Il Bangladesh nella trappola del fondamentalismo
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Il Bangladesh nella trappola del fondamentalismo

La preoccupata analisi di un missionario alla vigilia delle elezioni: si sono intensificati scontri e tensioni che spesso hanno come comune denominatore un uso strumentale della religione.

Elezioni in Bangladesh
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2 Luglio 2016 - 12.36


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di Gheddo Piero

Un Paese musulmano tutto sommato pacifico, avviato (non irrimediabilmente, si spera) sulla china del fondamentalismo. È questa l’immagine che il Bangladesh sembra dare di sé in quest’ultimo periodo. Come è potuto accadere? E come si muove la Chiesa in un contesto del genere? Sono domande che abbiamo girato a un missionario italiano, da una ventina di anni nel Paese, che proprio per l’aggravarsi della situazione, in queste settimane, abbiamo deciso di mantenere anonimo.

L’islam bangladese è sempre stato tollerante: adesso cosa sta succedendo?
La rinascita e l’aggressività dell’islam sono incominciate nel 1978-1979 con la conquista sovietica dell’Afghanistan e la vittoria di Khomeini in Iran. In risposta all’attacco russo a un Paese islamico, Khomeini ha lanciato la jihad e il «martirio per l’islam» (terrorismo) contro gli occidentali. Prima di allora, in Bangladesh, non c’era anti-occidentalismo, mentre all’inizio degli anni Ottanta, con il sostegno economico dei Paesi del petrolio (Arabia Saudita, Kuwait, Iran, Libia e Iraq), sono nate le madrasse, scuole coraniche estremiste, che hanno suscitato un diffuso nazionalismo islamico nel popolo. (M.M., maggio 2006, pp. 48-51)

> Come hanno fatto queste madrasse a nascere già con una connotazione anti-occidentale?
Un certo nazionalismo islamico esisteva già, ma era abbastanza tollerante, come del resto lo è il carattere dei bangladesi. I primi predicatori che venivano da fuori educavano all’odio anti-occidentale; poi anche molti dei locali sono andati avanti su quella linea, sempre finanziati dall’estero. Vent’anni fa, nel 1986, le madrasse in Bangladesh erano circa seimila, oggi c’è chi dice siano 80 mila, nascono come funghi. Anche le moschee si sono moltiplicate e mentre prima erano di lamiera, oggi sono in muratura: le abbiamo viste crescere di anno in anno in modo abnorme, anche nei paesini più piccoli. I Paesi del petrolio hanno investito molto nell’educazione dei giovani e nel creare una reazione anti-occidentale, ottenendo risultati nei mass media popolari, nella cultura del Paese e, infine, nella politica. All’interno del popolo musulmano, c’è chi ha cominciato a pensare: siamo ricchi anche noi, questa è la via per affermarci e per umiliare l’Occidente. Non pochi musulmani vedono che la guerra santa e il terrorismo ottengono successi e questo li riempie di orgoglio, perché ritengono di aver finalmente trovato il modo di prevalere sugli occidentali. Questo è quasi incredibile in un Paese come il Bangladesh, estremamente povero, senza terra né risorse naturali, che vive sugli aiuti dai Paesi occidentali e sulle rimesse in denaro di milioni di bangladesi che lavorano in Occidente e in America. Circa metà del bilancio statale del Bangladesh è finanziato da organismi dell’Onu, in gran parte sostenuti da Paesi occidentali.

> Le madrasse sono organizzate come le scuole statali o hanno una connotazione propria?
Sono scuole parificate a quelle statali, ma in esse lo Stato non entra. In genere nelle madrasse, come nelle moschee, si educa a difendersi dall’Occidente, ritornando al Corano. Le famiglie vengono stimolate a mandare i loro figli alle scuole coraniche, le donne a portare il burqa. Si è visto anche in questo il cambiamento della società: dalla fine delle elementari (verso i 12 anni), le ragazzine vanno in giro coperte fino agli occhi, obbligate dalla famiglia. Prima erano pochissime, adesso sono molto numerose, perché quello è un segno di appartenenza all’islam puro. La forza economica delle madrasse e delle moschee è notevole; di qui la lotta contro le ong occidentali, un tempo molto presenti in Bangladesh, oggi viste spesso come espressione della cultura occidentale che rovina l’islam.

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Pure i missionari sono demonizzati?
No. Il bangladese non è mai stato estremista, i nostri missionari più anziani ricordano che quando sono venuti qui negli anni Cinquanta erano benvoluti, ammirati e ringraziati. Anche oggi sanno che siamo uomini e donne consacrati a Dio, qui da molto tempo per fare del bene. Noi ci muoviamo più sul piano religioso, le ong sono più nel sociale e questo dà fastidio perché cambia la società e la cultura islamica. Per questa ragione oggi anche i musulmani promuovono  le loro ong e programmi sociali. Sono arrivate tante organizzazioni assistenziali dal Kuwait e da altri Paesi islamici, che diffondono l’islam mentre gestiscono programmi sociali. Aumentano i prestiti agevolati per i poveri, dispensari e ospedaletti islamici. Naturalmente questo ha anche un risvolto politico, nel senso che favoriscono i partiti islamici.

Nelle madrasse più estremiste vengono anche insegnanti dall’estero?
In alcune sì, ad esempio nell’università di Raishahi e in altre. Ma in  genere sono bangladesi, anche fra quelli che sono stati mandati all’estero ed educati fra i guerriglieri dell’islam. Ormai questa educazione nelle nuove madrasse ha creato una mentalità profonda tra il popolo, seminando un certo vittimismo e il sentimento che l’islam e la cultura islamica siano in pericolo e ci si debba difendere. La stampa diffonde questa mentalità: lo si è visto nel caso del discorso di Benedetto XVI a Ratisbona e, prima, per le vignette danesi.

Nel suo intervento il Papa voleva dimostrare che fede e ragione vanno d’accordo. La famosa citazione tanto contestata era un esempio negativo per dimostrare che i fedeli non possono usare la violenza o la guerra per imporre la fede e quindi che la guerra in nome di Dio è contro Dio e contro la ragione.
Ma ai musulmani che hanno scatenato la campagna non interessava quanto diceva il Papa, volevano solo poter gridare che il Papa è contro l’islam. Se Benedetto XVI avesse chiesto a me se doveva citare quell’esempio, gli avrei detto: «Per carità lo tolga!». Perchè a centinaia di milioni di islamici verrà citato solo questo esempio. Chi dirige queste campagne anti-occidentali cerca solo il pretesto per infiammare il mondo islamico.

Esiste forse una regia esplicita contro l’Occidente?
Non lo so, mi limito a parlare del Bangladesh che conosco. Vedo il clima che si è creato e a volte mi fa paura. Dove vivo io, è mi è capitato di passare in villaggi dove non mi conoscono e mi sono sentito gridare: «Bush! Bush!». Mi fermo e mi metto a parlare in bangladese. Si stupiscono e la cosa finisce lì. Il punto è che il loro «vittimismo», che si traduce in sospetto contro gli occidentali (e, di riflesso, i cristiani), diventa ogni giorno più pesante. C’è una incongruenza di fondo: sono tutti antiamericani, partecipano a manifestazioni anti-Usa. Ma se domani l’ambasciata americana chiedesse i nomi di cento lavoratori bangladesi da mandare negli States, ci sarebbero migliaia di domande!

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E voi missionari, come vi muovete?
La nostra debolezza, ma anche la nostra forza, consiste nel rimanere. Perché tutti vedono che andiamo avanti ad aiutare, che continuiamo ad essere caritatevoli con tutti… A volte vengo invitato alla festa del milat, una festa religiosa durante l’anno, in cui si propongono riflessioni su Dio e la vita dell’uomo. Mi invitano perché mi conoscono, sono del posto, e parlo sempre di Dio che è l’unico per tutti; dico che Dio è Amore e vuole che ci vogliamo bene, cose di questo genere. Loro ascoltano, ma poi i discorsi scivolano spesso nel moralismo oppure nell’aggressione all’Occidente, vista come una civiltà atea e contro Dio. Non è facile trasmettere il messaggio di Dio che è Amore.

Voi vivete in un Paese islamico: dal vostro punto di vista, che cosa può fare l’Occidente per rispondere a questa sfida dell’islam?
L’Occidente deve capire che la sfida non è politica, militare o economica, ma spirituale, religiosa. Dobbiamo puntare ad essere davvero cristiani. Il che significa purificare la nostra cultura, la nostra vita, presentare un cristianesimo autentico, quale loro lo vogliono vedere. Anche le persone più aperte e colte ci accusano di rovinare la loro vita religiosa con l’esempio di popoli cristiani che non pregano più, che esportano il malcostume anche attraverso la televisione, il cinema, gli esempi negativi delle nostre società. Molti chiedono al governo di oscurare i canali televisivi occidentali. In Bangladesh c’è un solo canale televisivo statale: non ho mai visto nulla di immorale. Anche qui girano videocassette pornografiche. Sta di fatto che quelle che a noi paiono esagerazioni puritane sono come una reazione al lassismo occidentale. Per contro, va detto che loro tollerano tante cose che per noi sono il massimo dell’immoralità.  Esistono gruppi paramilitari che fanno letteralmente pulizia di ladri e anche di oppositori politici. La violenza è legge comune. Eppure gli imam continuano a tempestare di condanne l’Occidente, per la sua immoralità e il suo ateismo: la mentalità comune è questa.

Qual è la radice psicologica di questo integralismo che rischia di diventare di massa?
C’è forse una forma di invidia nei confronti dei cristiani. Vedono che la nostra Chiesa è troppo diversa da loro, vedono che noi cristiani sappiamo perdonare, sappiamo aiutare gli altri gratuitamente. Ci ammirano e ci invidiano allo stesso tempo, ma per reazione sono guidati verso l’integralismo islamico, che ormai imita la missione cristiana. Ad esempio, prima nessuno curava gli handicappati, adesso fanno istituti per aiutarli.

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Hai parlato di perdono. Suor Leonella Sgorbati, uccisa in Somalia, morendo ha ripetuto: «Perdono, perdono, perdono…».
I miei musulmani rimangono impressionati da questo, ma non lo capiscono. Ti stimano quando parli di pace, di giustizia e di amore; ti ammirano e ti ascoltano volentieri, ma la loro mentalità è profondamente diversa dalla nostra. Per questo dobbiamo riproporre Gesù Cristo, la vita cristiana, il gusto di testimoniare Cristo. Noi diamo testimonianza di amore e di aiuto ai poveri, ma a volte non parliamo più di Cristo e ci riduciamo all’azione sociale e caritativa.

Alle urne tra disordini e caos

Il 21 gennaio sono previste le elezioni generali in Bangladesh, ma non si può certo dire che la vigilia elettorale sia tranquilla né – al momento in cui scriviamo – si ha la certezza che tale data verrà rispettata. Anche l’Onu segue con preoccupazione gli sviluppi della situazione in quello che rappresenta uno dei più popolosi Paesi islamici al mondo.
Disordini e proteste di piazza si sono susseguiti nelle scorse settimane e hanno costretto il capo della Commissione elettorale, M.A. Aziz, ad autosospendersi dall’incarico per tre mesi. A sostituirlo è stato uno dei suoi vice, Mahfuzur Rahman. La Awami League chiede la rimozione di tutti i membri della Commissione elettorale ritenuti troppo legati al governo uscente del Bangladesh National Party, il Partito nazionalista del Bangladesh (Bnp) dell’ex premier Begum Khaleda Zia e al suo alleato, il partito d’ispirazione islamica, Jaamat-e-Islami. Da fine ottobre, quando il governo in carica ha lasciato il posto a uno provvisorio, alla fine di novembre almeno 40 persone sono morte e centinaia sono rimaste ferite in seguito agli scontri tra fazioni rivali.
A fine novembre, come detto, il direttore della Divisione Onu per l’assistenza elettorale, Craig Jenness, ha compiuto una visita di tre giorni nel Paese, incontrando il presidente Iajuddin Ahmed, anche capo del governo ad interim, Khaleda Zia, Sheik Hasina e membri della società civile.
Il panorama politico bangladese appare a dir poco turbolento e complesso. La Jaamat-e-Islami è il partito nel cui seno si annidano i gruppi estremisti; la Awami League è più laico, favorevole all’India. Poi c’è il Bnp, anch’esso islamico, fondato dal generale Zia che aveva preso il potere ed è stato ucciso: la moglie, Khaleda Zia, è a capo del Bnp, attualmente al potere, con l’appoggio della Jaamat-e-Islami. Quest’ultima ha grande capacità di mobilitazione delle masse (sia con la leva economica che con le minacce); non ha una struttura politica di alto livello, ma sta piano piano costruendola, anche se i gruppi estremisti spaventano la gente comune.

 

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