Serbia, la tigre sdentata
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Serbia, la tigre sdentata

Bugie senza pudore: il premier Vucic promette una politica economica aggressiva che farà scalare al Paese le vette delle classifiche regionali, ma intanto Belgrado è in coda a tutti<br>

Serbia, la tigre sdentata
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24 Febbraio 2016 - 16.30


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L’espressione, se non ha suscitato particolari reazioni fra i presenti in sala al Forum di Davos, ha colto senz’altro di sorpresa gli spettatori serbi che seguivano da lontano l’intervento del loro premier: nessuno in un Paese che segna da anni una crescita praticamente eguale a zero avrebbe mai pensato di paragonare la Serbia ad una “Tigre dei Balcani”, fanno osservare ora i media locali commentando l’intervento del loro primo ministro. In una sala gremita e alla presenza delle massime autorità politiche ed economiche di tutto il mondo,  Aleksandar Vucic si è forse fatto prendere un po’ la mano quando ha promesso di portare Belgrado rapidamente in cima alla lista degli Stati che trainano l’economia regionale, ovviamente “se il governo riuscirà a concludere le riforme avviate”.

In molti non hanno resistito a proseguire sulla scia della metafora concepita dal premier, interrogandosi su chi possa avere davvero paura di una tigre “sdentata” , come appare la Serbia oggi. Un’analisi di Dmitrije Boarev ricorda che proprio Belgrado si trova attualmente in fondo alla classifica ordinata secondo il Prodotto interno lordo dei Balcani occidentali. “La Macedonia – dice – è rimasta bloccata tutto l’anno scorso a causa di un duro conflitto fra maggioranza e opposizione, eppure ha realizzato una crescita del Pil di circa il 4 per cento. Il Montenegro si dice versi in una crisi politica a causa del processo di adesione nella Nato e dei conseguenti scontri fra maggioranza e opposizione, eppure ha visto nel 2015 un +4,3 per cento del Pil. Persino la Bosnia Erzegovina, che non riesce mai a formulare una politica comune, nel terzo trimestre dell’anno scorso ha segnato una crescita del 3,1 per cento. In quello stesso periodo la Croazia era senza un governo, ma è riuscita ad aumentare la ricchezza interna dell’1,7 per cento. Della Slovenia si dice abbia un ‘governo di dilettanti’, ma l’anno scorso ha registrato un aumento del Prodotto interno lordo del 2,2 per cento. E allora, si pone per forza la domanda su come sia possibile che solo la Serbia resti ferma”.

I dati di Belgrado sono in effetti tutt’altro che confortanti, soprattutto se si prendono in considerazione nel lungo periodo, a cominciare dal momento dello scoppio della crisi internazionale nel 2008: da quell’anno fino al 2014 il Pil è diminuito dello 0,5 per cento, laddove la diminuzione media nella regione balcanica è stata dello 0,2 e il Centro Europa è riuscito a mantenere un tasso pur minimo di crescita.

Negli ultimi tre anni, ovvero dal 2012 al 2014, l’economia serba è stata caratterizzata da una stagnazione pressoché totale, con una crescita dello 0,3 per cento annuo, mentre la media della regione balcanica è stata dell’1,8 per cento e quella dell’Europa centrale dell’1,9. Nel 2015 il Pil in Serbia è aumentato di un risicato 0,8 per cento, mentre i Balcani sono cresciuti del 2,4 e l’Europa centrale del 2,7. A controbilanciare l’ottimismo del premier è infine la classifica di Bloomberg, che l’anno scorso ha inserito la Serbia fra i 10 Paesi con le “economie più lente” al mondo. Secondo l’agenzia Belgrado avrà infatti, fra il 2014 e il 2017, una crescita media annua di appena lo 0,29 per cento. “Il premier Vucic – dice ancora Dmitrijev – che sicuramente ha a disposizione questi dati, per una qualche resistenza psicologica alle cattive notizie specialmente in periodo pre-elettorale ricorre al vecchio assioma comunista: se il passato è negativo, passiamo allora a lodare il futuro, rendiamolo migliore con la forza di volontà. A questo proposito ricordiamo alcune sue recenti dichiarazioni che vedevano la Serbia, in caso di un’acquisizione da parte cinese delle acciaierie di Smederevo, crescere del 2,5 per cento già quest’anno. Questo anche se tutte le previsioni parlano di un aumento massimo possibile del Pil, per il 2016, dell’1,8 per cento e solo nel 2017 del 2,2 per cento. Vucic ha anche detto che, se avessimo raggiunto tale accordo, nel 2017 avremmo visto una crescita del 4 per cento”.

Le ragioni della stagnazione registrata in Serbia sono numerose: innanzitutto, dice ancora Dmitrijev, “occorre notare che di regola nessun Paese che opera congelamenti e diminuzioni dei salari, con l’obiettivo di raggiungere una stabilità macroeconomica, registra poi dei grossi tassi di crescita”. L’accordo stretto nel 2015 con il Fondo monetario ha costretto ad operare dei pesanti tagli alle già magre pensioni e agli stipendi del settore pubblico, ed il lieve aumento applicato di recente non ha restituito neppure la metà della cifra decurtata inizialmente. Non sembra solo la stabilità delle finanze pubbliche l’unico ostacolo allo sviluppo economico nazionale, e fra i vari fattori si può anche annoverare, sempre secondo Dmitrijev, “un’inerzia del vecchio sistema” e delle vecchie strutture economiche jugoslave, più forte in Serbia che nelle altre più periferiche ex Repubbliche.

Oltre ad un problema di mentalità sollevato da Dmitrijev vi è un’incontestabile realtà formata da oltre 500 aziende statali ereditate dal periodo jugoslavo ed ora in attesa di essere privatizzate o di passare nelle mani del curatore fallimentare: secondo la legge in vigore almeno 300 di queste hanno già i requisiti per rientrare a pieno titolo nella seconda delle ipotesi, e adesso rischiano di trascinare la piccola Serbia in un baratro economico e occupazionale. Un ultimo fattore che pesa sull’economia nazionale è infine l’incapacità di attirare sufficienti investimenti a capitale straniero. Per produrre una crescita del 4 per cento questi dovrebbero essere pari a 25 milioni di euro l’anno, mentre nel periodo fra 2012 e il 2014 il loro livello ha toccato il fondo, con la percentuale più bassa (18,7 per cento) di tutta l’Europa centro-orientale. Il risultato è inferiore del tre per cento rispetto alla media dell’area ed è dato innanzitutto dagli investimenti pubblici, inferiori del due per cento rispetto agli altri Paesi e poi da quelli privati, più bassi dell’uno per cento.

(Fonti: Vreme – agenzie)
 

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