Quando da bambine ti insegnano che essere picchiate significa essere amate
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Quando da bambine ti insegnano che essere picchiate significa essere amate

'Mia figlia picchiata a scuola. Ma la vera ferita è quel commento dell'infermiere'. Quando la violenza di genere si insegna attraverso l'abuso della parola 'amore'.

Quando da bambine ti insegnano che essere picchiate significa essere amate
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12 Ottobre 2015 - 21.34


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di Claudia Sarritzu

Ogni volta che si continua ad associare la parola “amore” a un gesto violento, si uccide una donna. Si uccide la sua dignità. Si uccidono anche gli uomini. Quelli che sanno amare davvero.

Oggi un fatto di cronaca ha scosso gli animi. Una frase detta con noncuranza e terribile spontaneità, ha risuonato dall’accettazione di un ospedale pediatrico di Columbus, in Ohio, fino a qui.

Guardate bene la foto di questa bambina. Ha solo 4 anni ed è stata colpita violentemente da un compagno di scuola. No. Ovviamente non è lui il misogino. A quell’età la violenza (anche se sbagliata) è ancora democratica, non guarda in faccia il genere. Ci si picchia per prepotenza non perché si è maschi e femmine.

Il vero violento in questa storia è reo di aver pronunciato questa frase atroce: “Scommetto che gli piaci”. Sono le parole di un infermiere dell’ospedale che ho citato sopra. Si è rivolto così a una bimba di quattro anni che dovrebbe credere che con le carezze si trasmette affetto, e che questo non passa per i lividi.

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Una frase che può creare più danni di un pugno, nella testa di una bambina, perché a quell’età si è spugne. Si assorbe tutto, si imparano i ruoli sociali. Per fortuna però questa piccola creatura ha una madre consapevole, che pretende che sua figlia, come tutte le bambine che un giorno diverranno donne, non vesta mai il ruolo di vittima. Merrith Smith, ha così deciso di scrivere su Facebook una lettera aperta a quell’uomo, e ha ricevuto migliaia di condivisioni. “L’idea che passi il messaggio che fare del male a qualcuno significhi volergli bene è inaccettabile. In quel momento, ferite e in un posto sconosciuto, avevamo bisogno di parole di aiuto e non di quel tipo di conforto. Forse lei ha pensato di alleggerire la situazione ma non lo ha fatto. E’ l’ora di assumerci la responsabilità per quello che diciamo ai nostri bambini. Non si può dire a mia figlia di 4 anni che chi l’ha ferita le vuole bene”.

Non si può dire perché la nuova sfida che attende noi donne “emancipate”, in confronto alle nostre nonne: è quella di comprendere che chi ci fa del male, con pugni o parole, non ci ama, non ci vuole bene, ma ci odia, odia la nostra libertà, la nostra volontà di esistere e di esistere per noi stesse.

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