La tragedia tunisina e l'elemosina italiana
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La tragedia tunisina e l'elemosina italiana

Venti milioni per blindare i confini di un Paese disastrato economicamente. Come svuotare l’oceano con un secchiello. Ma questa è la “lungimirante” politica di Conte-Di Maio-Lamorgese verso la Tunisia.

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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

1 Ottobre 2020 - 15.01


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Venti milioni per blindare i confini di un Paese disastrato economicamente. E’ come voler svuotare l’oceano con un secchiello. Ma questa è la “lungimirante” politica del trio Conte-Di Maio-Lamorgese nei confronti della Tunisia.  Il risultato? Secondo le cifre pubblicate dal Viminale nei giorni scorsi, dall’inizio dell’anno circa 10mila tunisini hanno attraversato i 130 km nel Mediterraneo fino alla Sicilia. Quasi la metà dei 23.517 migranti arrivati negli ultimi 9 mesi. Cifre triplicate rispetto al 2019.

In un’intervista alla Stampa, il procuratore aggiunto di Agrigento Salvatore Vella commenta l’aumento degli sbarchi di migranti provenienti dalla Tunisia. “Sembra di essere tornati a dieci anni fa – dice Vella – con una differenza degna di nota. Prima i pescherecci viaggiavano senza reti o attrezzature proprio perché in realtà dovevano solo trasportare i migranti, ora fanno sia i pescatori che gli scafisti. Abbiamo trovato a bordo reti, anche se asciutte, e un po’ di pesce”. Sono centinaia i barchini di piccole dimensioni arrivati in queste settimane a Lampedusa. “Ogni giorno sequestriamo una trentina di barche – dice Vella alla Stampa – e trattiamo una ventina di arresti in flagranza, perché si tratta di persone già espulse che provano a tornare in Italia prima del tempo”. Arrivano quasi sempre tunisini, precisa Vella “quindi migranti economici che quasi mai possono avere protezione umanitaria anche se c’è chi prova a fare il furbo con stratagemmi”. Il procuratore spiega che è difficile individuare i pescherecci con i migranti a bordo mentre attraversano il canale di Sicilia, confondendosi con le altre imbarcazioni. Non si notano né dall’alto né dalle altre barche, perché i barchini a bordo dei pescherecci servono in ogni caso a stendere le enormi reti da pesca. 

Le ragioni dell’esodo

Romdhane Ben Amor, portavoce dell’ong Forum tunisino per i diritti economici e sociali (Ftdes) dice che queste cifre non si registravano dal 2011, quando scoppiò la primavera araba e in Tunisia la “rivoluzione dei gelsomini”.

Oggi, però, qualcosa è cambiato, rispetto ad allora. “Fra coloro che se ne vanno ora ci sono laureati e persone con un lavoro”, spiega il portavoce di Ftdes. “Famiglie che prima si opponevano all’emigrazione dei propri figli, oggi non si oppongono più e, anzi, a volte finanziano l’attraversata”. Secondo Ben Amor tra le 150 e le 200 famiglie sono riuscite a eludere i controlli della Guardia costiera locale.

Le dimensioni della crisi

Nel Paese maghrebino, specialmente nelle regioni dell’entroterra e del sud del Paese, dove il tasso di disoccupazione giovanile sfiora il 35%, la crisi sanitaria ha contribuito a peggiorare notevolmente condizioni di vita già estremamente precarie. Nella regione di Tataouine (Sahara tunisino), tra le più povere del Paese, dopo il lockdown i giovani disoccupati hanno ricominciato a protestare chiedendo al governo l’applicazione di un accordo firmato nel 2017 che avrebbe dovuto garantire la creazione di   grazie al coinvolgimento delle imprese petrolifere che operano nella zona, tra cui l’italiana Eni a cui viene chiesto di procedere al reclutamento di manodopera locale. Cosa che non è ancora accaduta. Oltre ai giornalieri e al settore dell’economia informale, 400mila lavoratori della zona costiera quest’anno resteranno a casa: il settore del turismo, il 20% dell’economia del Paese, è in piena crisi a causa della chiusura delle frontiere. La situazione rischia di precipitare, stando alle previsioni della Banca Centrale Tunisina il Pil si ridurrà del 4,3%, e ciò comporterà un aumento della disoccupazione di almeno 6 punti percentuali. Dal 15% al 21% della popolazione totale senza lavoro in pochi mesi. In cambio di una serie di riforme, il Fondo monetario internazionale ha concesso un prestito d’urgenza alla Tunisia di 745 milioni di dollari per “attenuare le ripercussioni della crisi sul piano umanitario, sociale ed economico in un contesto più incerto che mai” pur prevedendo la peggiore recessione dai tempi dell’indipendenza nel 1956”.

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“Bella ciao”

Racconta Annalisi Camilli su Internazionale: “Anche i tunisini cantano Bella ciao. Era una delle canzoni che suonavano nei giorni della rivoluzione dei gelsomini.  H’biba ciao non parla di partigiani né di guerra o di mondine, ma di migranti. L’ha scritta Bendirman, un musicista che è stato un simbolo per i giovani rivoluzionari che nel 2011 chiedevano la fine dello ‘stato di polizia’ e del regime di Zine el Abidine Ben Ali. 

‘Domani, quando ti sveglierai, non mi troverai, bella ciao. Metti Rai Uno, forse mi vedrai saltellare in terra italiana’, dice la canzone. ‘Sia che vediamo quel paradiso coi nostri occhi – bella ciao – sia che affoghiamo e moriamo senza sepoltura, la mia anima tornerà da te a nuoto’, continua il musicista tunisino sulle note di uno dei più famosi ritornelli del mondo”.

La rotta tunisina

Arrivano nelle aree di Porto Empedocle, Sciacca, Licata, nell’Agrigentino, su barconi di legno di 10-12 metri, che spesso vengono anche abbandonati. In alcuni casi gli occupanti delle imbarcazioni riescono a scendere e far perdere le loro tracce, in altri gli uomini della Guardia di Finanza o della Capitaneria di porto li hanno individuati.  Più a ovest, verso Trapani o Mazzara, gli immigrati sbarcano, invece, da gommoni che portano dalle 20 alle 40 persone alla volta. In alcuni casi, assieme agli esseri umani, sono stati recuperati anche carichi di sigarette o stupefacenti. E’ la rotta tunisina, che attraversa il confine tra Tunisia e Libia. A confermarlo è Reem Bouarrouj, responsabile immigrazione di Ftdes, “Tra gli immigrati in Libia – dice – sta iniziando a circolare la voce. Sanno che la Guardia Costiera e le milizie impediscono le partenze dalla costa e così puntano alla Tunisia”. Nell’area di confine tra Libia e Tunisia vige, ormai da tempo, un patto d’azione tra trafficanti di esseri umani e miliziani dell’Isis che, in rotta da Siria e Iraq, hanno fatto di quest’area frontaliera la trincea avanzata dello Stato islamico nel Nord Africa. Generalmente, secondo le indiscrezioni arrivate nel corso degli anni dalle indagini svolte soprattutto in Sicilia, i viaggi da Biserta hanno un costo maggiore rispetto a quelli che partono da sud, in alcuni casi un singolo migrante potrebbe pagare anche 4.000 Euro per la traversata.

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Parlano i Nobel per la pace

Dietro alla “rotta tunisina”, dice a Globalist Abdessatar Ben Moussa, avvocato, presidente della Lega per i diritti umani, uno dei membri del Quartetto per il dialogo nazionale tunisino, insignito, nel 2015, del Premio Nobel per la Pace, “vi sono organizzazioni criminali che hanno stabilito un patto d’azione con gruppi jihadisti che, dopo essere stati scacciati dalla Siria e dall’Iraq, hanno fatto del Nord Africa la loro nuova trincea, soprattutto ai confini tra Tunisia e Libia. Il loro obiettivo non è la conquista del potere ma destabilizzare i Paesi in cui s’insediano, cercando di controllare territori utilizzati per sviluppare i loro traffici criminali. E lo fanno sfruttando un malessere sociale che la crisi pandemica ha ulteriormente alimentato. La risposta vincente non può essere solo repressiva né, come purtroppo è accaduto, utilizzare la guerra al terrorismo per sospendere libertà fondamentali, individuali e collettive. La Tunisia è nel mirino di questi criminali perché ciò che non tollerano è il consolidamento dello Stato di diritto, l’opposto della dittatura della sharia che vorrebbero instaurare”. In questo scenario, aggiunge il Nobel per la pace, “la crisi pandemica rischia di moltiplicare le disuguaglianze sociali e la distanza tra i Paesi ricchi e i Sud del mondo”.

I “gelsomini” non bastano per sfamare un popolo. I diritti non si mangiano. Una “rivoluzione” non si consolida se non riesce a dare un tetto, un lavoro, un futuro ad un popolo giovane. A nove anni dalla revolution yasmine, la Tunisia si riscopre inquieta, pervasa da un malessere sociale che investe tutti i settori della popolazione. “Quello compiuto in questi nove anni – dice a Globalist Houcine Abassi, già Segretario generale dell’Ugtt (Union générale tunisienne du travail) Premio Nobel per la Pace nel 2015 come membro del Quartetto per il dialogo – non è stato un percorso lineare, la transizione democratica è ancora in atto e non potrà dirsi conclusa se non affronta la grande questione che resta irrisolta ed anzi tende ad aggravarsi”. E quella “grande questione si chiama malessere sociale. L’ex capo del sindacato tunisino ne è assolutamente convinto: “La libertà – sostiene – non può dirsi realizzata se non hai un lavoro, se i giovani non possono costruire il loro futuro, avere una casa, diventare autonomi. In Tunisia, la rivoluzione del 2011 ha abbattuto un regime corrotto, la transizione ha consolidato le istituzioni, abbiamo una Costituzione tra le più avanzate in questa parte di mondo, ma non basta, non può bastare. Perché sul piano sociale il bilancio è negativo: il tasso di disoccupazione è aumentato del 15% a livello nazionale e raggiunto il 25% nelle regioni interne. Quello tunisino è un popolo giovane, e se ai giovani non dai una prospettiva concreta di realizzazione, il futuro è a rischio”.

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Nell’ultimo anno il Pil è cresciuto meno dell’1 per cento, la disoccupazione è schizzata invece al 15% (anche se secondo chi protesta la percentuale è almeno il doppio). I disoccupati sono oltre 600 mila, di cui più di un terzo in possesso di diploma di istruzione superiore.

Le conquiste democratiche, avviate dopo la fuga dell’ex presidente Zine El Abidine Ben Ali, il 14 gennaio 2011, non sono state accompagnate da una crescita economica in cui tutti speravano. Secondo l’ex ministro dell’Economia, Houcine Dimassi, “tutti i numeri indicano un netto peggioramento della situazione economica rispetto al 2010-2011”, quando Tunisi registrava un aumento del Pil tra il 4 e il 5 per cento. Una crisi economica drammatica, che non risparmia i beni primari: tutto è caro, la carne rossa costa 25 dinari al chilo, in tavola arriva se va bene una volta al mese. Senza contare che bisogna pagare l’affitto, le bollette, l’assistenza sanitaria, che non è più gratuita per nessuno, neanche per chi ne avrebbe diritto. Un dramma per un Paese,,  che ha la disoccupazione al 30% e ben poche speranze di mobilità sociale.

Alla base della fuga di tunisini dal Paese nordafricano c’è una crescente crisi sociale ed economica resa ancora più devastante dall’emergenza Covid-19. La pandemia ha provocato la chiusura delle infrastrutture turistiche: Hammamet, Sfax, Cartagine, Djerba, Tunisi, gli europei in vacanza sono spariti. Tutti quelli che lavoravano nel comparto sono senza impiego e vanno via. 

In questo scenario denso di incognite, chi non ha speranza fa di tutto pur di ritrovarla. Fuori dalla Tunisia, in Europa. Pensare di fermarli chiudendo i porti o trasformando la Guardia costiera tunisina in una sorta di replica della nefasta Guardia costiera libica, non è soltanto diventare complici di abusi e crimini, ma è anche una illusione: perché a chi è negato un futuro, non ha più nulla da perdere. E non sarà la militarizzazione delle frontiere esterne a “proteggere” l’Italia. Né venti milioni di euro.

 

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