A Gaza la tregua non cancella la sofferenza. Non spegniamo i riflettori
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A Gaza la tregua non cancella la sofferenza. Non spegniamo i riflettori

Le scene di morte e distruzione a Gaza, trasmesse ripetutamente dalla televisione araba e dai social media, contribuiscono anche all'atmosfera tesa a Gerusalemme e in Cisgiordania.

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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

25 Maggio 2021 - 14.58


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Gaza, non spegniamo i “riflettori”. Perché la tregua, dopo undici giorni di guerra, è tutt’altro che consolidata. E, soprattutto, perché a Gaza, ancor più dopo quei giorni di morte e distruzione, la sofferenza è il “pane quotidiano” per due milioni di palestinesi. 

 Dopo 11 giorni di bombardamenti, a Gaza gran parte della popolazione non ha accesso regolare all’acqua pulita. Le reti idroelettriche sono distrutte e l’unico impianto di desalinizzazione è chiuso. La conseguenza è che 400 mila persone sono rimaste letteralmente senz’acqua, costrette, in piena pandemia, a sopravvivere in condizioni igienico-sanitarie sempre più critiche, con gli ospedali che sono stati colpiti dagli attacchi.

 E’ l’allarme lanciato da Oxfam a pochi giorni dal cessate il fuoco scattato dopo l’ultima terrificante escalation.

 “L’intera popolazione della Striscia di Gaza – 2,1 milioni di persone – giorno dopo giorno sta vivendo le conseguenze dei bombardamenti israeliani, che hanno causato 248 vittime, distrutto 258 edifici che ospitavano 1.042 tra abitazioni e uffici, devastato i servizi pubblici essenziali”, rimarca Paolo Pezzati, policy advisor per le emergenze umanitarie di Oxfam Italia.

 Circa 100.000 palestinesi sono stati sfollati durante i bombardamenti e cercano ora di fare ritorno alle proprie case. Ma se anche le ritroveranno in piedi, li aspetta una vita di inimmaginabili difficoltà.

 “Gaza dipende dal carburante (benzina/gasolio) per produrre elettricità e rifornirsi di acqua, con l’interruzione degli approvvigionamenti, centinaia di migliaia di persone sono costrette in condizioni igienico-sanitarie spaventose. – ha aggiunto Pezzati – La mancanza di elettricità e la distruzione di sedi di uffici hanno costretto molte piccole aziende a fermarsi. Le autorità israeliane hanno ridotto la fornitura di combustibile e chiuso gran parte della zona di pesca di Gaza, privando 3.600 pescatori della loro fonte di sostentamento”. 

 Oltre 330 mila casi di Covid, ospedali danneggiati e quasi nessuno strumento per proteggersi dal contagio

“Avere accesso all’acqua pulita è cruciale anche per prevenire l’ulteriore diffusione dei contagi da Covid19, durante una fase così critica della gestione della pandemia, in un contesto dove di certo la popolazione non verrà immunizzata con i vaccini in tempi rapidi. – continua Pezzati – Sei ospedali e altre 11 strutture sanitarie sono state gravemente danneggiate, tra cui l’unico laboratorio di analisi per i casi di coronavirus”.

In totale ad oggi a Gaza e in Cisgiordania sono stati registrati 330 mila contagi e oltre 3.700 vittime per la pandemiaAnche prima dello scoppio dell’ultimo conflitto, il consumo medio giornaliero di acqua era di appena 88 litri pro-capite, molto al di sotto della fornitura minima per far fronte ai bisogni di base, fissata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità in 100 litri a persona.

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“Di notte usciamo con i secchi per strada per procurarci un po’ d’acqua”

Alla crisi idrica si somma la mancanza di energia elettrica che mette in crisi l’erogazione di qualsiasi servizio essenziale per la popolazione.

“Al momento stiamo andando avanti con sole 4 ore di energia elettrica al giorno – racconta Amal, che vive nel nord di Gaza – Questo ci impedisce di poter contare anche su quell’ora al giorno in cui sarebbe disponibile l’acqua corrente, perché senza elettricità non possiamo pomparla fino al serbatoio che abbiamo sul tetto di casa. Per raccogliere quel poco d’acqua che ci permette di sopravvivere, restiamo in giro tutta la notte con dei secchi”.

La risposta di Oxfam e l’appello alla comunità internazionale a scongiurare un nuovo conflitto

Dopo il cessate il fuoco di pochi giorni fa, Oxfam è già tornata al lavoro con i partner per distribuire acqua pulita, kit-igienico sanitari e aiuti in denaro, per consentire alla popolazione di acquistare cibo e altri beni essenziali. Con l’obiettivo di potenziare la propria risposta e soccorrere altre 282 mila persone allo stremo, per cui sarà necessario raccogliere 3 milioni di dollari.

“In questo momento è fondamentale far fronte all’emergenza e ai crescenti bisogni della popolazione. – conclude Pezzati – Ma Gaza non potrà rialzarsi davvero finché non saranno risolte le cause alla base dell’ultimo conflitto. Quello che oggi viene riscostruito, potrebbe essere distrutto domani da nuovi bombardamenti. La comunità internazionale deve intervenire con un’immediata e concreta azione politica, che garantisca non solo un cessate il fuoco duraturo, ma anche la fine dell’occupazione e del blocco in corso da 14 anni sulla Striscia di Gaza”.

 Si può sostenere l’intervento di Oxfam al fianco della popolazione di Gaza su https://www.oxfamitalia.org/gaza-senza-acqua-dona/. 

Di certo, sono euro ben spesi. 

Una fragile tregua

A darne conto è l’analista militare di Haaretz, Amos Harel.

“Anche se il cessate il fuoco tra Israele e Hamas viene osservato 

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e guardiamo attentamente – scrive Harel –  la calma nella Striscia di Gaza è tutt’altro che stabile. L’intesa, raggiunta con l’appoggio americano e la mediazione egiziana, non ha dato quasi nessun dettaglio sugli ulteriori accordi, bastando nella prima fase una promessa di calma in cambio di calma.

Ma ci rimangono potenziali detonatori che potrebbero innescare una nuova conflagrazione, anche se questo non sembrerebbe nell’interesse immediato di Israele o di Hamas. Queste potenziali scintille riguardano il modo in cui Israele potrebbe reagire a futuri atti ostili dalla Striscia, la chiusura dei valichi di Gaza e le tensioni in Cisgiordania e Gerusalemme. Dopo il cessate il fuoco, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha promesso che la situazione prima dell’operazione di 11 giorni non sarebbe tornata, ma che Israele avrebbe stabilito ‘una nuova equazione’. Le parole di Netanyahu coincidono con le raccomandazioni delle Forze di Difesa Israeliane di rispondere duramente ad ogni lancio di razzi e ad ogni lancio di un pallone incendiario dalla Striscia. In un certo senso, lo Stato Maggiore ha così ridotto lo spazio di manovra dei politici. Nelle proposte dell’Idf, che includono una modifica del meccanismo di trasferimento dei fondi del Qatar a Gaza (in modo che il denaro passi attraverso l’Autorità Palestinese e con la sua supervisione), i militari hanno essenzialmente costretto il governo ad adottare una linea dura con Hamas. In una certa misura questo è un approccio necessario. L’ignorare da parte di Israele le precedenti violazioni del cessate il fuoco ha portato alla deliberata escalation di Hamas all’inizio di questo mese. D’altra parte, ogni fazione palestinese che ha un conto in sospeso con i leader di Hamas nella Striscia sa di avere in mano la chiave per una nuova escalation. Per quanto riguarda i valichi, in questo momento sono più spesso chiusi che aperti, nonostante i pesanti danni alle infrastrutture civili di Gaza durante i combattimenti e la necessità di ripararli rapidamente. Di tanto in tanto, Israele permette l’entrata e l’uscita di persone e merci per scopi umanitari, ma questo viene fatto molto gelosamente. Una ragione è il desiderio tardivo di correggere gli errori della guerra di Gaza del 2014 e di accelerare i colloqui sulla restituzione dei corpi dei soldati e dei civili israeliani detenuti a Gaza. Anche qui, c’è un divario tra ciò che è desiderato e ciò che è possibile. È dubbio che Hamas, che sembra euforico per la sensazione di aver dato una lezione a Israele nei combattimenti di questo mese, cederà rapidamente alle pressioni. La continuazione della crisi umanitaria potrebbe anche accelerare un’altra fiammata. Il terzo detonatore è a Gerusalemme e in Cisgiordania. L’ultimo scontro è iniziato a Gerusalemme, un prolungamento delle manifestazioni contro il piano di sfratto delle famiglie palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah, il posizionamento di posti di blocco della polizia alla Porta di Damasco e le tensioni sul Monte del Tempio. La disputa su Sheikh Jarrah e le tensioni alla Moschea di Al-Aqsa non si sono risolte con la cessazione delle ostilità a Gaza. La situazione potrebbe essere il contrario: ora c’è più tempo ed energia per queste cose. Durante il fine settimana, è seguito uno scontro tra Hamas e Fatah sul Monte del Tempio, direttamente influenzato dai recenti eventi.

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Le scene di morte e distruzione a Gaza, trasmesse ripetutamente dalla televisione araba e dai social media, contribuiscono anche all’atmosfera tesa a Gerusalemme e in Cisgiordania. Sebbene Israele abbia effettivamente ucciso meno civili questa volta rispetto alle operazioni precedenti e siano stati fatti migliori tentativi per distinguere tra combattenti e civili, è stato versato abbastanza sangue per agitare la gente. Le prime indicazioni di ciò sono gli attacchi terroristici delle ultime due settimane in tutta la Cisgiordania, compiuti per lo più da individui non affiliati ad alcuna organizzazione.

Lunedì, un palestinese di Gerusalemme Est che ha accoltellato un soldato israeliano e un civile vicino a Ammunition Hill è stato ucciso da un poliziotto. È probabile che tali incidenti continuino. Hamas ha riacceso i palestinesi a Gerusalemme e in Cisgiordania, e alcune persone tradurranno questo in tentativi di terrore. Il conflitto ha anche esacerbato le tensioni tra l’Autorità Palestinese, Hamas e Israele.

La dimostrazione del potere di Hamas probabilmente porterà  l’AP ad arrestare gli operativi di Hamas in Cisgiordania, il che potrebbe mantenere le tensioni a fuoco lento, o anche più alto”, conclude Harel. 

Il fuoco arde ancora la Striscia. Spegnerlo non sarà facile. Soprattutto se Israele porterà avanti un assedio totale iniziato quindici anni fa. 

 

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