Afghanistan: quella strage e i criminali a stelle e strisce
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Afghanistan: quella strage e i criminali a stelle e strisce

Il Pentagono ha ammesso che l'attacco con un drone a Kabul poco prima del ritiro delle truppe americane ha colpito un veicolo sbagliato e ucciso 10 civili innocenti.

Strage Usa a Kabul
Strage Usa a Kabul
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

18 Settembre 2021 - 13.00


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Alla fine l’hanno dovuto ammettere. Ammettere di essere stati responsabili di una strage di innocenti. L’ultimo lascito insanguinato prima di fuggire dall’Afghanistan. Si dichiarano contriti, porgono le loro scuse ma nessun tribunale li processerà per quello che è un crimine di guerra e contro l’umanità. 

Il Pentagono ha ammesso che l’attacco con un drone a Kabul poco prima del ritiro delle truppe americane ha colpito un veicolo sbagliato e ucciso 10 civili innocenti. Lo ha detto il generale Kenneth McKenzie, del Comando centrale Usa, parlando di un “tragico errore” e porgendo le più profonde condoglianze ai famigliari delle vittime. Sette dei 10 morti erano bambini. Nonostante i dubbi emersi sui media Usa e le denunce dei famigliari delle vittime, finora il Pentagono aveva difeso lo ‘strike’ diretto il 29 agosto contro una “minaccia imminente”, affermando che si trattava di kamikaze diretti verso l’aeroporto di Kabul. Ora il passo indietro: è “improbabile”, spiega il Comando, che il veicolo colpito e le persone che erano a bordo “fossero associate con l’Isis-K o una diretta minaccia alle forze Usa”. L’autista era dipendente da lungo tempo di una organizzazione umanitaria americana. “Questo attacco era stato lanciato nella ferma convinzione che avrebbe sventato una minaccia imminente alle nostre forze e agli sfollati all’aeroporto, ma è stato un errore e presento le mie sincere scuse”, ha detto McKenzie. Secondo quanto riportato dalla Cnn, il generale si è assunto quindi “la piena responsabilità dell’accaduto”. Nelle scorse settimane il Pentagono aveva riferito della morte di almeno un facilitatore dell’Isis-K e di tre civili. 

Il generale e il segretario

Anche il segretario alla Difesa statunitense, Lloyd Austin, ha espresso le scuse degli Stati Uniti per la strage, porgendo le condoglianze ai familiari delle vittime. Parlando dell’indagine condotta sui fatti, li ha descritti come “un orrendo errore”. “Sappiamo che non c’era legame” tra l’autista del veicolo colpito e l’Isis-K e che le attività del conducente quel giorno “erano completamente innocue e per nulla legate alla minaccia imminente che credevamo di affrontare”, ha affermato. Si è allineato anche il capo degli Stati maggiori congiunti, generale Mark Milley, che aveva difeso l’azione in precedenza: “Questa è una terribile tragedia di guerra ed è straziante”, ha detto ai giornalisti in viaggio con lui in Europa, “siamo impegnati a essere del tutto trasparenti su questo fatto”. 

Annota su Il Corriere della Sera Massimo Gaggi: “Al di là della gravità della vicenda colpiscono tre cose: 1) che diverse organizzazioni giornalistiche con pochi mezzi economici e limitato accesso a luoghi e notizie siano arrivate molto prima del governo Usa alla verità; 2) che l’intelligence abbia commesso errori così grossolani, scambiando taniche d’acqua per esplosivi e non abbia controllato, nelle ore in cui ha seguito il veicolo, l’identità dell’autista (Zemari Ahmad lavorava per un’organizzazione filantropica degli Stati Uniti ed era anche lui in lista per lasciare l’Afghanistan insieme alla sua famiglia; 3) se il Paese tecnologicamente più avanzato del mondo, con l’organizzazione militare e di intelligence migliore e i vincoli etici e giuridici di una grande democrazia, può commettere facilmente errori simili possiamo aspettarci in futuro una moltiplicazione di episodi di questo tipo con la diffusione della tecnologia dei droni a decine di Paesi”.

Mario Lombardo ricostruisce la vicenda in un dettagliato report per altrenotizie:: “I reporter del Times hanno avuto accesso a immagini filmate e hanno indagato sul luogo dei fatti, dove hanno potuto ricostruire l’operazione grazie alla testimonianza di parenti, colleghi e vicini di casa delle vittime. I militari americani hanno sempre ammesso di conoscere poco o nulla dell’obiettivo del bombardamento, l’ingegnere elettronico Zemari Ahmadi. Il sospetto che quest’ultimo fosse un terrorista, pronto a colpire nuovamente l’aeroporto, derivava da due elementi: una visita in auto presso un edificio presumibilmente utilizzato dall’ISIS-K e il trasporto di esplosivo nel veicolo.

Il fatto che questa miseria di elementi possa essere stata sufficiente ad autorizzare un assassinio mirato con un drone dipende dalle regole stabilite dagli Stati Uniti per questo genere di situazioni. Non disponendo appunto di informazioni sufficienti a identificare un bersaglio, per non parlare dell’esistenza di un qualche procedimento giudiziario che garantisca i più basilari diritti civili e democratici, l’intelligence USA si basa su determinate regole di comportamento che possono portare alla designazione di terrorista in pratica di qualunque maschio adulto di un paese come l’Afghanistan”.

E ancora: “La distruzione della famiglia di Zemari Ahmadi non è evidentemente un episodio isolato, ma solo l’ultimo di un lunghissimo elenco di atrocità commesse dalle forze di occupazione in Afghanistan sotto il comando americano. Solo le incursioni dei droni hanno causato innumerevoli vittime civili innocenti e i fatti sono stati quasi sempre insabbiati o, tutt’al più, oggetto di inutili indagini interne ordinate dal Pentagono.

L’ultima strage prima del ritiro dall’Afghanistan ha in qualche modo suggellato un’avventura bellica venduta come necessaria per vendicare l’11 settembre e per impedire che altri eventi simili potessero essere portati a termine dal terrorismo jihadista. Mentre i governi americani continuavano però a sfruttare queste stesse forze fondamentaliste per i propri interessi, dalla Libia alla Siria fino allo Yemen, le bombe continuavano a cadere sulla popolazione civile, con la scusa di nuovi imminenti attentati da sventare. Minacce di attentati quasi mai dimostrate, come mai saranno portati davanti a un tribunale per crimini di guerra i responsabili delle decisioni come quella che a fine agosto ha portato morte e distruzione in un affollato quartiere di Kabul, dentro una famiglia afghana che aveva lavorato per gli Stati Uniti e che negli Stati Uniti aveva riposto le proprie speranze per un futuro migliore”.

Tutto sul drone utilizzato dagli americani 

Il drone Reaper MQ-9 usato dagli Stati Uniti per compiere la rappresaglia, decisa dopo l’attentato all’aeroporto di Kabul, è altamente tecnologico: inquadra la sua preda, ne segue i movimenti da lontano, anche per un lungo periodo, poi al momento giusto lancia missili di alta precisione.  Il Reaper (“Mietitrice”) che è stato costruito principalmente per la US Air Force,  è lungo 36 metri e ha un’apertura alare di 21 metri. Può viaggiare alla velocità di 450 chilometri orari ed è in grado di volare, guidato a distanza via satellite, senza fare rifornimenti per duemila chilometri se si tratta di missioni di pura ricognizione e per milleduecento chilometri se  armato di missili per una missione killer. Il drone usato in Afghanistan è partito da una base in Medio Oriente. Dotato di motore ad elica è abbastanza silenzioso. Il Reaper MQ-9 è in grado di operare da una bassa quota fino a diecimila metri, sia di giorno, sia di notte e con avverse condizioni meteo. Ogni esemplare costa attorno ai 30 milioni di dollari. Testato nel 2001, il drone killer è diventato operativo nel lontano 2007. E la prima missione volta a uccidere un target preciso fu proprio in Afghanistan. Il Reaper è usato anche come ricognitore, per operazioni di intelligence e operazioni di sorveglianza dei confini. Il Reaper MQ-9 è stato acquistato dalle aeronautiche militari britannica, francese, spagnola e anche dall’Italia. Il nostro Paese dal 2010 ne possiede sei esemplari.

Le cifre di una mattanza

A i tempi della guerra del Golfo e successivamente in quella in Iraq gli americani li definivano – con termine che voleva essere asettico, ma risultò agli occhi del mondo fin troppo cinico – “danni collaterali” In linguaggio militare sono le vittime “accidentali”, quelle rimaste uccise durante un attacco deliberato contro un obiettivo “legittimo”. 

Ma sono padri, madri, figli, persone con un nome e un cognome che la guerra, riempiendo il suo lessico di eufemismi, ha sempre cercato di ridurre a conseguenze e numeri «accettabili». 

Un passo indietro nel tempo. Nel 2019, Ieri la Coalizione anti-Daesh ha diffuso i dati relativi all’operazione Inherent Resolve in Iraq e Siria contro gli uomini del Califfato: sono 1.257 i civili “involontariamente uccisi” durante gli attacchi, un dato che peraltro potrebbe essere anche sottostimato.

Sul suo sito la Coalizione ha parlato di 34.038 attacchi condotto tra l’agosto 2014 e il febbraio 2019. Restano ancora da valutare, sottolinea la Coalizione, 141 rapporti aperti e 6 nuovi resoconti, per avere il numero complessivo delle vittime civili.

Una storia emblematica

Nel nostro viaggio nel tempo, andiamo al 3 ottobre 2015. Saranno delle inchieste anche “imparziali” come chiesto dall’Onu a fare luce sul raid delle forze statunitensi della missione Nato che ha provocato la strage nell’ospedale di Medici senza Frontiere in Afghanistan. Ma intanto lo choc a Kunduz resta e profondo. Nell’attacco sono state uccise 19 persone, di cui 12 operatori sanitari e sette pazienti. 37 i feriti e si contano decine di dispersi. “Vogliamo che il governo garantisca di nuovo la sicurezza qui a Kunduz – dice uno dei feriti – La gente sta morendo. Per l’amor di Dio guardate le mie condizioni”.  Kunduz, città occupata nei giorni scorsi dai talebani, è teatro di una grossa controffensiva di Kabul e delle forze speciali statunitensi. 
Nei raid infatti, dicono i militari americani, potrebbero esserci stati dei “danni collaterali”.

“Il nostro compound è più grande di un campo di calcio – spiega Bart Janssens, uno dei responsabili di Medici senza Frontiere – E noi abbiamo più volte comunicato a tutte le fazioni in guerra attraverso i GPS le esatte coordinate dell’ospedale. Davvero non capiamo come possa essere avvenuto un attacco del genere e non accettiamo la definizione di danno collaterale”.

La struttura ospitava 180 persone, tra medici e pazienti. Tra i morti 3 erano bambini piccoli e la quasi totalità giovani. Per giorni, Medici Senza Frontiere ha continuato a invocare  un’inchiesta internazionale: : “Non possiamo accettare che questa terribile perdita di vite sia archiviata come semplice danno collaterale… Con il fondato sospetto che si tratti di un crimine di guerra, chiediamo un’investigazione trasparente, condotta da un ente indipendente”. L’Ong ha anche denunciato che il bombardamento è proseguito Il ministero della Difesa Usa ha aperto un’indagine. Conclusioni? Nessun errore, nessuna scusa. Caso mai “rincrescimento”, per un’operazione militare che, “purtroppo”, ha provocato “danni collaterali”.

La violenza sta anche nelle parole usate. Un discorso che non riguarda solo l’America ma che coinvolge la Nato, alleanza della quale l’Italia fa parte. I civili uccisi vengono chiamati, dalle autorità della coalizione Nato, “morti collaterali”, o “collateral demages”, ossia, per l’appunto, “danni collaterali”

La guerra per l’attacco alle Torri gemelle è stata la più sanguinosa per gli Usa, è costata oltre 2.500 militari agli Stati Uniti. Si stima che circa 150 mila afghani abbiano perso la vita. Un record che ha contribuito ad alimentare l’ideologia e l’odio che l’America aveva cercato di sconfiggere andando in Afghanistan.

E quell’odio non è un “danno collaterale”, ma il lascito di guerra.  

Operazioni segrete

“Le operazioni sono segrete –  rimarca Paolo Mastrolilli su La Stampa  ma gli Stati Uniti hanno almeno 64 basi da dove possono guidare i droni, come la Nellis Air Force Base del Nevada, la Holloman nel New Mexico e la Randolph in Texas. I piloti addestrati per questo genere di attività sono oltre mille, e siedono a migliaia di chilometri di distanza dai loro obiettivi. Ricevono le informazioni, vedono le immagini satellitari, e premono il grilletto. In teoria, è il lavoro più facile della guerra. Arrivi quando è il tuo turno, stai seduto al sicuro, spari, e in genere torni a casa in tempo per la cena. La realtà è molto diversa, però. Negli ultimi tempi si sono moltiplicati gli studi che denunciano gravi casi di Post traumatic stress disorder anche per questi guerrieri del telecomando: sensi di colpa, stress, la difficile condizione di dispensare la morte a distanza. Fino a quando poi capitano gli errori, le trappole o gli incidenti, e la mattina dopo scopri di aver ucciso un amico”.

Si tratta in ogni caso, concordano gli analisti militari, di attacchi di altissima pericolosità poiché spostano la guerra su un piano nuovo ed ancor più letale: armi automatizzate, basate su intelligenza artificiale addestrata per uccidere e distruggere, liberate in attacchi che non implicano sacrifici umani da parte di chi lancia l’offensiva. Questo prospetto può stimolare ulteriormente le pulsioni belliche ed aumentare enormemente le morti (dirette o collaterali) sulle scene di guerra di tutto il mondo. Nessuno, inoltre, ne sarebbe immune: qualsiasi organizzazione terroristica potrebbe organizzarsi secondo medesimi sistemi, potendo così operare in modo ancor più insidioso in qualsiasi area della terra.

Per questo motivo in tempi non sospetti personalità come Steven Hawking ed Elon Musk chiesero una moratoria internazionale su questo tipo di droni e robot “killer”: non è soltanto questione di scenario distopico da film di Hollywood, ma si tratta invece di una seria minaccia internazionale per la sicurezza dei comuni cittadini. Guerra e pace rischiano di mescolarsi pericolosamente nel nome del terrorismo armato, insidiando pericolosamente gli spazi di libertà.

E questo il mondo non può permetterselo.

 

 

 

 

 

 

 

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