La crisi in Iraq e le minacce reciproche tra Trump e Khamenei
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La crisi in Iraq e le minacce reciproche tra Trump e Khamenei

Dopo le proteste contro l'ambasciata Usa a Baghdad i falci sono pronti ad alzare i toni e Washington e Teheran si scambiano accuse

Proteste davanti all'ambasciata Usa a Baghdad
Proteste davanti all'ambasciata Usa a Baghdad
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

1 Gennaio 2020 - 15.53


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Baghdad, l’assalto continua. E il Medio Oriente che si affaccia al 2020 torna ad essere una polveriera pronta ad esplodere. Il presidente Usa, Donald Trump, ha minacciato di far pagare all’Iran un «caro prezzo» dopo l’attacco alla rappresentanza diplomatica che nella memoria degli Stati Uniti evoca la crisi di 40 anni fa in cui 52 dipendenti dell’ambasciata a Teheran furono tenuti in ostaggio per un mese e mezzo durante la rivoluzione khomeinista.

“L’Iran sarà ritenuto pienamente responsabile delle vite perse o dei danni alle nostre strutture. Pagheranno un caro prezzo!”, ha avvertito il capo della Casa Bianca in un tweet. “Questo non è un avvertimento, è una minaccia” ha aggiunto.
La paura di The Donald
Tuttavia, ha affermato di non aspettarsi una guerra tra gli Stati Uniti e l’Iran. “Non vedo che ciò accadrà” ha detto Trump a un giornalista che gli aveva posto questa domanda.Nel frattempo, il segretario alla Difesa, Mark Esper, ha annunciato che circa altri 750 soldati americani verranno schierati «immediatamente» in Medio Oriente “in risposta ai recenti eventi in Iraq”. E il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha dichiarato che l’attacco all’ambasciata americana è opera di “terroristi”. “È stato orchestrato dai terroristi – Abu Mahdi al-Muhandis e Qais al-Khazali – e sostenuto dagli alleati iraniani, Hadi al-Amari e Faleh al-Fayyad”, ha twittato Pompeo.
“Sono stati tutti fotografati davanti alla nostra ambasciata”, ha scritto, allegando tre immagini. Il segretario di Stato statunitense ha parlato al telefono sia con Mahdi sia con il presidente Barham Salih, dichiarando: “Gli Usa difenderanno i loro concittadini”.
Muhandis è un alto funzionario delle Forze di mobilitazione Popolare (Hashd al-Shaabi), una coalizione di paramilitari iracheni dominata da fazioni filo-iraniane accusata da Washington di un attacco missilistico che ha ucciso un americano in Iraq venerdì scorso. Fayad è il capo dell’Hashd al-Shaabi. Khazali è il capo dell’altra milizia sciita irachena Assaib Ahl al-Haq, accusata dagli Usa di essere responsabile di numerosi attacchi missilistici contro i loro interessi in Iraq. Amari è stato il ministro dei Trasporti iracheno tra il 2010 e il 2014 ed è a capo della potentissima organizzazione Badr, un’altra fazione filo-iraniana in Iraq. Tra i molti esponenti di spicco delle milizie, c’era Qais al.Khazali, capo della filoiraniana Asaib al-Haq, tra i leader sciiti più temuti e rispettati.
“Gli americani non sono i benvenuti in Iraq – ha detto Khazali all’agenzia Reuters – Sono una fonte di male e vogliamo che se ne vadano”.
Nel panorama dei gruppi vicini a Teheran Kataib Hezbollah è uno dei più piccoli ma anche dei più potenti. Davanti all’ambasciata americana c’era anche il suo capo, Jamal Jaafar Ibrahimi, noto anche come Abu Mahdi a-Mohandes. E c’era Hadi al-Amiri, leader dell’Organizzazione Badr. Gli incidenti all’ambasciata statunitense rischiano di essere i primi di una lunga serie. Una delle milizie filoiraniane, Al Hashd, ha infatti minacciato di assediare altre rappresentanze diplomatiche per ottenere che le forze straniere lascino l’Iraq.
La risposta della Guida Suprema
La Guida suprema dell’Iran, Ali Khamenei, risponde su Twitter alle accuse del presidente americano, Donald Trump, sul coinvolgimento iraniano nell’assedio all’ambasciata Usa a Baghdad. “Se la Repubblica islamica decide di combattere, lo farà in modo inequivocabile. Non cerchiamo le guerre, ma difendiamo con forza gli interessi, la dignità e la gloria della nazione iraniana. Se qualcuno li minaccia, ci confronteremo senza esitazione e lo colpiremo”. E ancora: “Quel tipo ha twittato che ritiene l’Iran responsabile degli eventi di Baghdad e che risponderà all’Iran. 1 – Non puoi fare nulla. 2 – Se tu fossi logico – cosa che non sei – ti renderesti conto che i tuoi crimini in Iraq, Afghanistan … ti hanno fatto odiare da tutte le nazioni”. Khamenei ha poi aggiunto che “l’odio verso gli Stati Uniti deriva dal comportamento umiliante dei funzionari americani come la loro visita in alcuni Paesi della regione e l’ispezione nelle basi militari senza il permesso dei Paesi”. Per poi affidare a Twitter l’ultimo affondo: “Se noi decidiamo di combattere con un Paese, lo faremo esplicitamente. Se qualcuno minaccia l’onore e lo sviluppo dell’Iran, lo affronteremo e sferreremo un colpo contro di lui senza altre considerazioni”.
Arrivano i Marine
Un elicottero che trasportava Marine statunitensi è poi atterrato sul posto, secondo una fonte della sicurezza, realizzando così l’annuncio di rinforzi dato dal ministro alla Difesa Mike Esper. Gli Usa hanno anche sottolineato di non avere “alcun piano di evacuare l’ambasciata”, mentre l’ambasciatore Matt Tueller si apprestava a rientrare nella sede diplomatica. Da mesi Baghdad chiede a Usa e Iran i non trasformare il Paese in un campo di battaglia. Negli ultimi giorni, tuttavia, la tensione è salita. Le proteste hanno preso il via dopo i raid contro le Brigate Hezbollah, gruppo sciita membro di Hachd al-Chaabi, coalizione paramilitare irachena dominata da fazioni pro-Iran e integrate alle forze regolari. I dimostranti sono riusciti a entrare nella Green Zone senza esser fermati dalle forze irachene e hanno attaccato l’ambasciata, distruggendo le telecamere di sorveglianza, sfondando le porte di un posto di controllo e appiccando alcuni incendi. Dall’interno, le forze Usa hanno sparato lacrimogeni e granate stordenti, dopo aver sparato in aria, per disperderli. I feriti tra i manifestanti sono stati 62, secondo Hachd. Le forze irachene si sono dispiegate nell’area e molti manifestanti si sono allontanati nel corso delle ore, ma alcune centinaia sono rimaste davanti al compound promettendo di passarvi la notte.
Riconquista della piazza
Le fazioni armate e politiche pro-Iran conducono una campagna contro l’accordo di collaborazione Usa-Iraq, che prevede la presenza di 5.200 soldati statunitensi in Iraq. Gli americani, che invasero il Paese nel 2003 e rovesciarono Saddam Hussein, si sono ritirati nel 2011, ma truppe sono tornate nel 2014 nel quadro della coalizione anti-Isis. L’Hachd ha appoggiato Baghdad nella lotta al gruppo estremista islamico, ma oggi è ritenuta, secondo fonti statunitensi, una minaccia ancor più grave per gli Usa di quanto lo sia lo Stato islamico. Da parte sua, Teheran ha denunciato “la sorprendente audacia” di Washington. L’Iraq, alleato delle due capitali nemiche, è stato ancora una volta la scena della loro situazione di stallo, che ora rischia di portare a un’escalation fino allo scontro aperto. Venerdì sera, un attacco missilistico contro la base Usa K1 di Kirkuk ha ucciso un contractor americano in Iraq. Domenica sera, gli aerei americani hanno reagito bombardando le basi delle Brigate Hezbollah, una fazione filo-iraniana in Iraq accusa di essere responsabile dell’attacco, uccidendo almeno 25 combattenti e suscitando indignazione generale al massimo livello dello Stato iracheno. Martedì, il corteo funebre dei 25 morti ha portato 
all’assalto dell’ambasciata americana a Baghdad.
Ma la “ guerra dell’ambasciata “è anche il modo per le milizie in armi per provare a riconquistare una piazza che gli era sfuggita di mano. Baghdad-Beirut: le rivolte che mettono in crisi il tribalismo etnico-confessionale e riscrivono il vocabolario politico del Medio Oriente. Quella in atto, a Bagdad come a Beirut, è una rivoluzione culturale, ancor prima che sociale: è la rivoluzione dei cittadini, in gran parte giovani, che si sentono iracheni, libanesi, e non sunniti o sciiti, cristiani… Scendono in piazza sventolando bandiere nazionali, esaltando un diritto di cittadinanza che riporta al centro lo Stato-nazione, lo Stato dei cittadini, rompendo le vecchie gabbie identitarie comunitarie. I manifestanti contestano l’alto tasso di disoccupazione e la corruzione della classe politica.

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Secondo l’organizzazione non governativa Transparency Internacional, l’Iraq è il secondo produttore al mondo di petrolio, ma anche il tredicesimo più corrotto: un cittadino su cinque vive al di sotto della soglia di povertà e la disoccupazione giovanile è intorno al 25 per cento. Fonti ufficiali riferiscono che dal 2004, a un anno di distanza dall’invasione statunitense che ha determinato la cacciata di Saddam Hussein, circa 450 miliardi di fondi pubblici sono svaniti nelle tasche di politici e uomini di affari. In questa situazione, corruzione e politica appaiono intrinsecamente connessi, secondo quanto riporta il quotidiano The New Arab.Non solo i ministri sono spesso implicati nelle frodi, ma il settore pubblico è sovradimensionato e facile da truffare e si contraddistingue per i con migliaia di impiegati “fantasma” che percepiscono stipendi, senza lavorare in realtà. Secondo i dati parlamentari, dal 2003 questo costo è costato all’Iraq 228 miliardi di dollari, anche se questo numero potrebbe essere significativamente più alto.

Le diverse fazioni che si contendono il potere, l’influenza e l’accesso ai fondi del tesoro hanno come primo interesse quello di continuare a finanziare le proprie reti. La corruzione è all’origine delle gravi difficoltà economiche e dell’aumento della povertà e della disoccupazione. È il principale motivo per cui mancano i servizi di base. Il fabbisogno energetico dell’Iraq non è coperto neanche per metà nonostante dal 2003 a oggi siano stati spesi quaranta miliardi di dollari per la rete elettrica. Il parlamento è estremamente corrotto. Su 328 parlamentari iracheni, 273 non hanno voluto svelare la loro situazione finanziaria al Comitato per l’integrità.

Le sfide sono tante come testimoniano i numeri: la disoccupazione è al 22 per cento e riguarda in particolare i giovani, 1,7 milioni di sfollati interni, tre milioni di disabili, 1,5 milioni di orfani, più di un milione di donne divorziate. “Vogliamo vivere. Non è questione di soldi, ma di vivere. Lasciateci vivere”, afferma la 21enne Batoul ad al Jazeera. Sono le voci della piazza irachena. I giovani di Piazza Tahir, il cuore della protesta a Baghdad, chiedono una nuova carta costituzionale, un tribunale per processare i corrotti e riforme reali di redistribuzione della ricchezza. Chiedono un cambio di sistema, i giovani protagonisti della “primavera irachena”, come fanno i loro coetanei libanesi. La risposta è nella militarizzazione delle piazze. E nel ritorno al passato: con assedi all’ambasciata, bandiere a stelle e strisce date alle fiamme. Khamenei e Trump: due falchi che hanno bisogno l’uno dell’altro per mantenere in vita la retorica nazionalista, quella dell’”America first” o del “Grande Iran”. La retorica in armi.

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