Palestina, la pace va finanziata. Il G7 allarghi i cordoni della borsa
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Palestina, la pace va finanziata. Il G7 allarghi i cordoni della borsa

 L’Allmep fa appello ai governi Italiano e Statunitense affinché diano avvio ad un Fondo Internazionale per la Pace Israelo-Palestinese, la prossima settimana, durante il Summit del G7

Bambini palestinesi
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

9 Giugno 2021 - 07.14


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Palestina, la pace va finanziata. E la comunità internazionale deve allargare i cordoni della borsa.

A rimarcarlo, con una nota ufficiale, è ’Alleanza per la Pace in Medio Oriente (Allmep), la maggiore e più dinamica rete di Ong in Israele e Palestina. “Dopo settimane di guerra devastante che ha causato la morte di centinaia di persone, ivi compresi bambini, una coalizione di organizzazioni apartitica e multinazionale si appella alla comunità internazionale affinché dia priorità al finanziamento immediato del consolidamento della pace in Israele e Palestina. 

 L’Allmep fa appello ai governi Italiano e Statunitense affinché diano avvio ad un Fondo Internazionale per la Pace Israelo-Palestinese, la prossima settimana, durante il Summit del G7. Ideato sul modello del Fondo Internazionale per l’Irlanda, che il negoziatore britannico in capo Jonathan Powell ha qualificato “il grande eroe sconosciuto” dell’Accordo del Venerdì Santo, il Fondo è concepito al fine di abbattere le barriere di sfiducia fra Israeliani e Palestinesi attraverso l’impegno civico e i programmi people-to-people, rivolti ad aprire la strada alla possibilità di una pace sostenibile. 

 Finanziare la pace

Il finanziamento degli Stati Uniti a tale sforzo potrebbe arrivare attraverso il Nita M.Lowey East Partnership for Peace Act (Meppa), una legge approvata lo scorso dicembre grazie a una campagna di sensibilizzazione diretta da Allmep, che prevede lo stanziamento di $250 milioni nell’arco di cinque anni al fine di espandere iniziative di riconciliazione e risoluzione del conflitto nella regione e altresì di sostenere progetti di sviluppo dell’economia Palestinese. Tuttavia, il sostegno di alleati chiave, e in particolare delle nazioni del G7, sarà fondamentale al fine di ampliare gli sforzi che permetteranno ai programmi di peacebuilding di essere realmente e profondamente trasformativi in entrambe le comunità. Il senso di legittimità e rispetto di cui l’Italia gode sia in Israele sia in Palestina la pone in una posizione privilegiata per assicurare che il Fondo non prenda solamente la forma di partnership transatlantica, ma si realizzi anche come una partnership multilaterale e Mediterranea. Tale concetto sta godendo del sostegno crescente di coloro che comprendono la complessità del problema che il Fondo è stato ideato per contrastare. Tra essi vi è l’ex Coordinatore Speciale delle Nazioni Unite Nickolay Mladenov, il quale ha recentemente twittato: ‘Il crollo dei contatti interpersonali fra Israeliani e Palestinesi alimenta la violenza e l’odio. La comunità internazionale deve sostenere gli sforzi della società civile, e il meeting del G7 è una grande opportunità per farlo’.

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 Come John Lyndon, direttore esecutivo di Allmep, ha affermato: ‘Il Fondo Internazionale per la Pace Israelo-Palestinese è uno strumento fondamentale, non solo per contenere le tensioni di questo momento, ma anche per costruire una pace duratura. L’Italia potrebbe apportare ad esso la sua competenza nel peacebuilding, che si è andata consolidando negli anni sia a livello istituzionale sia della società civile, e che si fonda su solide basi legislative e specialmente sulla sua nobile Costituzione. All’indomani dell’ultimo round di violenze, è essenziale che l’amministrazione Biden, il Governo Draghi e la comunità internazionale nel suo complesso, pongano come priorità il finanziamento di iniziative che guardino al futuro. Durante il G7, gli Stati Uniti, l’Italia e altri alleati, hanno l’opportunità di guidare il mondo verso una strategia di lungo termine diretta non solo a contenere i sentimenti di ostilità e disumanizzazione che affliggono le parti in conflitto, ma che getterà le fondamenta di una partnership Israeliana e Palestinese, Araba ed Ebraica, che possa portare alla pace e all’uguaglianza per tutti’, conclude l’Allmep.  

 Il governo italiano ha l’opportunità di lavorare con gli Stati Uniti e altre nazioni per promuovere questi obiettivi. Come il Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Luigi Di Maio, ha sostenuto: ‘Le dinamiche geopolitiche, che si riverberano sugli equilibri regionali, attraversano oggi una fase di grande incertezza con uno dei pochi punti fermi, rappresentato dal ruolo degli Stati Uniti in questa regione: a partire dagli accordi di Abramo, e passando adesso alla stagione della nuova amministrazione, che sta intensificando la cooperazione  e le sinergie con i propri alleati, anzitutto con l’Europa, anche in un’ottica di condivisione delle responsabilità’.

 Durante il G7, i decisori politici delle principali economie del mondo si riuniscono al fine di rispondere alle pressanti sfide globali. Data la gravità del conflitto che li oppone, i Palestinesi e gli Israeliani non possono più aspettare che i decisori politici passino all’azione. I membri di Allmep fanno appello perché il Summit si impegni a creare un Fondo Internazionale per la Pace Israelo-Palestinese e ad espandere le attività che si sono dimostrate efficaci nel costruire un ambiente propizio per una pace di lungo termine”. 

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La pace passa per Sheikh Jarrah

Ad affermarlo è un editoriale di Haaretz: “La decisione del procuratore generale Avichai Mendelblit di non intervenire nelle cause di sfratto nel quartiere Sheikh Jarrah di Gerusalemme dà apparentemente sostegno alla tesi dei coloni che questo è un semplice caso civile di proprietari terrieri che cercano di rimuovere gli abusivi. Ma la decisione ignora il ruolo decisivo che le autorità statali hanno giocato nel trasformare un’organizzazione di insediamento di destra nel proprietario di un quartiere dove vivono centinaia di palestinesi. Inizia con le leggi che discriminano tra arabi ed ebrei per quanto riguarda tutte le proprietà possedute prima del 1948, continua con le decisioni dell’Ufficio del Custode Generale nel Ministero della Giustizia di rilasciare la terra ai suoi storici proprietari ebrei, e finisce con lo stato che si sottrae alla sua responsabilità per i residenti palestinesi che furono insediati nell’area dal governo sovrano dell’epoca, quello della Giordania. Nel 1948, molte persone abbandonarono le loro proprietà e fuggirono dall’altra parte del confine. La maggior parte di loro erano palestinesi che lasciarono un’enorme quantità di proprietà sul lato occidentale e fuggirono verso est. Una piccolissima minoranza erano ebrei che abbandonarono le proprietà e fuggirono verso ovest. La legge israeliana permette solo al secondo gruppo di recuperare le sue proprietà, ma lo nega al primo gruppo. I palestinesi che vivono a Sheikh Jarrah sono rifugiati che hanno abbandonato le loro proprietà e sono fuggiti verso est. I coloni hanno ottenuto la terra perché appartengono al secondo gruppo. In pratica, l’organizzazione di destra, che è detenuta da una società di paglia registrata in un paradiso fiscale straniero, ha acquistato la terra dai suoi proprietari ebrei. Gli argomenti legali che permettono questo possono suonare ragionevoli nei tribunali israeliani, che per decenni sono stati condizionati a governare sulla base di un sistema di leggi discriminatorie. Ma sono impossibili da spiegare nell’arena internazionale. Niente li farà sembrare logici o morali ad una persona ragionevole.

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E più grande è l’ingiustizia, più Israele cerca di nasconderla. Sabato, la polizia ha arrestato la giornalista Givara Budeiri, corrispondente di lunga data per al Jazeera. È stata rilasciata poche ore dopo con un braccio rotto, unendosi alla lunga lista di giornalisti palestinesi che sono stati feriti dai poliziotti a Gerusalemme nelle ultime settimane. Domenica, anche i fratelli Muna e Mohammed Al-Kurd, entrambi attivisti di spicco a Sheikh Jarrah con milioni di seguaci sui social media, sono stati arrestati. Anche loro sono stati rilasciati dopo poche ore, durante le quali hanno acquisito centinaia di migliaia di nuovi seguaci. Quasi ogni giorno la polizia lavora per allontanare con la forza gli attivisti e impedire le manifestazioni di sostegno ai residenti.

L’arruolamento degli impiegati statali, dal procuratore generale all’ultimo dei poliziotti, a beneficio dell’impresa di espulsione e di insediamento a Sheikh Jarrah è un imbarazzo per Israele. Causa un danno morale, danneggia la diplomazia pubblica e rappresenta un rischio per la sicurezza di tutti gli israeliani. Speriamo che il nuovo governo abbia considerazioni più ampie e ordini al procuratore generale di intervenire per amore del buon senso e della giustizia.”, conclude Haaretz.

Il momento della verità

Intanto, Israele si prepara al giorno della verità. Il giorno che potrebbe decretare la fine dell’era-Netanyahu. Si terrà domenica 13 giugno il voto di fiducia al cosiddetto “governo del cambiamento” in Israele, il primo senza Benjamin Netanyahu dopo 12 anni. Lo ha annunciato il presidente della Knesset, Yariv Levin, citato dal sito di Maariv. Nella stessa seduta – secondo i media – si voterà anche per eleggere il sostituto di Levin. Sulla carta il nuovo esecutivo dovrebbe contare su una maggioranza di 61 deputati sui 120 della Knesset. Il governo sarà composto da otto partiti di destra, centro e sinistra, oltre al partito arabo Ràam, uniti soprattutto dall’obiettivo di estromettere Netanyahu. Il governo del cambiamento sarà guidato a rotazione, prima da Naftali Bennett, leader del partito di destra Yamina, poi da Yair Lapid, capo del partito centrista Yesh Atid.  

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