mario Draghi, e la sua abile pazienza nel mediare tra opposti – dote tutta politica – sui grandi temi che investono il futuro stesso del pianeta e la vita di miliardi di persone, la Cina è lontana.

La Cina è lontana

Il confronto strategico tra Stati Uniti e Cina è uno dei fattori che stanno destabilizzando le relazioni internazionali: il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha adottato una politica commerciale dura contro Pechino in linea con quella del suo predecessore Donald Trump; l’ostilità degli Stati Uniti verso compagnie di Stato cinesi, o molto vicine al PCC come Huawei, è costantemente cresciuta negli ultimi anni; all’inizio di questa settimana Washington ha ordinato a China Telecom Americas di interrompere i suoi servizi entro 60 giorni ponendo fine a quasi due decenni di operazioni nel paese. Pechino ha denunciato una “repressione dolosa” con un provvedimento che “compromette il clima di cooperazione” tra i due paesi. 

Le tensioni fra le due più grandi economie del mondo non sono solo di ordine commerciale: gran parte del continente asiatico è oramai zona di influenza cinese, ultimo esempio è proprio l’Afghanistan da cui i soldati americani si sono ritirati in modo convulso poco più di due mesi fa dopo venti anni di guerra. La stessa Russia o l’Iran sono fortemente dipendenti dall’acquisto di petrolio e gas da parte cinese.  Negli ultimi mesi le tensioni sono aumentate anche su Taiwan, isola che gode di un sistema democratico e ha propri governo, moneta ed esercito, anche se non ha mai proclamato l’indipendenza formale da Pechino. La Cina rivendica l’isola come propria e giura che un giorno la riprenderà anche con la forza, se necessario.  All’inizio di questo mese Washington ha confermato che truppe statunitensi, seppur in numero ridotto, sono presenti sull’isola per scopi di addestramento. Questa settimana, il presidente Di Taiwan, Tsai Ing-Wen ha detto di “confidare” negli Stati Uniti per difendere la sua isola contro la Cina. E il presidente Joe Biden ha affermato che gli Stati Uniti hanno “un impegno” a difendere militarmente Taiwan in caso di attacco cinese.

Annota Luigi Grassia su La Stampa; “D’altra parte la Cina, per quanto attivissima economicamente in tutto il pianeta, non solo non è capace di proiettare all’esterno la sua potenza militare come gli Stati Uniti (e neanche come la Francia in Africa, se è per questo) ma è surclassata dall’America sul piano nucleare (l’arsenale atomico di Pechino è paragonabile a quelli di Parigi e Londra, non di Washington o Mosca). Tutto bene allora, niente di cui preoccuparsi? No, i problemi ci sono eccome: la Cina non ha rispettato i diritti di Hong Kong, ed è riuscita a farlo impunemente, e adesso c’è da temere che (nonostante quanto detto sopra) la piccola e vicina Taiwan possa sembrare a Pechino un altro boccone alla sua portata. Probabilmente la Cina sbaglia i calcoli, ma una sua mossa aggressiva contro Taiwan, per quanto ingiustificata, azzardata e perdente, potrebbe avere conseguenze pesantissime sulla regione Asia-Pacifico e sul resto del globo. Per certi versi si potrebbe dire che la contrapposizione fra America e Cina non è nuova. Di fatto viene applicata oggi alla regione Asia-Pacifico una dottrina americana (non dichiarata) del “contenimento” in funzione anti-cinese, accostabile a quella concepita da George F. Kennan negli anni ‘40 in funzione anti-sovietica, ma anche (già allora) anti-cinese: dopotutto le guerre di Corea e del Vietnam furono combattute dagli americani per contenere la Cina di Mao più ancora che la stesa Urss. Corsi e ricorsi”, conclude Grassia.

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Pechino e l’asse del carbone

La Cina difende il diritto dei Paesi emergenti a perseguire benessere e crescita, puntando il dito contro quelli più avanzati che per decenni non hanno mai messo un tetto alle emissioni. Ieri, Xi lo ha ribadito: “Manterremo le nostre promesse, ma siano i Paesi sviluppati a dare il buon esempio nella riduzione delle emissioni, accogliendo le difficoltà dei Paesi in via di sviluppo, onorando i loro impegni di finanziamento fornendo supporto in termini di tecnologia” Il più grande inquinatore del mondo – 27,9% delle emissioni di CO2 – ha deciso che non ci saranno altre concessioni. Meglio concentrarsi sugli obiettivi stabiliti – picco delle emissioni prima del 2030 e neutralità carbonica 30 anni dopo – piuttosto che avventurarsi in promesse difficili da mantenere. «Il ruolo del petrolio e del carbone diminuirà», ha promesso pure Putin, rivendicando come ora il 45% della produzione energetica provenga da fonti a bassa emissione, comprese quelle nucleari. La Russia, quarto Paese al mondo per emissioni (il 4,6%), ha nel carbone una delle sue fonti principali di energia, oltre ad essere uno dei maggiori produttori di petrolio e gas. Dal 1976 la temperatura media è aumentata con un ritmo pari a due volte e mezzo rispetto a quello globale. E quella data, il 2060 – non ancora ufficiale – non basta. 
Secondo uno studio dell’ente di ricerca Rhodium Group, lo scorso anno la Cina ha generato la stessa quantità di Co2 di Stati Uniti, India, Russia e Giappone messi insieme. Il Paese fa parte dei primi cinque inquinatori al mondo, responsabili del 60% delle emissioni globali, e la sua produzione di carbonio è in aumento ogni anno.

Le emissioni della Cina sono così vaste che alcune aziende creano più inquinamento di intere nazioni. E’ il caso di China Baowu, il principale produttore di acciaio al mondo, che lo scorso anno ha immesso più Co2 dell’intero Pakistan. O ancora China Petroleum & Chemical, ausiliare del gigante petrolifero statale Sinopec Group, che ha contribuito al riscaldamento globale più di quanto non abbia fatto il Canada, undicesima nazione per emissioni. 

 Le aziende cinesi più grandi hanno diretta influenza anche sull’aumento delle temperature globali. Mentre i leader mondiali si dirigono a Glasgow per la Cop26, la conferenza sul clima organizzata dalle Nazioni Unite, l’impatto e il ruolo dei titani industriali cinesi continua ad essere centrale, nonostante le società non siano presenti nei negoziati dell’Onu.

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 La promessa del presidente cinese Xi Jinping però rimane quella di azzerare le emissioni entro il 2060: le aziende dovranno convertirsi a energie rinnovabili e cambiare completamente il loro assetto di produzione. La Cina afferma che presto rilascerà una mappa dettagliata delle emissioni previste per il prossimo decennio. Nel frattempo, le aziende statali hanno annunciato piani che prevedono un aumento molto più rapido di energia pulita rispetto a quanto suggerito dagli obiettivi ufficiali. 

 Tuttavia, la Cina ha già imposto la prima battuta d’arresto: la riduzione dell’uso del carbone non sarà possibile prima del 2026. Anzi, per il momento la produzione aumenterà di 100 milioni di tonnellate per sopperire alla carenza di energia. 

 Tra le strade tracciate per fronteggiare la sfida climatica, durante il vertice Pre-Cop26, è stata inserita anche la decarbonizzazione obbligatoria, ovvero lo stop all’utilizzo del carbone come risorsa energetica. L’India tuttavia, che già produce il 70% dell’elettricità utilizzando il carbone, ne aumenterà l’estrazione per affrontare la grave crisi energetica in atto.

Nel Paese più della metà delle 135 centrali elettriche a carbone stanno utilizzando l’alimentazione a vapore, poiché le scorte del combustibile sono estremamente basse. Dopo la seconda ondata pandemica la domanda di energia è aumentata notevolmente e contemporaneamente i prezzi globali del carbone sono aumentati del 40%. Inoltre le importazioni dell’India sono scese ai minimi storici degli ultimi due anni, nonostante il Paese sia secondo importatore mondiale di carbone e contemporaneamente anche sede della quarta più grande riserva del mondo.

 Secondo gli esperti consultati dalla Bbc, al momento non è possibile importare più carbone per sopperire alle carenze interne, per via del costo elevato sui mercati mondiali e l’impatto inflazionistico. Uno dei motivi della crisi potrebbe derivare dal fatto che, negli ultimi anni, la produzione dell’India è stata rallentata dall’impegno del paese nel ridurre la sua dipendenza dal carbone, in vista degli obiettivi climatici.

Il rincaro dei beni energetici aveva interessato nei giorni scorsi anche la Cina, che, per sostenere l’economia interna e le sue aziende, aveva ordinato a settantadue grandi miniere di aumentare la produzione di carbone. La crisi si è poi intensificata a causa delle inondazioni, che, nello scorso weekend, hanno costretto le miniere cinesi a chiudere, facendo arrivare i prezzi del carbone a livelli record.

 Una situazione parallela è stata segnalata anche dal Qatar, maggior esportatore mondiale di gas naturale liquefatto, che si trova nel mezzo di una crisi del mercato, con i prezzi alle stelle ed un’offerta che non riesce a tenere il passo con l’impennata della domanda. Il ministro dell’Energia Saad Al-Kaabi ha affermato che, nonostante il Qatar stia spendendo miliardi di dollari per aumentare la produzione, farà fatica a incrementarla a breve termine.

 I travagli di Cina, India e Qatar riflettono il binomio critico che esiste tra ripresa economica post-pandemia e gli obiettivi per il clima richiesti da Cop-26: con le materie prime che scarseggiano è difficile non ricorrere all’aumento della produzione di combustibili inquinanti. La sfida adesso sembra essere questa: raggiungere un equilibrio che permetta sia di soddisfare la domanda di elettricità sia di ridurre la dipendenza dalle centrali a carbone e dal gas naturale, fortemente inquinanti. 

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 La Cop26 è già fallita

Scrive Leone Grotti su Tempi: “Come detto, la Cop26 è destinata a fallire. Anzi, è già fallita ancora prima di cominciare. Se anche infatti i leader mondiali trovassero un accordo su tutti i punti sopra elencati e se anche mettessero in pratica davvero ciò che hanno scritto su carta, i loro sforzi sarebbero vanificati dal comportamento di un singolo paese: la Cina, il cui leader Xi Jinping non a caso ha annunciato che non si presenterà a Glasgow La Cina è responsabile del 30% delle emissioni globali di CO2 e brucia più carbone di tutto il resto del mondo messo assieme. Non solo, secondo un nuovo studio inquina più di Usa, India, Russia e Giappone messi assieme. Siccome la delegazione cinese non voleva presentarsi a Glasgow a mani vuote, giovedì ha inviato uno stringato documento con le sue “nuove” promesse. Ha garantito che raggiungerà il picco delle emissioni entro il 2030, con la quota di combustibili non fossili che aumenterà al 25%, raggiungerà nel 2060 la neutralità carbonica, ridurrà le emissioni di CO2 per unità di Pil di oltre il 65% rispetto al livello del 2005 e porterà la capacità totale installata di energia eolica e solare a oltre 1,2 miliardi di kilowatt entro il 2030.

La Cina vanifica gli sforzi mondiali

Tutte queste promesse non rappresentano una novità visto che erano già state fatte da Xi Jinping nel 2020. E anche se la Cina le rispettasse, non sarebbe abbastanza per contenere a 1,5 gradi l’aumento della temperatura globale. Per raggiungere l’obiettivo, infatti, nel 2030 il mondo dovrebbe emettere ‘solo’ 25 miliardi di tonnellate di C02,contro i 52 miliardi del 2019. La Cina da sola ne emette 14 miliardi e non prevede di ridurre questa cifra prima del 2030. In realtà, è altamente probabile che il dato aumenti nei prossimi nove anni: solo nella prima metà del 2021 il regime comunista ha approvato la costruzione di 24 nuove centrali a carbone.

Inoltre, per far fronte alla carenza di elettricità degli ultimi mesi, Xi Jinping ha ordinato di aumentare del 10 per cento la produzione di carbone. Per raggiungere davvero la neutralità climatica nel 2060, Pechino dovrebbe investire duemila miliardi di dollari all’anno per i prossimi 39 anni, secondo Ubs, e triplicare la velocità con cui introduce l’energia rinnovabile nel proprio paese, settore in cui è già leader mondiale. Come potrà farlo mantenendo allo stesso tempo gli obiettivi prefissati di crescita economica è un mistero. Come dichiarato da John Kerry, delegato americano per politiche climatiche, se la Cina non cambierà passo sarà «impossibile raggiungere i nostri obiettivi». Appunto, conclude Grotti

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