A 96 anni Jimmy Carter è ancora nel mirino della destra ebraica: "Vi spiego il perché"
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A 96 anni Jimmy Carter è ancora nel mirino della destra ebraica: "Vi spiego il perché"

A spiegarlo, con un articolo su Haaretz, è Kai Bird , vincitore del premio Pulitzer e autore di The Outlier: The Unfinished Presidency of Jimmy Carter".

Jimmy Carter
Jimmy Carter
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

16 Settembre 2021 - 17.07


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A 96 anni, Jimmy Carter è ancora nel mirino delle associazioni ebraiche più conservatrici ed è considerato dalla destra israeliana un nemico d’Israele. Perché?

A spiegarlo, con un articolo su Haaretz, è Kai Bird , vincitore del premio Pulitzer e autore di The Outlier: The Unfinished Presidency of Jimmy Carter”.

Jimmy nel mirino

“Quarant’anni dopo aver lasciato la Casa Bianca – annota Bird – Jimmy Carter, all’età di 96 anni, sembra avere ancora un problema con gli ebrei.  In America e all’estero, Carter è spesso acclamato come il vero modello di ex presidente. Ma tra molti ebrei americani, è talvolta accusato apertamente di essere intransigentemente anti-israeliano o, peggio, un antisemita. Quest’ultima etichetta è semplicemente un oltraggio, una calunnia contro l’uomo più decente che abbia occupato lo Studio Ovale nel XX secolo. Tutta la vita di Carter è la prova della sua stellare etica personale e della sua dedizione ai principi umanitari liberali. Cristiano di nascita, cresciuto nella Georgia del Sud segregata e suprematista bianca, non ha mai mostrato uno straccio di pregiudizio razziale o religioso. Per inciso, durante la sua presidenza di un solo mandato, alcuni dei suoi più stretti collaboratori erano ebrei americani di primo piano, tra cui Stuart Eizenstat, Gerald Rafshoon, Robert Lipshutz, Al Moses e David Rubenstein. Si circondò di ebrei – e non per segnare punti performanti o come scudo. Allora perché questa calunnia persistente? La risposta, ovviamente, è Israele, non gli ebrei. I problemi di Carter sono iniziati durante il suo primo anno in carica, quando ha reso chiaro che era disposto a sacrificare il capitale politico nel tentativo di affrontare lo spinoso problema della pace arabo-israeliana. Quella primavera divenne il primo presidente degli Stati Uniti a menzionare la necessità di una “patria palestinese”. E poi offese l’establishment ebraico americano cercando di fare pressione su Israele per partecipare ai colloqui di pace a Ginevra che avrebbero incluso anche l’Unione Sovietica. L’impasse che ne risultò ispirò Anwar Sadat a fare il suo storico viaggio a Gerusalemme il 19 novembre 1977. All’inizio di quel mese, il New York Times pubblicò un editoriale intitolato ‘Gli ebrei e Jimmy Carter’, in cui gli editorialisti osservavano ‘che la maggior parte dei leader della comunità ebraica si sta comportando come se il presidente Carter stesse rischiando la sopravvivenza di Israele per un illusorio accordo in Medio Oriente’. Il rabbino Alexander Schindler, allora presidente dell’Unione delle Comunità  Ebraiche Americane, ora Unione per l’Ebraismo Riformato, la più grande corrente ebraica d’America, disse di essere ‘inorridito’ dallo sforzo di Carter di esercitare pressioni sul primo ministro d’Israele  su Menachem Begin. Liberale sociale e politico, Schindler capì che Carter stava cercando di mediare una vera pace. Ma era anche molto cauto nell’essere visto come un alleato di un presidente che cercava di fare pressione su Israele. Invitato a una piccola cena alla Casa Bianca nella primavera del 1978 con altri otto leader ebrei americani, Schindler ascoltò con crescente disagio mentre Carter parlava della ‘relativa flessibilità della posizione di [Anwar] Sadat e dell’intransigenza di Israele’. Carter spiegò chiaramente che gli ‘insediamenti illegali’ in Cisgiordania erano l’ostacolo principale a una svolta nei colloqui.  Carter, però, pensava che gli altri leader ebrei che aveva invitato fossero d’accordo: ‘Con l’eccezione di Alex Schindler’, ha annotato nel suo diario presidenziale, ‘che si comporta sempre come un idiota, gli altri erano costruttivi’. Schindler, da parte sua, si allontanò dalla cena convinto che Carter stesse iniziando a orchestrare una campagna contro il primo ministro israeliano Begin: ‘Non volevo che Jimmy Carter ingannasse la comunità ebraica come aveva fatto FDR. Ciò che Schindler aveva in mente era la risposta meno che adeguata di Roosevelt alle suppliche private, ma inefficaci, dei leader ebrei di alto profilo durante la seconda guerra mondiale, come il rabbino Stephen Wise, di fare qualcosa per salvare gli ebrei europei.  Carter stava infatti cercando di reclutare leader ebrei americani come il rabbino Schindler per fare pressione sugli israeliani affinché smettessero di costruire insediamenti. Carter pensava che questo fosse ragionevole – e, tra l’altro, nell’interesse a lungo termine di Israele. Non si rendeva conto che stava chiedendo ai rabbini di toccare un terzo binario. ‘Fin dal 1948’, ha osservato il giovane aiutante di Carter alla Casa Bianca, David Rubenstein, ‘la comunità ebraica americana ha pensato che fosse suo compito sostenere Israele al novantanove per cento. Semplicemente non si critica il governo israeliano…’. E poi arriva Menachem Begin, ed ecco il presidente che cerca di far fare al governo israeliano cose che non voleva fare – come fermare gli insediamenti. Ora, penso che Carter avesse ragione, ma molti nella comunità ebraica arrivarono a credere che Carter fosse solo anti-Israele’. Sei mesi dopo lo scontro di Schindler con Carter sugli insediamenti in Cisgiordania, il presidente invitò Sadat e Begin a Camp David per 13 giorni importanti, all’inizio di settembre 1978. Il risultato furono gli accordi di Camp David che portarono, la primavera successiva, a un trattato di pace israelo-egiziano. Carter aveva compiuto un miracolo diplomatico, togliendo l’Egitto dal campo di battaglia per Israele. Non sarebbe successo senza il coinvolgimento personale di Carter. Quel trattato di pace è ancora in vigore. Eppure l’establishment ebraico americano ha continuato a lamentarsi di questo presidente. Perché? Perché all’epoca aveva insistito affinché Begin firmasse una lettera a margine degli accordi, impegnandosi ad onorare il congelamento per cinque anni di qualsiasi nuovo insediamento in Cisgiordania. Ma quella lettera d’intenti non fu firmata e, nel giro di pochi giorni, Begin stava parlando di costruire nuovi insediamenti. Secondo Carter, il primo ministro israeliano lo aveva ingannato o gli aveva mentito.  Questo malinteso non era cosa da poco. Quando Carter divenne presidente nel 1977, c’erano solo circa 5.000 coloni ebrei nella Cisgiordania occupata. E quando se ne andò nel 1981 c’erano ancora meno di 24.000 coloni. Oggi quel numero è cresciuto fino a circa 700.000, compresi gli insediamenti ebraici nella Gerusalemme Est araba, che ha occupato nel 1967 e formalmente, e illegalmente, annesso nel 1980. Per i successivi 40 anni, Carter ha insistito che gli insediamenti di Israele erano l’ostacolo principale alla pace. Avvelenavano il suo più grande trionfo diplomatico. Il suo accanimento su questo tema ha disturbato, ma anche imbarazzato, i leader ebrei americani. Nel 2006 ha pubblicato un best-seller dal titolo provocatorio: Palestina: Pace non Apartheid. Il libro è stato scritto come un altro avvertimento che Israele potrebbe diventare uno stato ebraico meno che democratico se non trovasse un modo per porre fine all’occupazione dei territori palestinesi. Agli occhi di molti ebrei americani, questo era un ex presidente che interferiva nelle decisioni dei leader israeliani di fare ciò che pensavano fosse necessario per la sicurezza di Israele. Da lì, è stato un breve percorso per accusarlo di essere un ‘odiatore di ebrei’, come Marty Peretz, allora caporedattore del settimanale The New Republic, lo ha caratterizzato. Avevano torto e Jimmy Carter aveva ragione. La decisione dell’ex presidente di usare la parola ‘apartheid’ non sembra più una forzatura; anzi, oggi sembra descrivere la realtà sul terreno nella Cisgiordania occupata. Non credo che Carter abbia un problema con gli ebrei. È proprio il contrario. L’establishment ebraico americano ha un problema con Jimmy Carter. E nel suo crepuscolo, con il suo 97° compleanno che si avvicina il 1° ottobre, probabilmente gli devono delle scuse”, conclude l’autore.

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Scuse dovute per una grande presidente. E uomo di pace.

Ricordo personale

Chi scrive ha avuto l’onore di intervistare per l’Unità Jimmy Carter. Visto che senza memoria non c’è futuro, riporto quella pubblicata sul giornale fondato da Antonio Gramsci , il 18 giugno 2009.

Porto nel mio cuore i racconti di donne, uomini, bambini costretti a vivere come bestie più che come esseri umani. Non potrò mai dimenticare ciò che ho visto con i miei occhi: immagini di case, scuole rase al suolo in una deliberata devastazione». Parla Jimmy Carter, ex presidente degli Stati Uniti, premio Nobel per la Pace. Carter è in questi giorni a Gaza. Queste le sue impressioni.
Qual è l’immagine di Gaza che poterà con sé?
Una immagine angosciante. Non ho potuto trattenere le lacrime quando ho visto con i miei occhi rovine, devastazione, vite distrutte…
Il suo grido d’allarme sembra perdersi nel vuoto…
Ciò è profondamente ingiusto e finché ne avrò la forza non smetterò di denunciare questa situazione. Mi lasci aggiungere che la tragedia di Gaza non è solo ingiusta sul piano umano, dei diritti della persona, ma è anche dannosa per la stessa causa della pace. Perché è impensabile rilanciare il dialogo quando metà di un popolo è costretta a vivere in una enorme prigione a cielo aperto. I riflettori si sono spenti, ma la sofferenza di quasi un milione e mezzo di palestinesi non è diminuita…
E la comunità internazionale?
Purtroppo la comunità internazionale sembra sorda agli appelli che giungono da Gaza.
A Gaza Lei ha avuto modo di incontrare i vertici di Hamas. Quali indicazioni ha potuto trarne?
Mi pare importante l’affermazione di Haniyeh (primo ministro nel governo di Hamas nella Striscia, ndr.) di una disponibilità di Hamas ad accettare una soluzione negoziale se i confini fossero definiti entro quelli del ‘67. Un’affermazione che si accompagna con una valutazione incoraggiante dei leader di Hamas sulle posizioni assunte dal presidente Obama. Il confronto è possibile, spazi sembrano aprirsi, ma per rafforzare questa prospettiva occorre porre fine al blocco di Gaza. Non è solo una scelta umanitaria. È un investimento su una pace possibile.
Nel campo palestinese regna la divisione.
E la divisione rende tutto ancora più difficile. Su questo punto ho molto insistito nei miei incontri politici a Gaza. Ai miei interlocutori ho detto che solo un governo di unione nazionale potrebbe porre fine alla sofferenza del popolo palestinese…
Un governo con dentro Hamas…
Mi pare inevitabile. Piaccia o no, Hamas rappresenta una parte significativa della società palestinese. Negare questo dato di fatto non aiuta la ricerca di  un accordo di pace che non può reggere se taglia fuori metà dei palestinesi. Occorre incalzare Hamas, ma non serve la sua criminalizzazione. Di questo è consapevole il presidente Obama come dimostra il suo discorso al Cairo. Un discorso coraggioso, di svolta…
Lei sa che Israele l’accusa di unillateralismo filopalestinese.
Sono rattristato di questa accusa perché la trovo ingiusta, non corrispondente al vero. Ai palestinesi ho ripetuto che non è bello vedere la distruzione operata a Gaza dalle forze armate israeliane, ma non è neanche buono quando mi reco a Sderot (una delle città israeliane più colpite dai Qassam di Hamas, ndr.) vedere i razzi che cadono sugli israeliani. Resto fermamente convinto che il solo modo di evitare che questa tragedia possa ripetersi, è raggiungere un vero accordo di pace tra palestinesi e Israele. Un accordo fondato sul principio “due popoli, due Stati”; un principio che ispira l’azione dell’amministrazione Obama.
Obama ha sottolineato a più riprese l’importanza del fattore tempo…
Sono pienamente d’accordo con lui. Occorre essere consapevoli che l’alternativa ad una pace giusta, rispettosa dei diritti dei palestinesi come della sicurezza d’Israele, non è il mantenimento dell’attuale status quo, ma una guerra ancora più dura di quelle che hanno già segnato questa tormentata regione.

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Un’altra questione cruciale nel conflitto israelo-palestinese è quella degli insediamenti. Un tema che divide il governo israeliano guidato da Benjamin Netanyahu e l’amministrazione Usa.
Obama ha usato parole chiare definendo la colonizzazione dei territori occupati il principale ostacolo ad ogni accordo di pace. E si è impegnato di fronte al mondo perché questo ostacolo sia rimosso.

Il presidente Obama si è impegnato per un accordo di pace definitivo entro la scadenza del suo mandato, nel 2012.
Vede, una cosa che abbiamo in comune è che io ho cominciato a lavorare sul Medio Oriente sin dal primo giorno del mio insediamento. E lui ha promesso a me e ad altri che avrebbe fatto altrettanto. Sta mantenendo la promessa. Questa è la sostanziale differenza tra Clinton, l’amministrazione Bush e Obama Una differenza che fa ben sperare.

Cosa abbia di antisemita questo ragionare sfugge all’umana comprensione. Ma non sfuggono le ragioni per cui l’ex presidente Usa sia odiato dalla destra ebraica: perché non gira attorno al problema, non indora la pillola, ma va dritto al punto quando denuncia l’illegalità degli insediamenti e la costituzione, de facto, di un regime di apartheid in Palestina.

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Il coraggio di parlar chiaro Jimmy Carter lo porta con sé anche alla veneranda età di 97 anni. In tanti dovrebbero andare a lezione da lui. Ne avrebbero di cose da imparare.

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