Libia, l'incubo del Coronavirus nei lager dei migranti
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Libia, l'incubo del Coronavirus nei lager dei migranti

Il presidente del Consiglio presidenziale libico, Fayez al-Sarrraj, ha dichiarato lo stato di emergenza in Libia e ha annunciato la chiusura dei porti e degli aeroporti del Paese

Migranti in Libia
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15 Marzo 2020 - 17.04


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Libia, allarme rosso nei lager dove sono confinati  migliaia di migranti: il coronavirus potrebbe determinare una carneficina sanitaria in questo girone dell’inferno. Il presidente del Consiglio presidenziale libico, Fayez al-Sarrraj, ha dichiarato lo stato di emergenza in Libia e ha annunciato la chiusura dei porti e degli aeroporti del Paese a partire da lunedì per l’emergenza coronavirus. Lo riferisce il Libya Observer su Twitter.  Oltre ai confini, resteranno chiusi per due settimane le scuole, i bar e le sale per le feste.

Allarme rosso

L’allarme scatta anche a Bengasi. I ministeri dell’Interno e della Salute del governo ad interim libico non riconosciuto dalla comunità internazionale hanno attuato una serie di misure precauzionali restrittive nei porti e aeroporti del Paese che controlla per evitare che nel paese si registrino casi di contagio dal nuovo coronavirus. Lo ha annunciato il portavoce del ministero dell’Interno del governo ad interim che da qualche settimana ha trasferito il proprio quartier generale a Bengasi, Tariq al Kharraz. Mercoledì scorso, 11 marzo, un funzionario del Centro medico di Bengasi, nell’est della Libia, Ahmed Abdel Hamid, ha lanciato l’allarme:. se il coronavirus dovesse arrivare in Libia, sarà “un disastro in ogni caso”,

“E’ evidente che la presenza di covid-19 in Italia e in Europa non fermerà le partenze” allerta il sito di informazioni internazionali Ofcs.report . Anzi, vale il discorso inverso. Il “rischio di rimanere infettati in Libia è motivo di ansia viste le strutture sanitarie carenti che non raggiungono gli standard italiani e europei. E forse i migranti, oltre che dalla guerra, fuggono anche dal rischio di rimanere contagiati ed essere costretti a curarsi in loco”. Rimarcano fonti locali del sito. La paura c’è, e tanta. Infatti anche in Libia, il pericolo del contagio e della diffusione del virus è diventato un allarme. Sarebbero due i casi di persone contagiate dal coronavirus. Ma secondo alcune fonti, le persone infette sarebbero molte di più, anche tra i migranti

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Una catastrofe sanitaria  che può avere nei centri di detenzioni sparsi nel Paese il suo epicentro. La situazione è sempre più allarmante. Nei giorni scorsi uomo eritreo di 26 anni è morto in un incendio divampato nel centro di detenzione di Dhar el Jebel, a sud di Tripoli, nella notte tra sabato 29 febbraio e domenica 1° marzo. L’uomo è stato avvolto dalle fiamme mentre dormiva in una delle celle sovraffollate del centro, dove oltre 500 rifugiati e migranti sono detenuti arbitrariamente nella regione montuosa del Gebel Nefusa. Lo staff di Medici senza frontiere (Msf) sta supportando i sopravvissuti offrendo assistenza psicologica e distribuendo beni di prima necessità. L’incendio ha distrutto un edificio in cui erano ammassate 50 persone e ne ha danneggiato parzialmente un secondo. “Il nostro psicologo riferisce di un livello di disperazione molto elevato. Le persone sono sotto shock, paralizzate da traumi di cui non vedono la fine. Ci dicono di sentirsi soli e indifesi, dopo mesi o addirittura anni in detenzione. La loro unica speranza è di vedere accolte le loro richieste di asilo. Devono uscire da qui”, dichiara Christine Nivet, coordinatrice di Msf nel Gebel Nefusa. Attualmente la maggior parte delle persone detenute nel centro di detenzione di Dhar el Jebel sono richiedenti asilo, eritrei e somali, già registrati dall’Unhcr. Dopo gli scontri tra milizie scoppiati nella capitale libica nell’agosto 2018, molti sono stati trasferiti dai centri di Tripoli a quelli nel Gebel Nefusa, più lontani dalla linea del fronte ma remoti e isolati, in condizioni disperate e praticamente senza assistenza. Le équipe di Msf che per prime hanno visitato il centro di Dhar el Jebel a maggio 2019 avevano riscontrato una situazione medica catastrofica. Dopo un’epidemia di tubercolosi durata mesi, almeno 22 migranti e rifugiati sono morti per questa e altre malattie, tra settembre 2018 e maggio 2019. Sono almeno 2.000 i migranti e rifugiati in Libia ancora rinchiusi nei centri di detenzione, esposti ad abusi e condizioni pericolose. Msf chiede “la fine della detenzione arbitraria di migranti e rifugiati”, di “organizzare la loro evacuazione” e allestire “con urgenza meccanismi di protezione che includano ripari per i più vulnerabili. Questo può funzionare solo se l’Europa smette di respingere le persone che fuggono via mare e se i Paesi sicuri si impegnano ad accogliere un maggior numero di sopravvissuti”.

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Il virus e la guerra

Annota Paolo Quercia, docente di Studi strategici all’Università di Perugia: “Sarà importante vedere se il conflitto libico subirà cambiamenti del suo corso in relazione al coronavirus. Si contrappongono qui due aspetti che vanno analizzati: l’elevato isolamento in termini di mobilità della popolazione – in particolare con le aree maggiormente colpite dal virus – e l’alto livello di internazionalizzazione del conflitto stesso, con i belligeranti che hanno ‘supply chains’ in termini di armamenti, finanziari e combattenti molto lunghe, che potrebbero mutare con il mutare delle condizioni sanitarie dei vari Paesi. Esse, di fatto, cambiano il livello delle priorità nell’impiego delle risorse. Non è dunque da trascurare una possibile tendenza alla riduzione delle risorse esterne che vengono impiegate nel conflitto libico e un sovrapporsi di molteplici iniziative per congelare il conflitto a risorse decrescenti.  Tra questi anche i tentativi di rinegoziare i termini di un dialogo russo-turco sul duplice scenario siriano e libico e una rinnovata iniziativa francese per cercare di far avanzare la propria agenda in un momento di possibile stallo del conflitto, appaiono essere i principali”.

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Africa a rischio

L’aumento dei casi di contagio da coronavirus nell’ultima settimana in Africa, soprattuto nell’area sub-sahariana, solleva preoccupazioni. Finora 135 casi di contagio sono stati confermati in 12 Paesi africani, di cui otto nella regione sub-sahariana. Come riporta l’Agenzia Nova, secondo le stime aggiornate dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e della piattaforma online di monitoraggio Covid19-Africa, il numero più alto di casi è stato registrato in Egitto (60), seguito da Algeria (20), Sudafrica (17), Tunisia (sette), Marocco(sei), Senegal  (cinque), CamerunBurkina FasoNigeria (due ciascuno), TogoRepubblica democratica del Congo e Costa d’Avorio (uno ciascuno), per un totale di 135 casi positivi, tre decessi (in Egitto, Marocco e Algeria) e 45 guariti.

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