Libia: quando i rivoluzionari tradiscono la rivoluzione
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Libia: quando i rivoluzionari tradiscono la rivoluzione

A scontrarsi nelle strade di Tripoli sono, a due anni dalla Rivoluzione, gli stessi insorti che hanno combattuto Gheddafi, alleati fino a ieri l’altro contro il dittatore.

Libia: quando i rivoluzionari tradiscono la rivoluzione
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9 Novembre 2013 - 10.13


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da Tripoli

Francesca Marretta

Alla notte di battaglia di giovedì a Tripoli è seguita una giornata di calma e mediazione. Venerdì a tarda sera i clienti del Mahari Radisson Blu Hotel sperano di non passare un altra nottata nei sotterranei. I vetri dell’albergo, colpito più volte il giorno prima, sono in frantumi. Si va a dormire sperando che i tonfi di artiglieria pesante non portino ancora via il sonno.

Nelle scorse ore la capitale libica ha vissuto un flashback. Sembrava tornata ai giorni della guerra civile. La cronaca degli scontri è ormai nota. Le violenze sono scaturite in seguito alla morte in ospedale del leader di un battaglione di una Milizia di Misurata, ferito in precedenti scontri con una milizia tripolitana ad un check point.

Gli uomini armati di Misurata sono arrivati in forze a Tripoli la scorsa estate su richiesta del Presidente del Parlamento (GNC), vicino ai Fratelli Musulmani. È contro questa parte politica che il Primo Ministro Ali Zeidan ha puntato il dito dopo il suo rapimento-lampo lo scorso ottobre, denunciando un tentativo di colpo di Stato.

A scontrarsi nelle strade di Tripoli, come nel resto del paese, sono, a due anni dalla Rivoluzione, gli stessi insorti che hanno combattuto Gheddafi, alleati fino a ieri l’altro contro il dittatore.
Sui libri paga del governo libico il numero dei miliziani registrato attualmente supera abbondantemente quello degli uomini che hanno imbracciato le armi per liberare il paese due anni fa. Alcuni hanno al massimo sparato in aria per festeggiare la caduta del vecchio regime.

Le violenze di giovedì a Tripoli, che in queste ore ha rubato la scena a Bengazi nelle cronache degli scontri che si registrano quotidianamente in questo paese, mostrano quanto le forze armate libiche siano impotenti e spesso vittime dei gruppi armati (a Bengasi sono stati uccisi decine di ufficiali). Ai tempi del rapido intervento internazionale in Libia le cronache descrivevano i rivoluzionari come una sorta di armata Brancaleone. Oggi questi miliziani vengono integrati nelle forze armate di un paese in cui non esisteva un esercito forte. Com’è noto, il Colonnello Beduino preferiva la lealtà dei mercenari, fedeli come lui ad Allah e sopratutto al Dio danaro.

La Libia post-rivoluzionaria non è scesa in piazza a ottobre per celebrare il secondo anniversario della caduta dell’ex Raiss. Gheddafi non è certo rimpianto. Ma chi ha visto morie i propri cari per la democrazia non pensava che il prezzo della libertà fosse vivere in una costante insicurezza.
C’è chi sostiene che per comprendere la crisi libica occorra mettere nel conto la psicologia degli abitanti di questo paese.

“I capi miliziani hanno fatto la guerra per cacciare Gheddafi, ma sotto sotto vorrebbero prenderne il posto, sia pure nei rispettivi feudi. Ci sono tanti piccoli Gheddafi”, sostiene un giovane giornalista di Bengasi, molto attivo nei social media, che aggiunge: “Il problema dei libici è l’ego. A Misrata si sentono i migliori, ma pure i miliziani di Bengasi pensano di essere i più forti, come a Tripoli e Zintan”.
A due anni dalla Rivoluzione la produzione petrolifera del paese è in ginocchio, danneggiata ad est da istanze autonomiste e ad ovest da rivendicazioni della minoranza berbera che si sente poco rappresentata in un processo costituzionale che stenta a decollare.

Se non fosse per il petrolio la Libia entrerebbe nella classifica dei “failed States”, gli Stati falliti. Eppure le potenzialità di questo paese sono sulla carta sono incredibili: un territorio enorme per una popolazione di circa sei milioni di abitanti (meno di quattro per chilometro quadrato), spiagge, oasi, siti archeologici spettacolari, deserto.

Nella Libia democratica lo Stato è debole e le milizie sono forti. Finché non saranno messe a tacere le armi un dialogo nazionale resterà fittizio. Nel paese regna una sorta di equilibrio del terrore. Se le milizie non arrivano allo scontro frontale finale è perché sanno che la forza di fuoco contrapposta porta potenzialmente alla disfatta comune. Così il conflitto continua a intensità relativamente bassa, come nella notte di giovedì.

La grande differenza rispetto alla guerra del 2011 è che la popolazione civile si tiene in disparte, non ne può più degli uomini in armi.

Se le piazza libiche torneranno a riempirsi come nel febbraio di due anni fa sarà per scacciare le milizie e ricominciare a vivere. Se i libici hanno cacciato Gheddafi manderanno via, prima o poi, anche quei miliziani che ne sono gli ectoplasmi.

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