Di Maio ad Ankara in ginocchio da Erdogan: la diplomazia del cappello in mano
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Di Maio ad Ankara in ginocchio da Erdogan: la diplomazia del cappello in mano

Dal ministro parole imbarazzanti per la banalità delle esternazioni nei confronti di un regime islamo-nazionalista che, tra l'altro, sta facendo la pulizia etnica nel Nord della Siria contro i curdi siriani

Di Maio
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

20 Giugno 2020 - 15.05


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“Giggino” alla corte del Sultano. Una nuova puntata di quella diplomazia del cappello in mano che caratterizza l’azione del Governo Conte&Di Maio sullo scacchiere internazionale. Ieri, il nostro ministro degli Esteri ha svolto una missione, toccata e fuga, ad Ankara, dove ha incontrato il suo omologo turco Mevlut Cavusoglu. Ho letto e riletto le dichiarazioni di Luigi Di Maio in conferenza stampa. Da italiano, mi sono vergognato. Per la banalità delle esternazioni, un compitino preparatogli dagli sherpa, e per un mortificante “baciapilismo” nei confronti di un regime islamo-nazionalista che sta portando avanti, con la complicità silente della comunità internazionale, la pulizia etnica nel Nord della Siria sterminando i curdi siriani. Un regime che, nella sua determinazione neo-ottomana, sta ora allungando le mani sulla Libia, sostenendo militarmente, con droni, artiglieria pesante, consiglieri sul campo e migliaia di mercenari tagliagole che Recep Tayyp Erdogan, il presidente-sultano turco, ha utilizzato nel lavoro più sporco nel Rojava – stupri, saccheggi, fosse comuni – per poi  replicare in Libia.

In ginocchio da te

Naturalmente di tutto questo, e dello sfregio dei diritti umani perpetrato da un regime che ha riempito le carceri di decine di migliaia di oppositori, tra cui giornalisti indipendenti e parlamentari prima revocati e poi imprigionati, Di Maio non ha fatto cenno. Così come era avvenuto con il presidente-gendarme egiziano Abdel Fattah al-Sisi.

“In Libia puntiamo a una soluzione sostenibile e durevole, che risolva il conflitto”, ribadisce Di Maio, rimarcando il sostegno al processo di pace dell’Onu come ribadito dal processo di Berlino. Un processo che non ha mai preso corpo. Il titolare della Farnesina ha anche sottolineato come sia necessario a questo fine un nuovo inviato delle Nazioni Unite sulla Libia. E ha parlato “dell’importanza del dialogo fra Ue e Turchia”. Di Maio si è anche espresso contro “e inaccettabili pratiche delle trappole esplosive”, ricordando come l’Italia abbia garantito sostegno agli sforzi di sminamento. E fin qui siamo alla fiera dell’ovvio, allo stanco ripetere di considerazioni che non affrontano mai di petto la realtà

Ma il “baciapilismo” tocca i suoi vertici quando il ministro degli Esteri, quello delle “Ong, tassisti del mare”, ha affermato, senza arrossire di vergogna, che sulla questione delle migrazioni “sosteniamo e apprezziamo gli sforzi turchi”, ricordando, come fosse un vanto, che l’Italia sostiene l’implementazione dell’accordo stretto in materia fra Turchia e Unione Europea nel 2016.

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Avete letto bene: l’implementazione! Nel 2016, su spinta tedesca, l’Ue ha pagato 3 miliardi di euro più altri tre alla Turchia, perché diventasse il Gendarme delle frontiere esterne. Come sino trattati i milioni di sfollati, soprattutto siriani, nei campi di accoglienza turchi, questo a Di Maio e ai suoi pari d’Europa, non interessa punto. Ed ora, per premiare Erdogan, Di Maio pensa bene di implementare questo sostegno.

Un capitolo a parte merita la partita energetica. La Turchia è pronta a “collaborare con l’Italia sulle questioni energetiche”, dice  Cavusoglu nel corso della  conferenza stampa congiunta con l’omologo italiano “Riguardo all’energia e ad attività relative vogliamo lavorare seriamente con l’Italia nel Mediterraneo orientale. Abbiamo la Turkish Petroleum e l’italiana Eni e altre aziende. Ci sarà anche collaborazione tra i nostri ministeri dell’Energia”, ha aggiunto Cavusoglu. “Le ricchezze del Mediterrano orientale devono essere condivise da tutti i Paesi della regione”, ha proseguito, affermando che Ankara “respinge le azioni unilaterali che tengono la Turchia fuori da questo processo”.

Il messaggio che conta è in questo ultimo passaggio: se l’Italia vuole rientrare in gioco in Libia, deve smetterla di sostenere le richieste greche e le critiche di Bruxelles. Prendere o lasciare.

La Libia, per l’appunto. “Nei prossimi giorni avrò interlocuzioni con il governo ma anche con altri parti libiche per cercare di trasmettere tutta l’apprensione non solo dell’Italia, non solo dell’Europa, ma di tutta la comunità internazionale”, annuncia Di Maio, indossando gli abiti del “trasmettitore di apprensione”.

Spartizione a due

Per non sparare sulla Croce rossa della Farnesina, va anche detto che Di Maio deve fare i conti con qualcosa troppo più grande di luie del Governo che rappresenta all’estro: opporsi alla  “Grande spartizione” della Libia tra il Sultano e lo Zar. Russi e turchi sono pronti a spartirsi la Libia e a esercitare la loro crescente influenza nel Mediterraneo Occidentale. E’ questo che dicono le manovre aeronavali turche a largo delle coste libiche e lo schieramento dei jet russi nella base di Jufra che, secondo alcuni, hanno parzialmente sostituito i mercenari della Wagner. Ankara vuole insediarsi in Tripolitania, Mosca punta a farlo in Cirenaica. A questo sta portando la rottura dell’assedio su Tripoli da parte del Generale Khalifa Haftar e i successi dell’esercito guidato dal Gna. Successi ottenuti grazie al fondamentale sostegno turco contro il generale ribelle finanziato da Arabia Saudita ed Egitto, e armato da Emirati Arabi Uniti e Mosca.

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Ma dopo mesi di una campagna militare impantanata, la Russia ha ritirato il suo supporto decidendo di negoziare con Ankara i futuri assetti del paese e le relative zone di influenza. Tutto è dunque deciso? Non ancora, si legge in una documentata analisi dell’Ispi, perché ci sono temi su cui i due paesi, entrambi impegnati in Libia, si trovano su sponde decisamente opposte: la Russia vuole fermare l’avanzata delle forze di Tripoli prima che raggiungano Sirte e, soprattutto, vuole garantirsi un avamposto militare in Cirenaica. Ankara frena, e dalla sua posizione di forza cerca di assicurarsi la base di Al Watyah e il porto di Misurata, rispettivamente a ovest e a est di Tripoli. Dagli equilibri che si raggiungeranno dipende l’assetto della Libia di domani che, ancora una volta, non si deciderà né a Tripoli né a Bengasi, prosegue il documento. L’assedio di Sirte e le divergenze tra russi e turchi costituirebbero lo scoglio su cui è naufragato il vertice a livello di ministri degli Esteri e della Difesa, svoltosi domenica scorsa a Istanbul. Tra i punti di rottura, non ci sarebbe invece il ruolo per Khalifa Haftar, che Ankara vuole escludere e che anche Mosca sembra ormai voler accantonare a favore di un rappresentante più ‘presentabile’ e gestibile.   Altre divergenze riguarderebbero la recente ”iniziativa del Cairo” promossa dal presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, che continua a sostenere militarmente Khalifa Haftar per difendere i suoi interessi sul confine occidentale. Ma la proposta egiziana che prevede la costituzione di un nuovo Consiglio presidenziale, estrometterebbe di fatto i turchi da ogni attività politica. La Russia ha salutato il passo con favore mentre Ankara ha detto di sostenere qualsiasi iniziativa per la pace, ”ma dipende da chi la fa e perché”.

Davanti a tanti sviluppi l’Unione Europea appare in ritardo, con Roma e Parigi ancorate su posizioni e interessi opposti, e Bruxelles che non riesce a far rispettare l’embargo sulle armi con la nuova missione Irini. Presto o tardi però, toccherà fare i conti con Erdogan su energia, sicurezza e immigrazione. Sul piano militare, inoltre, Parigi, che ha sempre velatamente sostenuto Haftar, è la capitale europea più vocale nel suo dissenso, ma tutti chi più chi meno si chiedono se la creazione di basi russe nel Sahara aprirà un fronte africano della nuova Guerra Fredda con la Nato. Al momento, pochi sono i dubbi sul fatto che l’unico vincitore della guerra civile in Libia è Erdogan, anche grazie al sostegno finanziario del Qatar. Se i turchi invocano legami ottomani con Tripoli per giustificare il loro profondo coinvolgimento nel conflitto, il principale dividendo per Ankara è stato finora il contestato accordo con il governo di al-Sarraj sui diritti di esplorare e trivellare petrolio nel Mediterraneo orientale.  Una pesante eredità della guerra di Libia che promette di complicare ulteriormente i rapporti tra la Turchia e i paesi europei. L’ultimo in ordine di tempo a invocare un intervento statunitense in Libia è stato il presidente francese Emmanuel Macron, che ha definito ”inaccettabile” il comportamento della Turchia, le cui navi incrociano nel sud del Mediterraneo. Prima di lui, il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov aveva detto di auspicare che Washington sfrutti la sua influenza per contribuire al raggiungimento di una tregua. E nei giorni precedenti Recep Tayyep Erdogan aveva detto di aver avuto un colloquio telefonico con Donald Trump sulla Libia e di essersi trovati d’accordo ”su diversi punti”. Ufficialmente gli Stati Uniti sostengono Tripoli ma Trump ha inviato segnali contrastanti mantenendo aperti i canali con Haftar, che per anni è stato preziosa risorsa della Cia contro Gheddafi. L’attuale amministrazione americana, tuttavia, è sembrata sorda finora ai richiami di chi l’ha invitata a guardare verso la battaglia per il potere che si combatte lungo le coste nordafricane. Eppure nello scenario peggiore, quello di una spartizione del paese in aree di influenza, un condominio russo turco in Libia costituirebbe niente di meno che una minaccia sul fianco meridionale della Nato, conclude l’analisi dell’Ispi.

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Così stanno le cose. E l’Italia, dopo aver collezionato una caterva di errori sul fronte libico, primo fra tutti partecipare alla sciagurata guerra del 2011, si ritrova ora a chiedere un posto in seconda fila al tavolo dei vincitori. Forse, il magnanimo Sultano ce lo concederà. Ma sarà lui, Erdogan, a dettare le condizioni.

 

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