Pescatori sequestrati in Libia, Di Maio mendica l’aiuto di Erdogan e Putin
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Pescatori sequestrati in Libia, Di Maio mendica l’aiuto di Erdogan e Putin

Da diciotto giorni otto pescatori italiani (sei in una villa, due a bordo delle imbarcazioni) e dieci colleghi di altre nazionalità sono “in stato di fermo” a Bengasi.

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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

18 Settembre 2020 - 16.24


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Quando erano in mare, in acque internazionali, non hanno goduto della protezione della nostra marina militare, lasciandoli in balia delle forze navali di Bengasi. Ed ora, sono diventati pedine di una partita politica apertasi tra l’uomo forte della Cirenaica, il generale Khalifa Haftar, e l’Italia.

Un alto ufficiale dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna), generale Khaled al Mahjoub, ha dichiarato che i pescatori italiani trattenuti dal primo settembre scorso a Bengasi, il capoluogo della Cirenaica sotto il controllo di Khalifa Haftar, sono attualmente indagati dalla Procura. In una dichiarazione ad Agenzia Nova, Al Mahjoub ha affermato che la principale accusa contro i pescatori è di essere entrati senza autorizzazione nella zona di pesca esclusiva libica (dichiarata unilateralmente a partire dal 2005 fino a 74 miglia dalla propria costa, atto in contrasto con le norme che regolano il diritto del mare e mai riconosciuta da paesi terzi). L’intercettazione, il sequestro e la detenzione dei pescherecci stranieri e dei loro equipaggi da parte delle autorità libiche e delle milizie locali è frequente, ma generalmente si risolve nel giro di pochi giorni. Rispondendo a una domanda sull’accusa di presunto possesso di materiali proibiti che potrebbe essere diretta ai pescatori, Al Mahjoub ha aggiunto che qualsiasi altro capo d’imputazione sarà reso noto dalla magistratura non appena le indagini delle autorità competenti saranno terminate, incluso l’esame di quanto rinvenuto a bordo dei pescherecci. 

Ostaggi

Da diciotto giorni otto pescatori italiani (sei in una villa, due a bordo delle imbarcazioni) e dieci colleghi di altre nazionalità sono “in stato di fermo” a Bengasi. 

Due circostanze rendono il caso inusuale: la tempistica e le richieste per il rilascio. Il fermo è avvenuto nel giorno della quarta visita in dieci mesi del ministro degli Esteri Luigi Di Maio in Libia: il titol si è recato sia a Tripoli che a Qubba, roccaforte del presidente del parlamento di Tobruk, Aguila Saleh, ma non dal generale Haftar. In seconda istanza, da Bengasi chiedono la liberazione di calciatori libici condannati in Italia con l’infamante accusa di traffico di esseri umani. Al livello ufficiale, l’Italia non può protestare con il governo libico “ad interim” dell’est, il braccio politico di Haftar, perché non lo riconosce. Tra l’altro, la sera del 13 settembre, il primo ministro “orientale” in carica dal 2014, Abdullah al Thinni, ha presentato le sue dimissioni dopo le proteste tenute nell’est della Libia contro il suo governo per la mancanza di servizi. L’unico canale ufficiale possibile in Libia per la liberazione dei pescatori è al momento il parlamento di Tobruk presieduto da Saleh, che però è in rotta di collisione con Haftar. L’Italia ha cercato di fare di più, contattando i “padrini” internazionali di Haftar: il titolare della Farnesina ha discusso della questione con i colleghi Emirati Arabi Uniti e Russia, rispettivamente Abdullah bin Zayed al Nahyan e Sergej Lavrov. 
Il ministro Di Maio, intervenendo a “Porta a porta”, ha detto ieri che l’Italia sta lavorando alla liberazione dei pescatori italiani fermati a Bengasi senza “accettare ricatti” e mantenendo al tempo stesso un “basso profilo”, perché “aumentare la tensione con le parole indebolisce qualsiasi dialogo con la parte libica”. “Stiamo sentendo diversi paesi e attori internazionali che hanno in influenza su quelle parti”, ha detto Di Maio. “Non accettiamo ricatti”, ha detto ancora il titolare della Farnesina. “Lavoriamo senza dare tempistiche per riuscire a riportarli a casa (i pescatori, ndr) il prima possibile”, ha aggiunto Di Maio. Fuori dal salotto mediatico di Vespa, il titolare della Farnesina ha annunciato che “sarà convocato presto un vertice di governo su questo tema”, senza però dire quando.  A dare manforte al ministro degli Esteri c’è il collega della Giustizia, Alfonso Bonafede, originario di Mazara: “Di Maio si sta occupando personalmente della questione e confido nella veloce soluzione del caso ma per me è importante far sentire la mia vicinanza ai pescatori, miei concittadini”.

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Il j’accuse di Leoluca Orlando

“La Libia è uno Stato dove gli Stati europei finanziano bande di criminali che contribuiscono a far sì che la Libia non sia mai uno Stato. Erdogan liquida impunemente gli italiani e si prende il porto di Misurata”, afferma il sindaco di Palermo. Ed ancora: “”Con i soldi europei noi abbiamo distrutto uno Stato con la conseguenza che i pescatori vengono tenuti bene perché forse deve essere ancora riscosso il pagamento mentre i migranti sono tenuti in un lager a cielo aperto”, rincara la dose il sindaco di Palermo.

Caos totale

“In Libia  – annota Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi&Difesa – saltano le leadership politiche alla testa delle due fazioni che si sono combattute in questi anni. Da alcune settimane si registrano disordini e manifestazioni popolari nella Tripolitania governata da Fayea al Sarraj come nella Cirenaica del premier Abdullah al-Thinni e del generale Khalifa Haftar con motivazioni comuni: le proteste sono state infatti generate dal malcontento per crisi economica, carenza di servizi e corruzione. Lecito però ritenere che dietro tali manifestazioni si celi la volontà degli sponsor esterni delle due fazioni libiche di pilotare la situazione politica nelle due aree in cui è diviso il paese per porre ai vertici del potere uomini graditi alle potenze di riferimento: a Tripoli all’asse Turchia-Qatar e a Tobruk all’alleanza Emirati Arabi Uniti -Egitto-Russia. Ingerenze esterne che sono ornai ‘istituzionalizzate’ dopo gli sviluppi militari dell’estate che hanno visto Tripoli liberarsi dall’assedio delle truppe del generale Khalifa i Haftar grazie alle armi e ai combattenti inviati da Ankara e sostenuti dai fondi di Doha mentre il generale della Cirenaica si è consolidato sulla linea del fronte che da Sirte corre nel deserto fino all’oasi e base aerea di al-Jufra grazie alle armi del Cairo e di Abu Dhabi, ai Mig e ai contractors di Mosca”.“A questi sviluppi politici e strategici appare totalmente estranea l’Italia, – rimarca ancora Gaiani – ormai ridotta al ruolo di gregario passivo della Turchia in Libia e nel Mediterraneo Orientale”.

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Le “due Libie”

“Dopo mesi di scontri armati, e un caos amministrativo e politico risalente al rovesciamento di Muammar Gheddafi nel 2011, la Libia è sostanzialmente divisa in due: il Gna con sede a Tripoli, riconosciuto dalla comunità internazionale e sostenuto militarmente dalla Turchia, controlla la Tripolitania mentre la Cirenaica è nelle mani dell’Esercito nazionale libico (Lna) del generale Khalifa Haftar, sostenuto da Emirati Arabi Uniti, Egitto e Russia – sottolinea un documentato dossiere dell’Ispi –  La linea del fronte che sancisce di fatto le due zone di influenza va dal golfo di Sirte fino alla base aerea di Al JufraNon è un caso che la ‘linea rossa’ passi dalla città natale di Gheddafi: da un punto di vista geografico, Sirte si trova a metà strada tra Tripoli e Bengasi ed è una località altamente strategica. Poco più ad est, si trovano infatti i giacimenti del crescente petrolifero di Ras Lanuf e Brega. Avere in mano la città significa quindi possedere le chiavi della porta di accesso ai principali giacimenti e terminali di esportazione della Libia. 

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Scontro nel Gna?

“Nei mesi scorsi – annota il dossiere Ispi –  il generale Haftar, le cui milizie controllano i giacimenti, aveva bloccato l’estrazione di greggio portando la cittadinanza all’esasperazione e spingendo migliaia libici in piazza. La mancanza di stabilità, i continui blackout, l’aumento indiscriminato dei prezzi di beni e carburanti avevano infatti portato gli abitanti di diverse città a protestare. A Tripoli, dove la presenza di milizie è capillare, le manifestazioni erano state represse con la violenza. Pochi giorni dopo, il premier ha sospeso dal suo incarico Fathi Bashaga,  potente ministro degli Interni e lo ha messo sotto inchiesta con l’accusa di non aver gestito adeguatamente le proteste anti-governative e anzi, secondo alcuni rumors, di averle incoraggiate. Una vera e propria resa dei conti, quella in corso tra il premier e il ministro – divenuto negli ultimi mesi l’interlocutore di Ankara a Tripoli – che pochi giorni dopo era stato reintegrato al suo posto. Uno scenario complesso in cui figura anche Ahmed Maiteeg, vicepresidente del Consiglio Presidenziale e vice di Sarraj, potenziale ‘successore’ per inaugurare un nuovo corso politico”.

Le incognite sono tante, la certezza una: il dopo-Sarraj è già iniziato. “Lui – dice a Globalist una fonte bene informata a Tripoli – sta trattando una onorevole via di uscita, come potrebbe essere la sua nomina ad ambasciatore alle Nazioni Unite”.  A dargli il ben servito è l’uomo che ha permesso a Sarraj di restare in sella, e in vita: Recep Tayyp Erdogan. L’annuncio del premier del governo libico j di volersi dimettersi entro il mese prossimo “ci è dispiaciuto”, è il lapidario commento del presidente turco   parlando con i giornalisti all’uscita della preghiera islamica del venerdì in una moschea a Istanbul. “Prima o poi, il golpista Haftar uscirà perdente da questa vicenda”, ha aggiunto il Sultano di Ankara, che è stato negli ultimi mesi tra i principali sostenitori di Sarraj, con cui ha firmato anche uno strategico memorandum d’intesa sulla cooperazione e la sicurezza. Ora, però, Sarraj non serve più al suo padrino turco. E neanche agli altri attori esterni che stanno giocando la partita libica: Russia, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Francia e, sia pur in modi più defilati, gli Stati Uniti.

Dall’elenco manca l’Italia. Non è una svista. E’ che davvero contiamo poco o niente. E la vicenda dei pescatori sequestrati ne è l’ennesima riprova.

 

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