Libia, stuprate e ridotte a schiave del sesso da carcerieri in divisa, con i soldi di Roma
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Libia, stuprate e ridotte a schiave del sesso da carcerieri in divisa, con i soldi di Roma

Globalist ne ha scritto a più riprese. Ora, a dar corpo a questa storia orrenda, vergognosa, è uno dei giornalisti che meglio conosce l’inferno libico. Un giornalista dalla schiena dritta: Nello Scavo.

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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

23 Giugno 2021 - 14.54


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Ascoltate i loro racconti. Immedesimatevi, se ne avete la forza, in loro. E poi pensate che ciò che loro, come tantissime altre, hanno subito è con i soldi elargiti da Roma a quei criminali stupratori in divisa. Globalist ne ha scritto a più riprese. Ora, a dar corpo a questa storia orrenda, vergognosa, è uno dei giornalisti che meglio conosce l’inferno libico. Un giornalista dalla schiena dritta: Nello Scavo. Ecco ciò che scrive su uno dei pochi giornali italiani che non accetta verità di comodo, cioè bugie di stato: Avvenire. “Sono rimaste in cinque. Tutte minorenni. Tutte somale. La loro età è nota alla polizia libica. Ma non è certo l’essere poco più che bambine a metterle al riparo dagli stupri dei guardiani foraggiati, equipaggiati e addestrati da Italia e Ue. Anche se ieri Bruxelles ha scaricato le responsabilità su Roma.

Un mese fa due ragazzine, dopo l’ennesima sessione di abusi ad opera degli agenti, hanno provato a togliersi la vita. Entrambe sono state ricoverate in ospedale a Tripoli e visitate da personale di Medici senza frontiere, che ne ha chiesto l’immediato rilascio. Ma non c’è stato niente da fare. Le hanno di nuovo gettate in cella. Per continuare come prima.

«Anche se non è la prima volta che subisco aggressioni sessuali, queste sono le più dolorose, perché sono commesse dalle persone che dovrebbero proteggerci», ha raccontato una di loro. Nessuna alternativa: «Devi dargli qualcosa in cambio per poter andare in bagno, o per chiamare la famiglia, o per evitare di essere picchiata». 

Succede nel centro di detenzione ufficiale di Shar al-Zawyah, una prigione nella quale vengono portati i migranti catturati in mare dalla cosiddetta guardia costiera libica, in attesa del loro trasferimento in uno degli altri 28 campi di prigionia riconducibili al governo di Tripoli. Le ragazze in passato sono state rinchiuse in gattabuie clandestine. Ma adesso che si trovano in una struttura statale assicurano che «è come essere prigioniere dei trafficanti».

Gli assalti sessuali possono avvenire in qualsiasi momento della giornata. L’Associated Press è riuscita a mettersi in contatto con una di loro. Proteggere l’identità delle giovani è un obbligo. L’adolescente sta affrontando il rischio di ritorsioni pur di denunciare gli aguzzini. Ma per i poliziotti-stupratori non sarà difficile, con sole 5 minorenni, punirle indiscriminatamente. 

«Una notte di aprile, verso mezzanotte, una ragazza chiese a una guardia di lasciarla andare in bagno. Quando ebbe finito, la guardia l’aggredì. Dopo averla palpeggiata la stuprò mentre lei piangeva. Poiché il poliziotto aveva sporcato il vestito della ragazzina, le ordinò di andare a lavarsi», si legge in un report di alcuni attivisti libici entrati in contatto con le piccole prigioniere. «Ero pietrificata, non sapevo cosa fare – ha raccontato la 16enne somala -. Succede ogni giorno. Se resisti, vieni picchiata e privata di tutto».

Il governo libico non ha voluto commentare le notizie. Suki Nagra, rappresentante in Libia dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, ha confermato: «Le armi tacciono, c’è un cessate il fuoco, ma le violazioni dei diritti umani continuano senza sosta». E da Ginevra l’Alto commissariato parla di «violenza sessuale inconcepibile contro donne e ragazze migranti nel centro di detenzione Shara’ al-Zawiya di Tripoli: tentativi di suicidio per disperazione e fame. Chiediamo il loro rilascio e protezione immediati. La Libia non è un porto di ritorno sicuro per i migranti».

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La sola certezza è l’impunità. 

«Nessun addebito per gli autori di questi abusi contro le donne che sono state riportate in Libia dalla guardia costiera», denuncia ancora una volta Vincent Cochetel, inviato dell’Alto commissariato per i rifugiati nel Mediterraneo Centrale. «La maggior parte delle donne rifugiate evacuate dai centri di detenzione dove erano state trattenute per più di 9 mesi – aggiunge – avevano figli o erano incinte a causa degli stupri da parte delle guardie». Anche quando i casi sono documentati e i presunti colpevoli vengono arrestati, «spesso finiscono in libertà per mancanza di testi disposti a testimoniare per paura di rappresaglie. Ad esempio – ricorda l’Associated Press -, Abdurhaman al-Milad (il noto Bija, ndr), che è sotto sanzioni delle Nazioni Unite e pur arrestato l’anno scorso con l’accusa di traffico di esseri umani e contrabbando di carburante, è stato rilasciato ad aprile senza processo».

Un’altra ragazza ha riferito di aver iniziato a subire molestie sessuali pochi giorni dopo essere stata condotta nel centro di detenzione. Il brutale copione non cambia. Quando la somala ha chiesto a una guardia di lasciarla chiamare i genitori, il militare le ha dato un telefono e l’ha fatta uscire dalla cella. Dopo che la ragazza riattaccato, lui l’ha afferrata.

Al 10 giugno, un totale di 10.454 rifugiati e migranti sono stati segnalati da Unhcr-Acnur come intercettati dai guardacoste libici nel 2021. La maggior parte sono cittadini del Sudan (20%), del Mali (16%) e del Bangladesh (9%).

Da Bruxelles intanto suggeriscono alla stampa di chiedere spiegazioni all’Italia. Alcune settimane fa un portavoce della Commissione aveva spiegato che le intercettazioni in mare avvengono poiché Roma nel 2017 aveva pagato di tasca propria, impiegando circa 2 milioni di euro, la stesura e la registrazione dell’area di ricerca e soccorso libica, nonostante la Libia non sia riconosciuta come “Paese sicuro”. Quanto alla gestione dei migranti da parte del Dipartimento anti immigrazione illegale di Tripoli (Dcim) «non ci sono fondi dell’Ue che vanno direttamente alle autorità libiche», ha detto Ana Pisonero, portavoce della Commissione europea. Semmai «è in vigore il programma messo in campo del ministero dell’Interno italiano» per il sostegno della Guardia costiera libica. Tuttavia «l’attuale sistema di detenzione arbitraria e disumana dei migranti – ha aggiunto – deve finire».

Fin qui Sclavo.

La denuncia Onu

Violenze sessuali orribili e di routine. Violenze cui sono sottoposti praticamente tutti i migranti in transito per la Libia: uomini, donne, bambini e bambine. Violenze che spesso vengono filmate e girate via Skype ai parenti delle vittime per spingerli a pagare ingenti somme di denaro come riscatto.

Lo afferma un report della Commissione Onu per le Donne rifugiate che ha intervistato centinaia di sopravvissute all’inferno libico. “La violenza sessuale crudele e brutale, oltre alla tortura, è consumata come una prassi consolidata tanto nelle carceri clandestine quanto nei centri di detenzione ufficiali del Governo libico. Ma gli stupri sono perpetrati di routine anche durante gli arresti casuali e nell’ambito dei lavori forzati, che possiamo anche chiamare ‘schiavitù’, ai quali sono costrette le donne e gli uomini migranti” ha spiegato Sarah Chynoweth, portavoce dalla Commissione che cha subito sottolineato come sia “assolutamente insostenibile che i rifugiati che riescono a fuggire attraverso il Mediterraneo vengano intercettati, riconsegnati alla Libia e costretti ancora a subire queste violenze”. La Commissione cita esplicitamente l’accordo firmato dal nostro Paese nel 2017, quando, con il sostegno dell’Unione Europea, che ha finanziato con decine di milioni di euro la Guida costiera libica che opera in un clima di assoluta impunità, fornendogli anche i mezzi per catturare i migrati e riportarli nei centri di tortura.

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Nel complesso, l’Ue ha speso 338 milioni di euro, dal 2014 ad oggi, in questa politica sulle migrazioni che si è rivelata non soltanto fallimentare ma anche delinquenziale.

Sono storie orribile e racconti da farti venire il voltastomaco, quelli che – a fatica – gli psicologi e gli operatori specializzati riescono a cavar fuori dai sopravvissuti. Storie di stupri di una violenza inaudita, di torture indicibili, di mutilazioni genitali di massa, di fratelli costretti a violentare le sorelle o la stessa madre. Alcuni rifugiati hanno raccontato di fosse comuni riempire di cadaveri con i genitali tagliati lasciato fuori a marcire. Storie quasi impossibili da raccontare. Per vergogna, incredulità, e anche per paura. “Ci minacciano di fare delle cose orribili ai nostri fratelli e alle nostre sorelle rimasti laggiù, se raccontiamo in Europa quello che accade in Libia” ha detto un ragazzino ai soccorritori dell’Aquarius.

Samrawit è stata evacuata in Ruanda lo scorso ottobre, insieme ad altri 123 rifugiati che erano stati in Libia. Circa 258 richiedenti asilo – per lo più eritrei, somali e sudanesi – sono attualmente ospitati nel centro di transito di Gashora, a circa 55 chilometri dalla capitale del Ruanda, Kigali.
Samrawit ha lasciato l’Eritrea dopo la partenza di un parente stretto che era fuggito dalla coscrizione militare, temendo per la sua vita. Non avendo più una famiglia nel Paese, si è sentita minacciata e, di fronte alla possibilità di un reclutamento forzato, ha deciso di fuggire. In cerca di salvezza, è stata rapita e portata da trafficanti di esseri umani in una città del Sudan, vicino al confine con la Libia. “Prima ci hanno preso con la forza, poi ci hanno violentato”, dice, piangendo silenziosamente. “Ci hanno minacciato con dei coltelli. Come potevo salvarmi?”.

Samrawit è stata tenuta per due mesi in un campo di trafficanti a Kufra, nel sud-est della Libia, dove i suoi rapitori hanno inizialmente chiesto 6.000 dollari per la sua libertà. È stata comprata e venduta da diversi gruppi di trafficanti e contrabbandieri, prima di finire a Bani Walid, nel nord-ovest della Libia, dove è stata trattenuta per altri otto mesi.
I suoi occhi si riempiono di lacrime quando ricorda le terribili condizioni in cui si trovavano i prigionieri.  “Era così affollato che si doveva dormire sul fianco”, dice. “Ci davano da mangiare un piatto di pasta semplice e poco cotta al giorno. Avevamo sempre fame”. Aggiunge che avevano a malapena acqua a sufficienza e i bagni erano squallidi. “Era così sporco e brutto, soprattutto per le donne, perché quando avevamo il ciclo non riuscivamo a lavarci”.
Aggiunge che i trafficanti chiedevano soldi e poi li picchiavano e li torturavano. “Facevano cose terribili. Ci picchiavano con tubi di gomma e violentavano le donne all’aperto o sotto le macchine”, dice. Samrawit si stringe le mani mentre ricorda come torturavano i prigionieri maschi. “Scioglievano la plastica e bruciavano loro le mani e a volte li legavano e affondavano la loro testa sott’acqua”

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Orrori che vengono filmati e mostrati ai parenti rimasti in patria per estorcere denaro. Quando alle famiglie è stato rubato tutto quello che si poteva rubare, i carcerieri permettono ai migranti ancora vivi di continuare il viaggio. I centri di detenzione libici non servono a impedire o a limitare le migrazioni. Aggiungono solo dolore al dolore con l’unico risultato quello di far sbarcare in Europa persone pesantemente traumatizzate e che, nel caso dell’Italia, come sottolinea il report della Commissione Onu, ricevono pure un sostegno psicologico del tutto inadeguato o addirittura assente.

Cartoline dall’inferno

“La Libia è stato un inferno. Io sono maledetta, sono proprio maledetta”. Lo ripete più volte, Sabha, originaria della Costa D’Avorio. Dal settembre 2016 alll’aprile 2017 è stata in uno dei centri di detenzione di Sabha: “mi hanno preso e portato in prigione, volevano da me dei soldi. Sono stata lì sette mesi: mi hanno fatto di tutto. Ogni giorno ci prendevano e ci portavano da alcuni uomini per soddisfare le loro voglie. Mi hanno preso da davanti, da dietro, erano così violenti che dopo avevo difficoltà anche a sedermi. Mi filmavano mentre mi violentavano. Mi urinavano addosso. Un giorno mi hanno costretta ad avere un rapporto con un cane e loro mi hanno filmato. Sono maledetta.” La sua testimonianza, raccolta nel Cara di Mineo, fa parte del report La Fabbrica della Tortura, reso noto da Medici per i diritti umani (Medu)

Un recente rapporto pubblicato dall’agenzia Onu per i rifugiati, Unhcr, e dal Mixed Migration Centre (Mmc) del Danish Refugee Council, intitolato “In questo viaggio, a nessuno importa se vivi o muoririferisce che donne e bambine, ma anche uomini e bambini, sono a rischio elevato di divenire vittime di stupri e violenza sessuale e di genere, in particolare presso check-point e aree di frontiera, e durante le traversate del deserto. Circa il 31% delle persone intervistate dal Mmc che hanno assistito o sono sopravvissute a episodi di violenza sessuale nel 2018 o nel 2019, hanno vissuto tali aggressioni in più di una località. I trafficanti risultano essere stati i primi responsabili di violenza sessuale in Africa settentrionale e orientale, come registrato nel 60% e nel 90% delle testimonianze relative a ciascuna rotta, mentre in Africa occidentale, i principali responsabili di aggressioni sono stati funzionari delle forze di sicurezza, militari o di polizia, avendo commesso un quarto degli abusi denunciati.

Torture, stupri, esseri umani venduti come schiavi, con una commistione criminale tra trafficanti di esseri umani, milizie che hanno il controllo del territorio e funzionari corrotti. Tutto questo è documentato in decine di rapporti. Supportato da inchieste dei più importanti media internazionali. Eppure a Roma, come a Bruxelles, si fa finta di niente. Cambiano i governi, i commissari europei, ma resta l’ossessione dell’”invasione” da fermare. Costi quel che costi. Una invasione “inesistente”, numeri alla mano, quella dei migranti. Eppure i respingimenti continuano. Eppure la guerra alle Ong prosegue, nonostante che al Viminale non ci sia più Salvini ma la più “soft”, nei toni, ma non nella determinazione a guerreggiare con le Ong salvavita ministra Lamorgese. Niente è stato fatto per fermare davvero questa mattanza di esseri umani. 

E al Viminale non c’è più Matteo Salvini. E allora, presidente Draghi? 

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